Il modo in cui gli americani guardano oggi la tv è dovuto in buona parte a Tony Miranz, che ha messo in piedi e portato al successo Vudu, per poi venderla al colosso Wal-Mart

Il profeta di Vudu

Michele Masneri

Dice che Hollywood è finita, i dvd anche e i film presto saranno fatti con un algoritmo. Parla Tony Miranz, inventore della tv on demand

San Francisco. Hollywood è finita, mentre Silicon Valley sta da Dio. Lo dice l’inventore della tv on demand, Tony Miranz. Si prende il trenino per Palo Alto, si passa davanti alla casa di Mark Zuckerberg, un suburbio di milionari e miliardari, la casa del padrone di Facebook è nascosta da palizzate di legno verde scuro, pare non vi sia sorveglianza ma due suv Toyota ospitano agenti in borghese. Tony Miranz abita dietro l’angolo, in una villa con piscina e un orto biologico in cui coltiva limoni molto profumati che è orgoglioso di mostrare. Questo imprenditore cinquantenne molto in forma, una vaga somiglianza con George Clooney, mocassini Tod’s ai piedi, sta spesso in Italia e in Francia (la moglie è francese). Ha inventato la tv per come siamo abituati a guardarla oggi. E’ arrivato dall’Iran a quattordici anni, ha studiato a Chicago, ha messo in piedi varie aziende e alla fine Vudu, la prima tv on demand di quelle che si trovano già nei televisori quando li compri, e poi l’ha venduta al colosso dei supermercati Wal-Mart, per un centinaio di milioni. E’ tutto contento con i suoi limoni e una Mercedes serie S in garage. E di uno schermo gigante che ci mostra subito. “Guarda la qualità, ancora oggi è la migliore, sta su cinquecento milioni di televisori americani”, si entusiasma accendendo lo schermo sulla sua Vudu.

 

Nel 2010 è riuscito a convincere i grandi produttori di televisori a vendere gli apparecchi con la sua app piena di film già inserita

“Tutto partì nel 2005 quando ci inventammo questa startup. All’epoca non c’era niente, o meglio, c’era Blockbuster, ti ricordi, andavi nel negozio, facevi la fila, prendevi il film, e non è che avessero tutti i film, avevano soprattutto i grandi successi americani. L’ottanta per cento delle copie erano per Terminator, se volevi un film europeo non lo trovavi. Se poi eri abbastanza fortunato e trovavi il film che volevi, te lo portavi a casa e poi lo dovevi riportare al negozio”. “Una volta andai a pranzo col ceo di Blockbuster”, sorride, “gli ho parlato del nostro progetto, gli ho detto che Vudu li avrebbe sorpassati, mi ha riso in faccia. Oggi ha un sacco di tempo libero, viaggia molto, siamo diventati amici” (Blockbuster come tutti sanno è fallita).

 

“Vudu all’inizio nasceva come un decoder che andava attaccato al televisore, era molto difficile, avevamo trovato i costruttori, avevamo magazzini, eccetera. Poi decidemmo di buttare via tutto l’hardware e tenere solo il software, che finiva dentro i televisori già costruiti. Nel 2010 ho viaggiato per sei mesi di fila tra Giappone e Corea per convincere i produttori di televisori a mettere la nostra app, soprattutto Lg e Samsung. Per i costruttori era un grosso rischio, prendere questa app di una piccola società sconosciuta di Silicon Valley e integrarla nei loro elettrodomestici, se non funziona, dicevano, poi i clienti se la prenderanno con noi. Ma alla fine si convinsero, perché era un grande affare per loro”, dice.

 

Ma prima c’era solo Blockbuster? “Il mercato era fatto di tre canali: cinema, dvd, e televisione. I consumatori non avevano molta scelta. Noi siamo andati agli studios di Hollywood e gli abbiamo chiesto non dieci o venti film ma tutti. Loro erano scioccati, ‘non ti daremo mai i nostri diritti’, dicevano; all’epoca facevano un sacco di soldi coi dvd e coi diritti televisivi, e poi avevano appena investito una valanga di soldi in quello che avrebbe dovuto sostituire il dvd, cioè il Blu Ray. L’ultima cosa che volevano era qualche oscuro startupper che andasse lì a prendersi i loro film. ‘Siete troppo piccoli, non ci fidiamo di voi’, poi in due anni alla fine li abbiamo convinti tutti, da Sony a Paramount a Mgm. Sai come li ho convinti? Gli ho detto: se non li date a noi, farete la stessa fine della musica digitale, polverizzata sotto i vari Napster. Se non darete la possibilità ai vostri clienti di scegliere, di vedere tutti i film sulla propria tv, pagandoli due o tre dollari, finirà che tutti i vostri film verranno cannibalizzati dalla pirateria”.

