Mario Cavaglieri, “Piccola russa”, 1913. E’ una delle prime tele importanti del pittore e una delle prime nell’excursus cronologico della mostra “Art Déco. Gli anni ruggenti in Italia”

L'arte ruggente. Il linguaggio dell'Art Déco

Giuseppe Fantasia

Modernità e bellezza nella quotidianità. Il lusso e il piacere di vivere si rincorrono nella pittura, nella scultura, nella moda degli anni Venti. Il Déco in mostra a Forlì

Il lusso sfrenato, il piacere di vivere, la ricerca del futile e del dilettevole a ogni costo in nome del glamour, della raffinatezza, dell’eclettismo e della mondanità, nazionale e internazionale. Lo stile Art Déco – che prese il nome dall’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes tenutasi a Parigi nel 1925 – interessò diverse espressioni artistiche, fu un modo di progettare e di realizzare oggetti, decorazioni, ambienti, architetture, ma fu soprattutto un linguaggio – come ha spiegato al Foglio Valerio Terraroli – che trovò la sua origine nel fertile panorama delle Secessioni austro-tedesche per poi scorrere sotterraneo, come un fiume carsico, nella terra di mezzo collocata tra lo scadere del primo decennio del Novecento e l’avvio della Prima guerra mondiale. Fu “un sistema di segni” che riemerse prepotentemente nel primo dopoguerra dominando incontrastato tutto il decennio e caratterizzandolo in modo indelebile fino ad essere declinato in una facies diversa – se non opposta – in quello successivo dopo aver esaurita la sua parabola creativa.

 

Un linguaggio che ebbe origine nel panorama delle Secessioni austro-tedesche. La continuità e poi la contrapposizione col Liberty

Terraroli, coadiuvato da Claudia Casali e Stefania Cretella, è il curatore di “Art Déco. Gli anni ruggenti in Italia”, la grande mostra appena inaugurata ai Musei San Domenico di Forlì e visitabile fino al 18 giugno prossimo. Diretta da Gianfranco Brunelli, è un percorso speciale in più di quattrocento opere che vi farà assaporare al meglio le atmosfere degli anni Venti e quello che hanno rappresentato, anticipatori per eccellenza anche dei successivi e più lontani anni Sessanta grazie a quell’esplosione di libertà e di creatività che ne fu alla base. La mostra – che ha come icona la locandina della Turandot (opera ambientata in Giappone rappresentata per la prima volta nel 1926) realizzata da Leopoldo Metlicovitz – è suddivisa in sedici sezioni e nei due piani del museo propone immagini e riletture di una serie di avvenimenti storico-culturali e di fenomeni artistici che hanno attraversato l’Italia e l’Europa nel periodo compreso tra il primo dopoguerra e la crisi mondiale del 1929, assumendo via via declinazioni e caratteristiche nazionali, come mostrano non solo le numerosissime opere architettoniche, pittoriche e scultoree, ma soprattutto la straordinaria produzione di arti decorative.

  

All’ingresso, vi darà il suo personale benvenuto “Notte d’estate”, la tempera dalle atmosfere oniriche di Luigi Bonazza in cui una donna seminuda, coperta in volto dalla stoffa del suo mantello rosso, si abbandona ai piaceri della musica eseguita con un violino da un ragazzo, anche lui nudo, mentre, nel frattempo, sopra di loro, una coppia si abbandona ad altri tipi di piaceri. Osservandolo, noterete i tagli netti di quelle figure, la linearità del tutto, i volumi sintetici e la sua bidimensionalità, caratteristiche che ritroverete anche nel vicino “Busto femminile con scialle” realizzato nel 1923 da Gio Ponti e da Gigi Supino. Quella donna sensuale circondata da piante e da animali esotici (le tigri), perfettamente a suo agio su uno sfondo in cui emergono i colori primari, è un invito a entrare e ad abbandonarsi completamente, “regole” essenziali per visitare e per guastare al meglio questa mostra data la sua imponenza dovuta anche alla quantità di oggetti e di opere esposte. Dalle arti decorative a quelle visive, dall’architettura alla pubblicità, dalla moda al cinema, fino ai concetti stessi di modernità e di bellezza nella quotidianità, a Forlì nulla è stato tralasciato, ma starà a voi decidere come e cosa vedere, perché ammirare il tutto con attenzione è quasi impossibile, ci vorrebbero giorni. “Il consiglio che vi diamo è di soffermarvi su ciò che attirerà di più la vostra attenzione, perché solo così potrete godervela al meglio”, ci ha suggerito Terraroli durante la nostra visita in anteprima. “La relazione con il Liberty che lo precedette cronologicamente – ha aggiunto – fu dapprima di continuità, poi di superamento fino alla contrapposizione, tanto che la differenza tra l’idealismo dell’Art Nouveau e il razionalismo del Déco fu sostanziale proprio per via del mutare di quell’idea di modernità, della produzione industriale dell’oggetto artistico e del concetto di bellezza nella quotidianità”.


