I galeoni spagnoli partivano da Acapulco, in Messico, e arrivavano a Manila per commerciare con le giunche cinesi. Foto via MaxPixel

Se credete che la globalizzazione sia nata con la Coca-Cola vi sbagliate

Eugenio Cau

Tutto parte da una storia di galeoni spagnoli, monete d’argento e sete cinesi

Iniziamo con un quiz. Chi ha inventato la globalizzazione? Difficile a dirsi, visto che “globalizzazione” è un termine applicato post ante a un fenomeno esistito quasi da sempre. Ma se si dovesse cercare il padre della globalizzazione moderna, quel gran movimento che ha unito tutti i continenti in un unico flusso di merci, finanze, persone, forse si potrebbe azzardare Adam Smith, che ha posto le basi teoriche dell’economia capitalistica. Magari si potrebbe pensare alla regina Vittoria, sotto il cui dominio l’impero britannico, forza globalizzante per eccellenza, raggiunse la sua massima gloria. Forse i 730 delegati di Bretton Woods, che crearono l’ordine finanziario internazionale. Sbagliato. Il padre della globalizzazione è uno sconosciuto esploratore e chierico spagnolo vissuto nel sedicesimo secolo, il frate agostiniano Andrés de Urdaneta.

    

Seconda domanda. Qual è stata la prima città globale della storia? Immediatamente, viene da rispondere di nuovo Londra. Magari New York, o comunque una delle grandi città dei due imperi anglosassoni che dominano e uniscono il mondo da più di due secoli. Sbagliato ancora. La prima città globale della storia, dove convergevano merci e persone da tutti i continenti, è stata Città del Messico.

   

"The Silver Way" di Peter Gordon e Juan José Morales sostiene che gli spagnoli inventarono la globalizzazione nel Cinquecento

Queste risposte non convenzionali sono contenute in un libro da poco uscito per i tipi di Penguin e intitolato “The Silver Way: China, Spanish America and the Birth of Globalisation, 1565-1815”. I suoi due autori, Peter Gordon e Juan José Morales, sono rispettivamente il direttore della Asian Review of Books e l’ex presidente della Camera di commercio spagnola a Hong Kong. Come si desume dalle loro qualifiche l’Asia, e in particolare la Cina, giocano un ruolo preponderante in questa storia alternativa della nascita della globalizzazione.

   

Andrés de Urdaneta è il più importante esploratore spagnolo di cui nessuno ricorda il nome. Abile cartografo e conoscitore dei mari, nel 1565 scoprì una delle più importanti rotte marine della storia, la rotta di ritorno del Pacifico, o “tornaviaje”. Prima di Urdaneta, le navi europee potevano attraversare l’oceano Pacifico solo in una direzione: da est a ovest, dalle coste del Messico, colonia spagnola, fino alle isole del sud-est asiatico. Una volta arrivate in Asia, nessuno conosceva le correnti che consentivano di tornare indietro: per tornare al punto di partenza bisognava circumnavigare il mondo. Partendo dalle Filippine, altro possedimento della Corona spagnola, Urdaneta spostò la rotta di centinaia di chilometri a nord, approfittando delle grandi correnti circolari che attraversano il Pacifico, e dopo 130 giorni di viaggio arrivò sulle coste messicane di Acapulco. La corte spagnola accolse la notizia con enorme entusiasmo: per la prima volta si apriva agli europei una rotta di commercio diretto con l’Asia, e in particolare con il ricchissimo e potente impero della Cina.

    

La rotta scoperta da Urdaneta, che da Acapulco in Messico portava a Manila nelle Filippine e viceversa, divenne per i successivi due secoli la più importante rotta marittima del mondo, e ancora oggi è uno dei grandi vettori della navigazione intercontinentale. Funzionava così: i galeoni spagnoli partivano da Acapulco carichi d’argento. Grazie alle grandi scoperte delle miniere messicane e peruviane, la corona iberica aveva fin troppo argento da smaltire, e aveva trovato un eccezionale compratore nella dinastia Ming cinese, che da poco tempo aveva adottato il “silver standard”. I Ming avevano reso obbligatori i pagamenti in argento in tutto l’impero, e il prezioso metallo era diventato richiestissimo. I galeoni arrivavano a Manila, grande hub del commercio asiatico, e qui si incontravano con le giunche cinesi. I mercanti europei scambiavano l’argento per le sete, i tessuti, i mobili, le ceramiche prodotti dalla Cina, che oggi come allora era la manifattura del mondo. Poi gli spagnoli tornavano ad Acapulco grazie alla rotta di Urdaneta, attraversavano via terra il Messico passando per la sua capitale e salpavano di nuovo verso l’Europa, dove portavano le meraviglie e le ricchezze del Celeste impero. In Cina, la valutazione dell’argento era così elevata che gli spagnoli potevano riportare in Messico ricchezze inimmaginabili. I testimoni del tempo dicono che anche un semplice marinaio guadagnava così tanto in un solo viaggio da poter vivere in maniera agiata per tutto il resto della vita. La rotta fu chiamata “ruta de la plata”, rotta dell’argento, e i galeoni che la percorrevano erano i “galeoni di Manila”. Il primo partì nel 1573 e l’impatto di queste spedizioni sull’economia spagnola fu tale che presto la Corona limitò i viaggi: non più di uno all’anno, altrimenti i prodotti e le sete cinesi avrebbero invaso il mercato e messo fuori commercio la manifattura autoctona. Ricorda qualcosa?

