Maurizio Crozza imita Antonio Ingroia al Festival di Sanremo del 2013 (Foto LaPresse)

Il Dr. Ingroia e Mister Flop

Luciano Capone

Non ne va una dritta all’ex pm della Trattativa. Dopo la disfatta elettorale, ecco l’inchiesta per peculato

“Sala indagato si è autosospeso e tu, Raggi, dopo l’arresto di Marra per corruzione, che farai?”, chiedeva Antonio Ingroia via Twitter a Virginia Raggi poche ore dopo l’arresto con l’accusa di corruzione di Raffaele Marra, braccio destro del sindaco di Roma. Ora che è l’ex pm della procura Palermo ad essere indagato dai suoi stessi ex colleghi, a causa di rimborsi e compensi secondo l’accusa indebitamente percepiti in qualità di amministratore unico della partecipata regionale Sicilia e-Servizi, poteva essere Virginia Raggi a chiedergli via social: “Tu, Ingroia, ora che sei indagato per peculato che farai?”. Non è avvenuto perché, appena uscita la notizia, il dottor Ingroia ha già fatto sapere cosa farà: resterà al suo posto. “Questa indagine – ha detto – mi consente di sgomberare una volta e per tutte il campo da ogni equivoco, sospetto e maldicenza su una storia totalmente infondata” e inoltre sempre Ingroia se l’è presa, proprio lui in persona, con la fuga di notizie dagli uffici in cui lavorava: “È stupefacente che la notizia sia stata data dalle agenzie di stampa solo pochi minuti dopo che io ho lasciato gli uffici della procura”. Stupefacente, come il garantismo di Ingroia, ma naturalmente ora che è indagato e di professione, oltre a quella di manager parastatale, fa l’avvocato è probabile che la sua prospettiva sia cambiata.

 

La vita allegra
di un manager palermitano
che risiede a Roma
ma viene in trasferta
a Palermo in hotel
a cinque stelle

In ogni caso questo flop, che è l’ultimo sia cronologicamente che per rilevanza, ci dice molte cose dell’ex pm che si è buttato in politica in nome dell’antimafia e che, dopo il tracollo elettorale e prima di spiaccicarsi a terra, è stato paracadutato su comode poltrone di sottogoverno in nome dell’anticasta. Nell’indagine gli inquirenti prendono in esame i compensi tra il 2014 e il 2016 e ipotizzano che Ingroia abbia intascato indebitamente, da amministratore della partecipata regionale, 30 mila euro di rimborsi e bonus di risultato da 117 (a fronte di utili societari da poche migliaia di euro), oltre naturalmente allo stipendio ordinario da 50 mila euro.

 

Naturalmente il dottor Ingroia è come tutti innocente fino a prova contraria ed è anche possibile che tutte le carte siano a posto, come egli assicura avrà modo di dimostrare, ma la vicenda delle spese di viaggio del palermitano residente a Roma in trasferta a Palermo in hotel extra lusso apre uno squarcio sulla realtà della casta degli anticasta. “Le spese sono contenute, sulla base di un regolamento dei rimborsi spese che io per la prima volta ho introdotto a Sicilia e-Servizi”, ha dichiarato Ingroia. Spese contenute che, secondo quanto riportato da Repubblica, vuol dire fatture da 2.275 euro al Grand hotel Villa Igiea, 615 euro all’Excelsior, 1.293 euro al Centrale Palace hotel e via così, tutti hotel a 5 stelle. Ma com’è possibile spendere migliaia di euro con un regolamento così rigido? Quanto è alto il tetto di spesa? Il “Regolamento missioni e trasferte” della Sicilia e-servizi, scritto personalmente da Antonio Ingroia il 16 aprile 2014, in effetti è molto stringente. All’articolo 6 – “tipologia e massimali di spesa rimborsabili” – divide il personale in due gruppi e stabilisce che il gruppo B (tutto il personale), non può viaggiare in aereo, può alloggiare solo in alberghi a 3 stelle e può spendere massimo 25 euro a pasto; mentre il gruppo A (i dirigenti) può invece pernottare al massimo in alberghi a 4 stelle e consumare non più di 65 euro a pasto. Ma com’è possibile allora che il dottor Ingroia dorma in hotel a 5 stelle (intesi come categoria di lusso, non come stile grillino e anticasta) e spenda decine di migliaia di euro? Perché, sempre all’articolo 6, il regolamento scritto da Ingroia prevede un’eccezione: “E’ ammesso, limitatamente all’Amministratore unico (lo stesso Ingroia, ndr) ed al Direttore generale, il rimborso per categorie alberghiere superiori”. In pratica Antonio Ingroia è un “senzatetto”. Sia perché l’avvocato palermitano ed ex magistrato della procura di Palermo per 20 anni  non ha un tetto sotto cui dormire nella sua città, sia perché non ha un tetto alle spese. La soluzione quindi prevista dal regolamento per sistemare il “senzatetto” è farlo dormire e mangiare in hotel extra lusso.

 

Ma il flop mediatico
delle note spese
sulle quali indagano
i suoi ex colleghi è nulla rispetto al fumo
del processo
sulla Trattativa

Ma il flop mediatico delle note spese e dei rimborsi è nulla rispetto all’afflosciamento giudiziario dell’inchiesta imbastita da Ingroia sulla Trattativa Stato-mafia, il processo del secolo, crocevia di tutti gli indicibili accordi politici e stragisti, svincolo in cui confluiscono criminalità organizzata, politica, servizi segreti (ovviamente deviati) e istituzioni, ascensore segreto che collega primo livello, secondo livello e ancora più su il terzo e il quarto livello, fino a lambire il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con quelle intercettazioni distrutte che – si dirà quando questa storia sarà finita – forse contenevano la prova delle prove.