Alberto Martini, “Ritratto Wally Toscanini”, 1925. Fino al 18 giugno in mostra a Forlì


La natura non è più quella avvolgente e floreale dello stile precedente, ma è violenta, selvaggia e sanguinaria e non è un caso se nella stanza degli animali, una delle più suggestive, sia stata posizionata una pantera che afferra la sua preda, realizzata da Sirio Tofanari nel 1922, come molte altre sculture in bronzo posizionate vicine ai “Pappagalli” di Giacomo Balla, ai “Gufi” di Francesco dal Pozzo, ai “Leoni” di Duilio Cambellotti e alle foreste di Tito e Galileo Chini. Il pesce in ceramica di Feruccio Mengaroni, mostruoso ma magnifico, attirerà la vostra attenzione come quello realizzato in vetro da René Lalique, ma non potrete non soffermarvi ad ammirare i cactus, sempre in vetro ma di Venini, che testimoniano l’amore nato proprio in quel periodo per le piante grasse, geometriche e mostruose anche loro, ma decisamente affascinanti. Basta, dunque, con le linee flessuose e asimmetriche legate alla concezione simbolista che vedeva nella natura vegetale e animale le leggi fondamentali dell’universo e largo spazio, dunque, agli effetti della rivoluzione industriale e delle avanguardie storiche che sostituirono al mito della natura lo spirito della macchina, le geometrie degli ingranaggi, le forme prismatiche dei grattacieli, le luci artificiali della città. Il gusto Déco, infatti, fu lo stile delle sale cinematografiche, delle stazioni ferroviarie, dei teatri, dei transatlantici, dei palazzi pubblici e delle grandi residenze borghesi, “un formulario stilistico” dai tratti chiaramente riconoscibili, che influenzò a diversi livelli tutta la produzione di arti decorative, dagli arredi alle ceramiche, dai vetri ai ferri battuti, dall’oreficeria ai tessuti alla moda fino alle automobili (in mostra anche la splendida Isotta Fraschini, blu con i cerchioni rossi, appartenuta a Gabriele D’Annunzio) e alla cartellonistica pubblicitaria, alla scultura e alla pittura in funzione decorativa.

 

Pantere, gufi, leoni. La natura non è più quella avvolgente e floreale dello stile precedente, ma è violenta e selvaggia

Quel gusto particolare andò a modificare anche la distribuzione e l’arredo degli spazi interni, rinnovando le tipologie dei mobili e le combinazioni decorative tra questi e gli oggetti. Esempi furono anche le grandi navi da viaggio, letteralmente prese d’assalto dai ricchi dell’epoca che oltre a Santa Cesarea Terme, a Rapallo, a Gardone Riviera o a Salsomaggiore, amavano andare in vacanza a New York “in sei giorni e mezzo”, come recita uno dei cartelloni presenti in mostra, o sulla Costa Azzurra “per poter prendere il sole tutto l’anno”. Sono soprattutto gli interni borghesi, poi, a mutare d’aspetto perché al posto dell’organicità floreale dello stile liberty, venne dato spazio ad arredi dalle linee volutamente geometriche con piatti di maiolica e di porcellana alle pareti come piccole sculture in bronzo o in ceramica appoggiate sui mobili, sulle mensole o sui vetri tra un arazzo di Vittorio Zecchin o un’opera di Fortunato Depero, in mostra con la “Danza dei diavoli”, “Festa della sedia” e “Lizzana”.

 

Dopo aver percorso le scale e aver ammirato lo studio preparatorio di Galileo Chini per la decorazione delle Terme Berzieri a Salsomaggiore Terme e il grande otre “La casa degli Efebi” realizzato da Ponti, troverete conferma di quanto detto finora al primo piano. Le pareti blu ottanio e le luci soffuse fanno risaltare ancora di più quattro straordinari oli su tela, tra i più belli presenti a Forlì: si tratta dell’opera “Nel parco”(1919) di Amedeo Bocchi – che ha un effetto estremamente riposante in chi lo guarda grazie alla sua protagonista, una donna con la maglia giallo senape e il cappello a fiori – di “Piccola Russa”(1913) di Mario Cavaglieri – con una tovaglia dal motivo floreale che riprende in qualche modo il cuscino del dipinto precedente – di “Rosa Rodrigo - La Bella” (1923) dove Anselmo Bucci raffigura una donna con una lunga collana sui toni del verde e del “Ritratto di Wally Toscanini” che Alberto Martini dipinse nel 1925, una femme fatale presentata come la regina di Saba, vestita di veli giallo oro, in pendant con un copricapo esotico ispirato ai balletti russi di Djagilev. Sono tutti esempi di donne emancipate (continueranno anche nelle stanze successive) che esibiscono il loro fisico e la nudità consapevoli della forza della propria bellezza, figure dai corpi pieni e flessuosi come la “Galatea” in bronzo di Amleto Cataldi o quella di Achille Fuini in “Venere e Satiro”, fino alla serie “Le mie donne” in cui Gio Ponti propone ironici nudi femminili sospesi su corde come su nuvole d’oro.