     

La "via dell'argento" mostra un modello di globalizzazione alternativo a quello anglo-americano, che piace ai cinesi

Questo genere di déjà vu ricorre in tutta la storia dei galeoni di Manila, e secondo i due autori di “The Silver Way” non si tratta di un caso. Intorno alla via dell’argento scoperta da Urdaneta, infatti, si sviluppò il primo esempio di globalizzazione intesa in senso moderno. Gordon e Morales elencano tutte le caratteristiche della globalizzazione odierna: l’esistenza di reti globali di commercio, le “shipping lines”, cioè le grandi imprese di trasporto marittimo di navi cargo, i mercati finanziari integrati, lo scambio di culture e il passaggio libero di persone. La grande rotta degli spagnoli le rispetta tutte.

    

Con il tornaviaje di Urdaneta si ricollegavano per la prima volta nella storia tutte le rotte marittime del mondo – quella dell’Atlantico, del Pacifico, dell’oceano Indiano – in entrambe le direzioni, cingendo l’intero globo e tenendo insieme tutti i continenti: Europa, Asia, Americhe e Africa. Queste rotte crearono la prima rete di commercio globale. I galeoni di Manila formarono inoltre la prima linea di navigazione transoceanica (“shipping line”) intesa in senso moderno. Sulla ruta de la plata viaggiavano a intervalli regolari delle navi cargo costruite appositamente per il grande commercio: con la riduzione dei viaggi, infatti, gli spagnoli misero in mare degli enormi galeoni pensati apposta per contenere quante più merci possibili, fino a 200 tonnellate: erano le navi portacontainer del Seicento. L’argento spagnolo, inoltre, si trasformò ben presto in valuta globale – la prima usata in tutti i continenti. A partire dal Settecento, la corona iniziò infatti a coniare i dollari spagnoli, che grazie alla globalizzazione dei commerci iberici divennero valuta accettata in tutto il mondo: nei possedimenti spagnoli, ovviamente, ma anche in Cina, dove l’impero non aveva mai coniato una moneta unica in argento e molti commerci anche interni iniziarono a farsi con le “teste di Buddha” – i cinesi chiamavano così i dollari spagnoli d’argento per la faccia grassoccia e pasciuta di re Filippo III che vi era incisa sopra. Per secoli, il dollaro spagnolo in argento fu la prima moneta universale. Lo yuan cinese e lo yen giapponese (entrambi significano: “rotondo”) derivano dalla moneta spagnola, così come il dollaro americano. Negli Stati Uniti il dollaro spagnolo era così importante che ha avuto corso legale fino al 1857. Grazie alla ruta de la plata, i mercati finanziari diventano per la prima volta globali e interconnessi: dalla fluttuazione del valore dell’argento in Cina dipendeva l’andamento dell’economia spagnola, e al tempo stesso il Celeste impero diventò dipendente, per la sua stabilità finanziaria, dall’attività mineraria nei vicereami iberici.

    

La prima città globale della storia, in cui merci e persone di tutto il mondo si incontravano, non è stata New York ma Città del Messico