 

Quella volta “ho detto al ceo di Blockbuster che Vudu li avrebbe sorpassati. Mi ha riso in faccia. Oggi ha molto tempo libero”

In effetti la pirateria è ancora alta. In Italia vale 600 milioni di euro l’anno. “Negli Stati Uniti no, non è un problema, forse perché il tempo è un valore prezioso, e tra Netflix, Amazon e Apple puoi trovare tutti i film che vuoi, a prezzi bassissimi, a quel punto non ti metti a scaricare illegalmente un film, operazione che, diciamocelo, rappresenta un’esperienza molto spiacevole, molto scomoda. In Italia probabilmente non c’è abbastanza scelta”, dice Miranz. E poi i film sono ancora cari. Una poltrona per due, che in Italia fanno ogni Natale su Canale 5, Apple lo mette a nove dollari e novantanove. Non ha molto senso. “Perché ad Apple non gliene frega niente dell’Italia, è un mercato troppo piccolo, sono una compagnia globale, di certo non investono su un mercato che vale qualche decina di milioni di dollari”, dice Miranz. “Per questo è importante avere player locali con accordi di distribuzione locale” dice Miranz, che ha una quota in Chili, la piattaforma di video streaming fondata nel 2012 da uno spin off di Fastweb, in cui hanno investito anche major come Warner Bros, Paramount, Sony e Viacom.

 

Forse per mettersi in salvo dalla débâcle. “La pirateria è l’ultimo dei problemi” dice infatti l’imprenditore. “E’ un tema che piace alle major perché distoglie l’attenzione dal tema vero, e cioè che loro, gli studios, sono morti” dice sorseggiando un rarissimo tè verde. “Non hanno connessioni con i consumatori. Brancolano nel buio. Quando guardo Spiderman, gli studios che l’hanno scritto, girato e prodotto non sanno niente di me, al contrario Netflix che lo manda in onda sa tutto. Ecco il paradosso. “Se non hai i dati, oggi sei finito. Hollywood sta morendo lentamente e non lo sa”. Non sarà un’esagerazione? “Per niente: fanno produzioni senza sapere niente di chi le andrà a vedere, a differenza di Amazon o Netflix che sanno cosa ti piace, cosa non ti piace, sanno quando metti in pausa, mandi avanti o indietro, sanno a che ora guardi la tv e che giorno, nel weekend o nei giorni della settimana. Sanno cosa guardano i tuoi amici. Dovrebbero essere loro a pagarti per la massa di dati che incamerano, non tu loro”.

E le povere major di Los Angeles? “Sparano frecce nel buio, fanno film in base a idee e intuizioni, che a volte funzionano a volte no. L’epoca del ‘dai, prendiamo 250 milioni di dollari e investiamoli in John Carter è finita’ (qui Miranz si riferisce al più grande fiasco della storia del cinema, il film della Disney del 2012 su un veterano della guerra di Secessione che finisce su Marte. Il film ha fatto un buco di 200 milioni di dollari). “Adesso è l’epoca del: ‘Investiamo 500 mila dollari in questo film che sappiamo che piacerà esattamente a queste persone, che lo guarderanno in quel determinato momento”.

 

“Netflix ha copiato da noi, naturalmente”. Addirittura. “Se non avessimo venduto a Wal-Mart saremmo andati in Borsa qualche anno dopo, e avremmo credo tirato su sei-sette miliardi di dollari, visto il fatturato di allora”. Pentito di avere venduto? “No, all’epoca fu un ottimo affare. Serviva investire molto denaro per crescere, e nessuno ti dava molto denaro, era subito dopo la crisi dei subprime del 2008. Abbiamo ricevuto diverse offerte e quella di Wal-Mart era la migliore. Nel 2010 ogni tv in vendita negli Usa aveva il nostro sistema”.

 

Intanto Netflix è diventata un colosso, ha un budget di 6 miliardi di dollari per le produzioni nel 2017, salito 600 volte dai 10 milioni del 2008. Mentre una major storica come Paramount vale in Borsa 10 miliardi, lo stesso di vent’anni fa. “Il 2017 è l’anno in cui gli Oscar sono andati a Silicon Valley, si sono solo spostati diqualche miglio più a nord”, dice Miranz. Infatti due statuette sono andate a Amazon, per Manchester by the Sea (miglior sceneggiatura, miglior attore protagonista a Casey Affleck) e una a Netflix per The White Helmets, per i cortometraggi.

 

Anche i cinema moriranno? Quelli americani hanno incassato 10 miliardi di dollari nel 2016, risultato più basso degli ultimi vent’anni, fermo ai livelli del 1995. “Forse non moriranno, ma si trasformeranno”, dice Miranz. “Sono un posto molto interessante di ritrovo per la gente. Ma l’attrazione principale potrà non essere il film. Specialmente da quando gli studios fanno film sempre di minore qualità, mentre Netflix migliora di giorno in giorno”. Con Internet succederà al mondo del cinema quello che è successo al giornalismo e alla musica? “No, in quei settori si è avuta frammentazione, si sono polverizzati tra più soggetti, pensiamo ai blogger e ai musicisti; in un certo senso sono settori che si sono democratizzati. Internet ha messo il potere nelle mani della gente. Non devi più essere scoperto dalle major per poter cantare. Puoi cantare e basta. Nel caso del cinema, invece, Hollywood scomparirà e il potere finirà tutto nelle mani di pochissimi: si passerà da sette major attuali (Paramount, Mgm, Disney, Warner Bros, Fox, Universal, Sony) a tre colossi come Netflix, Amazon, forse Apple”. Vedremo presto i film su Facebook? “Certo”.

