Vladimir Putin (foto LaPresse)

L'impero del ghiaccio

Stefano Cingolani

Guardate gli occhi freddi di Vladimir Putin e poi pensate alle ricche miniere che si estendono sotto una crosta di terra e acqua gelata. Avrete l’immagine perfetta della Russia di oggi

“Il destino della Russia è senza alcun dubbio integralmente europeo e occidentale. Diventare un vero e autentico russo significa diventare fratello di tutti gli uomini, un uomo universale. Oh, i popoli d’Europa non hanno idea di quanto sono a noi cari” (Fëdor Dostoevskij, Mosca 1880, discorso per il monumento a Puskin)


Mezzanotte. Il secondo turno è appena cominciato e il segretario del partito mostra la tavola imbandita nell’ufficio del direttore della miniera. Sono arrivati gli ospiti, gli uomini più meridionali che mai abbiano messo piede nella città più settentrionale del mondo intero. E’ gennaio a Norilsk, 400 chilometri oltre il circolo polare artico e fuori fa 25 gradi sotto zero, un’alta coltre di neve grigiastra ricopre i tetti, si erge ai lati delle strade ghiacciate e rifrange le luci al neon. D’inverno è sempre notte, nella breve estate è sempre giorno, dunque qui si lavora e si vive senza soluzione di continuità, spaccando in due la giornata. A rotazione, c’è chi riposa da mezzanotte a mezzogiorno e chi fa il contrario. Scuole, asili nido, ospedali, palestre, fabbriche e miniere, tutto è organizzato su turni H24. “Vedete, noi vogliamo creare l’uomo polare”, esordisce il segretario e il compagno direttore lo sostiene: “Chi viene qui ha uno stipendio doppio, due mesi di ferie sul mar Nero, scatti di carriera accelerati. Pensate a un ingegnere: che sfida per lui perforare il permafrost”. Si levano i bicchierini ricolmi di vodka e si brinda al grande sogno. Un giovane giornalista chiede candidamente: “Per quanto tempo restano in media i lavoratori?”. “Qui ci si sposa, si fanno figli, siamo pieni di bambini che hanno un trattamento speciale, con bagni di sole artificiale per rafforzare le ossa”, interviene il segretario. Risponde sincero il direttore: “La permanenza massima è dieci anni. Ma crediamo possa aumentare”.

Norilsk, oggi come
nel '77. E' la città più settentrionale al mondo e la più inquinata,
con i suoi minatori,
la statua di Lenin e la moschea 

E’ un ricordo personale del lontano 1977, a Mosca comandava Leonid Breznev e l’uomo polare allora non resisteva a lungo, nemmeno i prigionieri condannati ai lavori forzati in miniera (naturalmente il compagno segretario negava che ci fossero ancora, ma ammetteva che le purghe staliniane avevano riempito i pozzi). Oggi quell’uomo nuovo, feticcio del comunismo, è scomparso. La città è sempre lì, la più settentrionale al mondo e la più inquinata, con i suoi minatori, la statua di Lenin e la moschea, dove prega la minoranza tatara. La popolazione è raddoppiata, il segretario del partito e il direttore sono stati soppiantati da oligarchi e manager. Dal 2001 è stato deciso che, vista la sua importanza strategica, nessuno straniero può visitarla, tranne i bielorussi. Tutto è sotto l’ombrello della Norilsk Nickel posseduta in parti uguali da Vladimir Potanin, presidente operativo, e Oleg Deripaska (che controlla il colosso Rusal, maggiore produttore al mondo di alluminio) mentre Roman Abramovich dal suo quartier generale londinese di Chelsea, detiene una quota minore. Stiamo parlando di tre degli uomini più ricchi del paese, tra i più potenti nel nuovo impero di zar Vladimir, un impero di ghiaccio non solo per lo sguardo gelido e immoto negli occhi cerulei di Putin, ma perché proprio sotto la crosta permanente di terra e acqua gelata si nasconde la resilienza economica e militare della nuova Grande Russia. Una forza che nasconde un’intrinseca debolezza.

