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Libertà e pace, non pedagogia. Guida al grande romanzo epico dell'Europa

Giuliano Ferrara

Le celebrazioni sono come la Corazzata Potemkin, una boiata pazzesca. Ma la storia che le sottende è fenomenale e oggi è una genuina necessità vitale nel secolo dei B movie di Washington, dei thriller a Mosca e del carnage islamico

L’Europa non è una insopportabile pedagogia, è o può essere un bel racconto. Perfino una serie, se solo sapessi che cos’è una serie (nonostante gli sforzi encomiabili di Mariarosa Mancuso per spiegarmelo). Intanto ha settant’anni, non sessanta, e forse qualcuno di più. Nasce in America, che a sua volta era nata dall’Europa ma via mare e per grazia di Dio, letteralmente, il Dio del Mayfair e dei Padri fondatori, insomma la cultura dei diritti eguali e della libertà senza giacobinismo, si era risparmiata il Novecento dei fascismi e dei comunismi totalitari. E ci aveva dato una mano a liberarci da nazionalismi, imperialismi, shoah in due guerre mondiali. Sconfitto il paracomunista Henry Wallace alla morte di Franklyn Roosevelt (Wallace era para e fesso) nel 1945 arriva Harry Truman (che dura fino a 1953), e quando il gioco si fa duro eccetera. Come Churchill, Truman capisce che una cortina di ferro è calata sull’Europa. Stalin di là, il mondo libero di qua. Semplice. Dunque bisogna ancorare la Germania sconfitta, quella occidentale occupata dagli alleati, al mondo di qua. Bisogna salvare l’Italia dallo slittamento possibile, a Yalta era 50 e 50 l’attribuzione dell’Italia al campo occidentale, in Grecia i comunisti pro Stalin fecero un’insurrezione, e a Roma era influente il Pci di Togliatti, un tipo politicamente ganzo. Non facile. Ci volevano soldi (piano Marshall), alleanze militari (la Nato, che nacque all’inizio senza la Germania), e sopra tutto un progetto politico strategico. Così nasce l’Europa. Scopo: libertà e pace e benessere contro miseria e illibertà e bellicosità sovietica (forche, e il solito vizio dell’espansionismo). Non è un bell’incipit per il romanzo della generazione dei nostri padri, dei loro figli (noi sessantenni) e dei nipoti e pronipoti (i millennial)? Altro che pedagogia, un racconto di cappa e spada.

Il problema dell’Europa non è mai stato la Gran Bretagna, un’isola, e per Churchill ancora un impero che doveva avere la sua terzietà, la sua autonomia anche nella decadenza. Chissenefrega della Brexit, in Europa i britannici, amanti del liberoscambismo e dell’Union Jack, sono sempre stati riluttanti ospiti, come farà capire Lady Thatcher con i suoi “no, no, no” pronunciati a Westminster contro Jacques Delors e il suo superstato, contro la riunificazione tedesca. Il problema è sempre stato il rapporto speciale tra la Francia, che aveva perso ma aveva vinto la guerra grazie all’audacia, al senso teatrale di Charles De Gaulle, e la Germania che aveva perso perso perso senza attenuanti ma si preparava, è gente che lavora sodo e che ha il senso dell’autorità, a ricostruirsi alla grande profittando meglio degli altri delle condizioni del continente e del mondo (nihil sub sole novi) con il suo gigantesco miracolo economico e il nation building costituzionale impeccabilmente occidentale. La Germania di per sé non sarebbe occidentale, sarebbe Mitteleuropa, Europa del centro. Un ponte verso la Russia eurasiatica a doppia corsia, andata e ritorno. E tutte le guerre europee più distruttive dei tempi recenti erano imperniate sull’ostilità franco-tedesca. Ora è divenuta un bastione della pace, della prosperità e della libertà dell’Europa orientale entrata nel progetto dell’Unione dopo la caduta del comunismo. Con mille contraddizioni, ma questo è divenuta. E se ne gode parecchio, credetemi.