“Siamo andati agli studios e gli abbiamo chiesto non dieci o venti film, ma tutti”. “Se non hai i dati, sei finito. Netflix sa cosa ti piace”

Nel frattempo ci siamo spostati (ovviamente in Uber) al ristorante Il Fornaio sulla University Avenue di Palo Alto, il preferito di tutti i guru siliconvallici a partire da Zuckerberg. Mangiamo del carpaccio, ci sono molte sciure mogli dei magnati di qui, a colazione, con delle borse Kelly. Divaghiamo. A San Francisco siamo rimasti colpiti dal numero di videonoleggi che stanno sorgendo, anche alcuni giornali americani parlano di un ritorno del vhs. “Sarà qualche hipster che avrà fatto i soldi con qualche startup tecnologica e adesso li butta via così”, dice Miranz lapidario. Però il supporto fisico è ancora importante. In Italia per esempio i dvd valgono ancora 300 milioni di euro l’anno, contro i 30 delle tv on demand. “Perché siete un paese anziano. Quando se ne andrà la generazione dei cinquantenni di oggi, cioè la mia, nessuno saprà neanche cosa sono, i dvd”. Adesso che hai venduto che fai? “Mi occupo di un’altra startup, si chiama Machinefy, siamo qui a Palo Alto, aiutiamo grandi compagnie a evitare frodi, riciclaggio di denaro, problemi di Rete, tutto con l’intelligenza artificiale”. L’intelligenza artificiale è il futuro? “E’ il presente. Prenderesti un aereo senza radar? L’intelligenza artificiale ti guida”.

 

“L’arte rimane. Ma non tutti i film sono arte, forse il 5 per cento. Il resto è matematica, e presto i conti si faranno a macchina”

Silicon Valley è nemica di Hollywood? “No, sarà un’alleata. Trasporterà Hollywood dall’epoca della carrozza a cavallo a quella dei viaggi spaziali. Aumenteranno i ricavi, faranno più film, più soldi, con più attori, anche grazie all’intelligenza artificiale”, dice Miranz. “Ormai sono pronti per fare film improntati ai tuoi gusti; ti è piaciuto Downton Abbey? Ecco che fanno The Crown. Sanno che attori ti piacciono, faranno produzioni apposite, hanno abbastanza massa critica per fare film che costano molto meno di quelli di Hollywood, e che hanno già un loro pubblico, non devono rischiare. In questo arriva l’intelligenza artificiale. Le macchine prendono decisioni intelligenti. Invece di usare l’istinto o l’intuizione o i sentimenti, le macchine usano i dati, grandi quantità di dati, per prendere decisioni. Fare un film è un’operazione complessa che richiede milioni di decisioni”. Avremo algoritmi come sceneggiatori? “Certo. Ci sono già. L’algoritmo dice cosa scrivere, quando mettere una scena d’amore e quando mettere il sangue e quando ci vorranno gli effetti speciali, quanto lungo deve essere il film, quali attori mettere, quali personaggi piacciono e quali no. E poi naturalmente quale pubblicità si addice agli utenti perfettamente profilati. Basta una decina di migliaia di utenti per generare un film che guadagnerà. Il loro ritorno sull’investimento è enorme. Questo è il loro potere. E’ come il business delle radio. Le radio mica guadagnano sulla musica, loro vanno dagli inserzionisti e vendono gli ascoltatori, gli dicono guarda, noi abbiamo questi ascoltatori. Così Netflix e le altre vendono noi”.

 

“Intanto cosa fanno gli studios? Niente, vanno dagli agenti, in cerca di sceneggiature, talenti. Vanno da Tom Cruise, cercano di capire se va bene per un ruolo o se è troppo vecchio”. Mentre Netflix ti fa il film sartoriale. “Hollywood ha un modello di business totalmente inefficiente; sono sopravvissuti nel tempo perché hanno il monopolio, ma il monopolio sta finendo. Tra dieci anni non ci saranno più. A meno che non si adattino alle ultime tecnologie, intelligenza artificiale, machine learning. E non sto dicendo che l’intelligenza artificiale rimpiazzerà l’arte. Quella rimane. Ma non tutti i film sono arte. Quanto saranno? Vogliamo essere generosi? Diciamo il cinque per cento. Il resto è matematica. Oggi sono conti fatti a mano. Presto verranno fatti a macchina”.

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