  

Una straordinaria produzione di arti decorative. E’ lo stile dei teatri, delle stazioni ferroviarie, delle sale cinematografiche

I vestiti, come si può notare in molte di queste opere – e che vedrete dal vivo in una sala poco distante – ebbero una loro trasformazione che derivò da una trasposizione del modo di abbigliarsi assunto dalla donna in assenza degli uomini partiti per la guerra: abiti dal taglio dritto e senza lo stacco del punto vita, sicuramente più pratico e senza le sinuosità proprie del secolo precedente. Le scarpe si allacciano, i capelli si accorciano come le gonne e l’abito di lusso si ricopre di decori e si trasforma in un prezioso oggetto d’arte, ricco di ricami, perline, paillettes e strass. Con la loro sensualità, capacità e determinazione, queste donne aprono la strada alle invenzioni anni Trenta dei ritratti iconici e hollywoodiani di Tamara de Lempicka, la regina del Déco, la pittrice scappata dalla rivoluzione bolscevica, donna bellissima e sensuale, icona del lusso e dello charme, presente in mostra con quattro oli (“Le confidenze - Le amiche”, “Saint-Moritz”, “La sciarpa blu” e “Madame Ira Perrot”), immagini di donne imponenti, assolute, astratte da ogni riferimento temporale e possenti come fossero delle statue antiche, personaggi belli e impassibili, lontani dalla brutalità del reale, simboli di quella parte di mondo che ha cercato – come ci ha precisato il curatore – di allontanarsi quanto più possibile dalla banalità del quotidiano, di dimenticare la tragica esperienza della guerra, di riscattare il proprio ruolo economico e sociale, di identificare la bellezza con il lusso, l’eleganza e lo stile di vita, dimenticando però di ballare sull’orlo di un vulcano. Ben presto, infatti, il Déco fu sostituito dal Novecentismo, uno stile motivato e sostenuto ideologicamente, ma non bisogna dimenticare che fu comunque un’impareggiabile fucina di idee, il momento in cui la tradizione artigiana si è trasformata in un’industria manifatturiera, la via grazie alla quale le arti decorative si sono avviate a diventare prodotto di design, l’esperienza in cui si sono forgiate le competenze del made in Italy. Nel momento in cui il testimone passò agli Stati Uniti, principalmente a New York dove tra il 1929 e il 1930 venne costruito il Chrysler Building prima e l’Empire State Building poi, in Italia restarono i lavori di Gio Ponti, che accompagna la fine di questo periodo con la sua immancabile ironia, realizzando delle opere da stampi industriali in porcellana che l’azienda Richard-Ginori utilizzava per la fabbricazione di guanti di gomma. Il risultato furono “La mano fiorita” e “La mano della fattucchiera”, due sculture-gioiello, due mani a loro modo astratte che troverete – non a caso – alla fine del vostro percorso, simboli indiscussi di un mondo giocoso e prezioso che è stato il Déco italiano.

  

Nei ritratti, donne emancipate che esibiscono il corpo consapevoli della propria bellezza. Il lusso, fuga dalla banalità del quotidiano

Prima di andare via, fate un ultimo “sforzo”: soffermatevi nella “sala del tesoro” con diverse opere del celebre orafo Alfredo Ravasco, uno dei più richiesti e importanti del suo tempo. Vasetti porta profumo, cofanetti, coppette in oro, smalto e topazio, coppe in agata, scatole in argento e orologi da tavoli dalle forme tondeggianti vi prepareranno la strada al pezzo più rilevante: il trittico che l’artista eseguì nel 1935 per Angelo Campiglio e sua moglie Gigina Necchi per la loro meravigliosa casa milanese in via Mozart, oggi imperdibile museo. Il mondo animale, osservato dalla giusta distanza dall’Ebe di Canova – capolavoro neoclassico che fa parte della collezione permanente del museo – emerge al suo meglio grazie alla sensibilità cromatica e compositiva di questo autore dove stilemi déco e naturalistici vanno a mescolarsi sino a perdere le rispettive caratteristiche.

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