 

L’Europa si costruisce con negoziati estenuanti, procede con negoziati estenuanti, forse morirà di negoziati estenuanti e compromessi da scartoffia, ma non ci giurerei e non me lo auguro. Su spinta americana all’inizio c’è, dopo la minimalista Comunità del carbone e dell’acciaio, Ced, la comunità europea di difesa. Mendès France, primo ministro socialista della decolonizzazione e della Quarta Repubblica, quando De Gaulle era in riserva, la fa fallire perché non ha una maggioranza, né la stamina per fare quel che crede giusto. I francesi non vogliono essere pari grado dei tedeschi. Ci si riprova con l’Euratom, un disegno energetico complesso di nucleare civile, sponsorizzato principalmente dai piccoli del Benelux (Belgio, Olanda e Lussemburgo) e dal grande ministro belga Paul-Henri Spaak, papà di Catherine Spaak e influente membro, gran mangione gargantuesco, tra l’altro, del circolo degli europeisti alla grande come Jean Monnet e Maurice Schuman (c’erano anche i De Gasperi, i Segni sr., gli Attilio Piccioni, i Fanfani). La cosa dà fastidio agli americani ma non fino al punto di rinunciare alla spinta antisovietica dell’europeismo liberale. Colpo di scena proprio nell’anno del Trattato che si celebra adesso: francesi e inglesi, con un colpo di coda che farà ridere il mondo, occupano il Canale di Suez nazionalizzato dal panarabista Nasser in nome della decolonizzazione in atto, gli americani li mandano a quel paese, gli americani li mandano a quel paese con Eisenhower, e finisce con una pallida ritirata l’ultimo capitolo dell’Europa d’antan. Ingloriosamente. Alla fine, ma solo alla fine, arrivano i Trattati di Roma e nascono il Mercato comune europeo e poi la Comunità economica europea. Tutta roba fondata sul quattrino e sulla merce, ma intesi, quattrino e merce, fino all’Unione e all’euro, come grande metafora di un ordine mondiale fondato sulla pace, la prosperità e la libertà. Roba grossa, da romanzo storico non innocente ma non cinico, in cui anche il populista cretino antieuro dovrebbe avere spazio per riflettere. Ma se l’istruzione è obbligatoria, l’ignoranza, si sa, è facoltativa.

 

In un pezzo firmato incongruamente Spinelli (che era, Altiero, un federalista ingenuo ma fecondo ed entusiasta), Spinelli nel senso di Barbara, ho letto una serie di bellurie che suonano come scemenze. Boris Johnson, che è antieuropeista per gioco aristocratico britannico e per gola, almeno è sempre spiritoso, eccessivo, balordo. Spinelli è compostamente, moderatamente afflitta, insomma lagnosa. Il mio vecchio e compianto amico Alberto Ronchey, la cui macchina da scrivere campeggia nella redazione del Foglio, la chiamava affettuosamente Ecuba Latrans. E’ tutto un inganno celebrativo, dice Barbara, non c’è una nuova sovranità europea ma una sovranità protetta, uno scudo di difesa della globalizzazione, che ha il populismo per nemico interno e la Russia per nemico esterno (veramente ora i conti si fanno con l’impostore di Washington), la difesa comune è un progetto di ristrette oligarchie (ma senza oligarchie illuminate staremmo ancora a giocare a Risiko alla frontiera alsaziana), ci vorrebbe un New Deal europeo con un trasferimento di sovranità ai più piccoli non ai più grandi. Bellurie, appunto, e senza altro sale che l’afflizione depressiva.

 

Non è così. Le celebrazioni sono come la Corazzata Potemkin, una fantozziana boiata pazzesca. Ma la storia che le sottende è fenomenale, lontana dal suo picco, è oltre tutto una necessità vitale del XXI secolo. Sì, d’accordo, le classi dirigenti non sono all’altezza delle vecchie oligarchie, populisteggiano in mancanza di meglio, il senso della storia è limitato a pochi, il ricordo del vero e del possibile, la guerra europea, sbiadisce con il tempo, tutto vero, i funzionari si sono impigriti, dire Bruxelles sembra dire burocrazia senz’anima, ci sono i declassati della democrazia moderna e delle sue regole di concorrenza comprese quelle della concorrenza sleale, e i fortunati dell’1 per cento, e altre scemenze verisimili. Ma l’Europa del nostro tempo, quella vera vera e possibile possibile, è un grande romanzo epico dove trionfano, come in Omero, la necessità, il fato, con il suo seguito di duelli coraggiosi e di consigli degli anziani e di concerto degli Dei. Il reality o il B movie è a Washington, adesso, e il thriller a Mosca, e il carnage nel mondo islamico, e la celeste ambiguità nell’Asia risorgente. Che spettacolo la difesa della vecchia e nuova Europa, almeno a voler tenere gli occhi aperti.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.