Nickel, rame, palladio, alluminio, fanno da cerniera tra la vecchia e la nuova economia, l’uranio resta il metro con il quale giudicare chi può ambire al titolo di potenza globale, gli idrocarburi rappresentano la linfa che consente di vivere al mondo intero. Norilsk è al centro di questa triade del potere. Poco più a sud del circolo polare, a Urengoj, nella Siberia nord occidentale, si trova uno sterminato giacimento di gas naturale e petrolio, Da lì parte quel gigantesco fascio di gasdotti e oleodotti che attraverso l’Ucraina arriva in Slovacchia, dove si dirama verso est fino a Mannheim in Germania e verso sud fino a Tarvisio. Un cordone ombelicale lega l’Europa centrale e meridionale alle immense steppe di quella che Aleksandr Dugin, uno degli ideologi più apprezzati nella Russia putinista, chiama Eurasia, non una nozione geografica, ma una categoria dello spirito, una “missione delle razze nomadi” che si sono mescolate agli slavi e agli eredi dei Rus, i vichinghi scesi dalla Svezia fondatori del ducato di Kiev. Rimasta senza maestri (buoni e cattivi) con la caduta dell’Unione sovietica, l’intellighenzia ha recuperato in modo spesso nostalgico il grande patrimonio culturale dell’Ottocento, da quello dei populisti a quello dei nazionalisti. E come allora, l’élite intellettuale e politica si è divisa tra occidentalisti e slavofili. I primi ebbero il loro momento nel decennio Novanta, i disastri della presidenza Eltsin alimentarono gli altri che stanno influenzando il “putinismo”, come lo chiama Walter Laqueur in un brillante libro pubblicato nel 2015.

La Russia manovra
da un lato
per destabilizzare,
in Francia, in Italia
o nei Balcani.
Dall'altro cerca
un dialogo con Bruxelles

I mass media europei e americani si sono eccitati per l’arresto di Aleksei Navalny che conduce la sua opposizione via internet e per le proteste dei giovani. C’è chi immagina una sorta di rivolta web, chi ricorda la Rivoluzione bianca, con la protesta a Mosca del 10 dicembre 2011, la più grande dopo l’implosione dell’Unione sovietica. L’impero di ghiaccio comincia a sciogliersi? L’occidente aspetta un nuovo disgelo dopo quello che seguì la morte di Stalin. Secondo Laqueur oggi la Russia è un “petrostate”, uno stato petrolifero, gli alti e bassi del potere politico dipendono dunque dai prezzi del petrolio. Un economicismo così sarebbe stato condannato persino da Karl Marx, ma c’è una qualche corrispondenza fattuale.

Dopo una tragica partenza (nel 2000 il naufragio del sommergibile nucleare Kursk nel quale annegarono cento marinai, due anni dopo l’attacco ceceno nel teatro Dubrovka a Mosca con 168 morti tra ostaggi e sequestratori) Putin consolida la presa sul paese proprio negli anni in cui il prezzo del petrolio, che regola anche quello del gas, s’impenna fino ad arrivare a 150 dollari al barile. La crisi del 2008-2010 s’abbatte come un’inattesa catastrofe, il greggio precipita e si aprono ampie falle nel consenso, non solo tra gli intellettuali di Mosca, Novgorod o di Leningrado (ora San Pietroburgo) dove il presidente ha costruito la propria ascesa, ma anche nel narod (la nazione, il popolo) solidamente putiniano. Ora la caduta del petrolio è finita, anzi i prezzi sono in leggera risalita, il Cremlino ha ripreso il controllo, l’economia sta andando un po’ meglio, con una crescita dell’1,5 per cento. Troppo poco per un paese che resta, economicamente parlando, in via di sviluppo, con un reddito pro capite di 15 mila dollari l’anno (l’Italia è a 36 mila).