Ma non sono solo le merci e i denari a iniziare a circolare a livello globale. La ruta de la plata aprì la strada anche alla globalizzazione culturale, e soprattutto al movimento delle persone. Nella colonia spagnola di Manila nacque in quegli anni la prima Chinatown del mondo. Più di diecimila cinesi si trasferirono per abitare nella città da poco fondata, trasformandola in un centro commerciale di primo livello. Ma fu Città del Messico a subire il cambiamento più imponente. Trovandosi al centro della ruta de la plata, snodo di collegamento tra la madrepatria spagnola a est e i commerci asiatici a ovest, l’antica capitale azteca si trovò per due secoli a essere il centro del mondo. Gordon e Morales stimano che durante gli anni dei galeoni di Manila si stabilirono in Messico tra i 40 mila e i 60 mila asiatici, in gran parte cinesi e filippini, che divennero barbieri, danzatori, sarti, fabbri, alcuni schiavi – ma soprattutto mercanti. La piazza di Città del Messico era un infinito mercato a cielo aperto in cui tutte le culture del mondo si incontravano – non solo quella spagnola e asiatica, ma anche indiana, africana, italiana. Città del Messico divenne inoltre ricchissima. Grazie all’afflusso sempre costante di beni e oro dalla Cina, si trasformò nella capitale mondiale del lusso. Molti storici hanno raccontato con toni vividi lo splendore di Città del Messico in quel periodo. I viaggiatori del tempo hanno lasciato resoconti stupiti di come tutto sembrasse ricoperto di oro zecchino e come perfino gli umili artigiani andassero vestiti di seta e con abiti di fogge stravaganti. Come nella New York di oggi, la globalizzazione trasformò Città del Messico in una città eccezionalmente opulenta e multiculturale – la prima città globale.

    

Il pamphlet di Gordon e Morales non ha solo l’intento di raccontare una storia poco ricordata. I due autori vogliono mostrare non solo che gli spagnoli e i cinesi si inventarono il primo esempio di globalizzazione, ma anche che ne inventarono una versione alternativa rispetto a quella che ha conquistato il mondo sotto i due imperi anglosassoni.

     

A partire dal Diciannovesimo secolo, il principale vettore della globalizzazione prima britannica e poi americana fu la cosiddetta “gunboat diplomacy” la diplomazia delle cannoniere. L’impero di Sua Maestà nell’Ottocento, quando ormai i galeoni di Manila avevano concluso i loro viaggi (l’ultimo fu nel 1815; con l’indipendenza del Messico dal regno spagnolo tutto si interruppe) ripresero i commerci con il Celeste impero e con il Giappone a suon di cannonate. Era successo lo stesso con l’India, che poi divenne una colonia. Lo stesso fecero all’inizio del Novecento gli americani ad Haiti. Alla fine del Cinquecento, invece, gli spagnoli non potevano aprirsi la via della Cina con le armi: il paese asiatico era la più grande potenza manifatturiera e militare del mondo, e gli europei avrebbero trovato un’accoglienza tutt’altro che docile. Così adottarono una nuova strategia: integrazione commerciale e per quanto possibile culturale senza interferenza negli affari interni dei rispettivi stati. La diplomazia va lasciata ai mercanti, non ai cannoni.

     

Il navigatore e chierico Andrés de Urdaneta scoprì la prima rotta per attraversare l'oceano Pacifico da ovest a est

Ora che la Cina sta tornando agli antichi splendori, e che Pechino si appresta, nel giro dei prossimi decenni, a tornare a essere la prima potenza del mondo, bisogna ripensare la globalizzazione come siamo abituati a intenderla, sostengono Gordon e Morales. Per oltre due secoli e mezzo la globalizzazione a spinta anglo americana ha significato un processo di integrazione continua e crescente di “leggi, lingue, valute, tassi d’interesse, filosofie, pratiche di business e priorità generali che hanno la meglio sulle priorità particolari”. Negli ultimi secoli l’alternativa a questo tipo di globalizzazione è stata la guerra. Ma se tra la via della completa integrazione e la via della guerra ci fosse una terza alternativa, la “via dell’argento” inventata dagli spagnoli, che come modello non prevede né convergenza né conflitto armato, ma una collaborazione tra parti che rimangono separate? Sicuramente la Cina di oggi amerebbe questa possibilità. Insieme ad altre potenze, come la Russia, Pechino già da tempo si prodiga per interferire con l’ordine mondiale perfettamente integrato che gli Stati Uniti hanno coltivato e protetto nell’ultimo secolo. Non è un caso, inoltre, che Gordon e Morales citino il progetto “One Belt, One Road” del presidente cinese Xi Jinping, la “nuova via della seta” che deve unire commercialmente –  ma non politicamente – decine di paesi asiatici ed europei alla grande economia cinese. La nuova via della seta discende per ideologia e intenti dalla via dell’argento che collegò l’impero spagnolo e l’impero cinese tra il Cinquecento e l’Ottocento, notano i due autori di “The Silver Way”, e lo sviluppo di questo progetto potrebbe presentare un’occasione per rinverdire l’antico modello di globalizzazione. A Pechino piacerebbe. Stati Uniti ed Europa, che grazie alla globalizzazione hanno prosperato, potrebbero essere d’altro avviso.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.