La dipendenza dagli idrocarburi (pari al 50 per cento del prodotto lordo) e dalle materie prime plasma l’economia russa secondo un modello da paese in via di sviluppo e la sua classe dirigente assomiglia alla borghesia compradora sudamericana. L’ultimo rapporto della Banca mondiale punta il dito sulla mancanza di riforme strutturali. Putin è consapevole che qui sta la chiave per una vera rinascita e lo sanno bene i siloviki (i potenti) che vengono dal Kgb e formano la guardia palatina o gli oligarchi che si sono piegati (gli altri come Michail Chodorkovskij e Boris Berezovskij sono stati incarcerati o si sono suicidati). Ma nessuno è stato in grado di cambiare marcia.

L'occidente aspetta
un nuovo disgelo dopo quello che seguì
la morte di Stalin.
Gli alti e bassi del potere dipendono dai prezzi
del petrolio

Esiste oggi una rinnovata dialettica tra liberisti e statalisti. Ai primi appartengono Alexej Kudrin (ex ministro delle Finanze, uomo influente che ha aiutato Putin nella sua ascesa al potere), Elvira Nabiullina, capo della Banca centrale e Anton Siluanov, ministro delle Finanze in carica già vice di Kudrin (c’era anche Alexej Ulyukaev, ministro dello Sviluppo, ma è stato incriminato per corruzione e silurato). Gli statalisti fanno parte del Club Stolypin, così chiamato in onore a un leggendario riformatore nell’ultima fase della Russia zarista. Gli esponenti più in vista sono Sergei Glazyev, consigliere del presidente ed eminente accademico, Boris Titov, leader del Partito della crescita e Andrei Klepach, vice presidente della Vnesheconombank ed ex ministro dello Sviluppo. I liberali fanno conto sul sostegno della Banca centrale, gli altri hanno il patronage di Andrei Belousov che ha l’orecchio di Putin sulle questioni economiche. Il conflitto tra i due gruppi è aperto e nel maggio scorso è stato al centro del confronto nel Presidium del consiglio economico presidenziale, ma non è uscita una strategia unitaria, Gli uomini del club Stolypin vogliono aumentare le spese finanziate dal bilancio statale e stampare moneta. Per coprire il disavanzo, dovrebbe essere reintrodotta una tassazione sul modello di quella dei paesi sviluppati. Il Centro di studi strategici guidato da Kudrin, al contrario, punta su investimenti privati, sostiene che le banche commerciali hanno già abbastanza liquidità, vuole mettere fine alla “nuova guerra fredda con l’occidente” e liberalizzare l’economia. “E’ proprio il fallimento delle riforme a minacciare la sicurezza russa”, ha scritto Kudrin nel rapporto strategico chiesto da Putin e pubblicato all’inizio di quest’anno.

Due ricette diverse, due strade che possono portare a mete addirittura opposte. Che fare? Per Lenin bisognava fare la rivoluzione. Oggi in occidente sono le forze progressiste a volerlo e s’attaccano a ogni barlume di speranza, a ogni movimento nella società urbana della Russia occidentale che è vivace, articolata, malmostosa, fertile. Ma nessuno conosce che cosa succede a Norilsk e nemmeno a Vladivostok. Nessuno sa interpretare la Narodnaia Volia (la volontà del popolo). Henry Kissinger, seguace della Realpolitik e ammiratore del principe Metternich, vuole applicare con Mosca la sua dottrina che ha funzionato con Pechino. “Putin non è Hitler. Negoziare con lui, a condizioni precise, è nell’interesse di tutti”, dichiara. Forse sottovaluta i Dugin (come sempre hanno fatto gli occidentali con le correnti profonde del pensiero e dell’animo russo), ma non sbaglia su Putin che, alla scuola del Kgb, ha letto il Principe di Machiavelli e il breviario per i politici del cardinal Mazzarino.

Il Cremlino cerca di infilarsi nelle contraddizioni politiche e sociali aperte in occidente. Ha avuto successo negli Stati Uniti, ma adesso, fateci caso, ha raffreddato gli eroici furori dei trumpisti. Putin nel 2009 incontrò il neo eletto Barack Obama a Camp David un mese dopo l’insediamento. Fu un disastro. Il presidente russo chiese di fatto luce verde a una nuova edizione della sovranità limitata negli stati confinanti. Ma tornò a Mosca con le pive nel sacco e da allora le relazioni con Washington si logorarono sempre più. Adesso che le cose sembrano cambiare non è fissato nessun tete-à-tete tra i due presidenti. Pesano le accuse e le polemiche sulle manovre russe e i legami pericolosi tra l’entourage trumpiano e quello putiniano, o forse è Mosca a non voler stravincere?

La Realpolitik
di Kissinger: "Putin
non è Hitler: Negoziare con lui, a condizioni precise, è nell'interesse di tutti"

Con l’Unione europea le cose sono più complicate. Putin lascia a Trump il tripudio per la Brexit, per lui la relazione chiave è con la Germania. Si tratta di una costante storica della politica estera russa, ma oggi è ancora più importante, tanto che la tregua in Ucraina nel 2015 è stata trattata direttamente con Angela Merkel, la quale, però, si è fatta accompagnare da François Hollande. I tedeschi post-nazisti non hanno mai voluto esercitare una leadership internazionale nemmeno dopo l’unificazione, ma l’abbandono di Londra da un lato, il neo-isolazionismo americano dall’altro, stanno cambiando le cose. Berlino, tuttavia, non intende procedere con relazioni bilaterali, vuole invece che il rapporto venga allacciato con l’Unione europea e non tagli fuori gli Stati Uniti. Di qui la cautela sulla revoca delle sanzioni.

La Russia, dunque, da un lato manovra per destabilizzare il destabilizzabile, in Francia, in Italia, nei paesi dell’Europa centro-orientale o nei Balcani che restano ancora una polveriera. Dall’altra cerca un dialogo con Bruxelles per arrivare a una partnership speciale battezzata dalla fine dell’embargo. Muoversi su due binari (o anche più) è un classico della diplomazia moscovita per la quale la doppiezza è una suprema virtù purché sia accompagnata dalla forza (la volpe e il leone di Machiavelli). Strategia che può diventare vincente di fronte a una Unione europea priva di politica estera comune e di una amministrazione americana che cada in mano a dilettanti allo sbaraglio.

Restano, naturalmente, tutti i nodi da sciogliere sul fronte internazionale (a cominciare dal precario status di una Ucraina divisa) e su quello interno (un’autocrazia che basa il suo potere sulla polizia segreta). I fan europei considerano Putin il baluardo contro l’Islam (cosa che non ha mai detto vista anche la presenza islamica tra i “popoli delle steppe”) e il nuovo defensor Christi (pensate dove può arrivare il post-comunismo). I realisti vogliono riconoscere alla Russia uno status di grande potenza che forse non merita, ma al quale aspira disperatamente; dunque bisogna trattare. Su che basi? Secondo Kissinger, “l’Ucraina deve restare indipendente, ma senza entrare nella Nato», mentre il destino della Crimea può fare parte del negoziato. E sulla Siria, va stabilito con chiarezza che “la Russia non ha diritto a stare in medio oriente”. Non sono esattamente i termini che piacciono al Cremlino il quale, però, è più debole di quel che vuol sembrare. Dice ancora Kissinger: “Sul piano militare, la Russia non è in grado di batterci. Il suo prodotto lordo è più piccolo del pil di ciascun paese europeo membro del G7, e il suo peso non è paragonabile alla nostra rivalità strategica con la Cina”. Dunque, alla Russia non giova provare a destabilizzare l’occidente al quale a sua volta non conviene destabilizzare la Russia. Il nuovo disgelo sarà lungo, lento e pieno di trappole, ma non ha alternative, purché non si risvegli il dottor Stranamore.