 

Per anni abbiamo assistito a una sterminata produzione giornalistica ed editoriale, libri, interviste, documentari, docufiction del grande romanzo criminale – gli ingredienti ci sono tutti: una storia vera, l’inchiesta appunto, i buoni e i cattivi, i pentiti e i traditori, il bene e il male che si mescolano e vengono a patti, la spy story con i servizi (deviati) dello stato al servizio della mafia e la mafia (deviata) che tradisce Riina per accordarsi con lo stato – e apparizioni televisive dei protagonisti, partendo dal dottore Ingroia che guida l’esercito dell’antimafia (a cui poi è subentrato, come spesso accade nelle fiction, il pm Nino Di Matteo) per finire con il super teste Massimo Ciancimino, il figlio redento di Don Vito, che lo stesso Ingroia ebbe a definire “quasi un’icona dell’antimafia” nel suo libro “Il labirinto degli dei”. E poi tutti a cercare il signor Franco (o Carlo), il misterioso agente segreto che secondo il racconto di Ciancimino è l’anello di congiunzione della “trattativa perenne” tra stato e antistato.

 

Il problema dell’avvincente e intricata trama intrecciata da Ingroia è lo scontro con la realtà e soprattutto con le sentenze dei tribunali. Ad esempio la sentenza di assoluzione dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino, l’unico tra gli imputati nel processo sulla Trattativa che ha scelto il rito abbreviato. Ma anche l’assoluzione di un altro imputato, il generale Mario Mori, l’architrave della trattativa, nel processo in cui era accusato di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, proprio in virtù dell’indicibile accordo con Cosa nostra. Ma Mori non ha favorito Provenzano, è stato assolto in appello dopo essere stato assolto in primo grado, quando i pm dell’accusa erano proprio Antonio Ingroia e Nino Di Matteo. L’ex capo del Ros era già stato assolto definitivamente, insieme al capitano “Ultimo” Sergio De Caprio, nel processo per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina dopo che i due, Mori e Ultimo, avevano arrestato il Capo dei capi.  Se come dice il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato “C’è un filo rosso che attraversa tutte le vicende di cui il generale Mario Mori si è reso protagonista”, è molto probabile che, seguendo questo filo che porta da un’assoluzione a un’altra, si arrivi a una conclusione della storia che è diversa da quella scritta dalla procura e da Ingroia.

 

Alle elezioni politiche
del 2013 l’altro colossale fallimento: il magistrato, con Rivoluzione civile non va oltre
lo zero virgola

Ci sono state poi altre sentenze che hanno portato a una caduta delle icone dell’antimafia. Massimo Ciancimino è stato più volte sorpreso a taroccare le carte e ora è tornato in carcere, dopo essere stato condannato per aver calunniato un ex agente dei servizi e per detenzione di esplosivo. Sì, perché mentre la procura e tutto il paese erano a caccia del fantomatico “signor Franco” – che ora era Gianni De Gennaro e ora un barista dei Parioli – il superteste della Trattativa girava in auto per l’Italia con il bagagliaio pieno di tritolo, che poi nascondeva in giardino.

 

Ma ormai questa è acqua passata, la sorte del processo non interessa poi tanto all’avvocato Antonio Ingroia, perché l’inchiesta sulla Trattativa è stata più che altro un trampolino verso un flop ancora più grande: il salto in politica. Sul più bello, nel 2012, il pm se n’è andato in Guatemala, per sconfiggere il narcotraffico su mandato dell’Onu, ma in realtà per preparare la campagna elettorale. Da lì appariva sotto le palme nei talk show politici, da lì scriveva il “Diario dal Guatemala”, in ricordo dell’epico Diario in Bolivia di Che Guevara (non a caso definito in campagna elettorale “profeta della nostra rivoluzione”) e anticipando in un certo senso i Diari di Alessandro Di Battista, il parlamentare grillino che proprio in Guatemala andava a bere “spremute di umanità”. La permanenza ai Caraibi è durata poco, quanto il suo progetto politico. Alle elezioni politiche la Rivoluzione Civile del magistrato si è schiantata contro il muro dello zero virgola, stroncata dall’imitazione di Maurizio Crozza che mostrava alla perfezione la scarsa vitalità del progetto e del candidato.

 

Finita miseramente l’avventura politica,
l’ex pm contratta
con il governatore Crocetta un incarico
di sottogoverno alla Regione

La parabola politico-giudiziaria di Ingroia, l’artefice dell’inchiesta del secolo, si è poi trasformata, come ogni cosa che accade in questo paese, in una storia da commedia all’italiana con il trasferimento deciso dal Consiglio superiore della magistratura ad Aosta, un po’ come in un film di Alberto Sordi, quando il pizzardone romano viene spedito per punizione a fare il ghisa a Milano: “El culega, el sciur culega. El barbùn. El panetùn. El magùn, ammazza e che magone che c’ho…”, avrà pensato Ingroia immaginando il viaggio dalle palme del Guatemala alle nevi delle Alpi. E infatti il pm non ci sta, ad Aosta proprio non ci vuole andare, fa ricorso, si mette in ferie e poi inizia a contrattare – ancora da magistrato – un posto di sottogoverno con il presidente della regione Sicilia Rosario Crocetta. Crocetta l’accontenta, lo piazza al vertice della partecipata che raccoglie i tributi, Riscossione Sicilia, così il pm chiede l’aspettativa e il collocamento fuori ruolo. Ma il Csm nega l’autorizzazione: Ingroia deve andare a lavorare ad Aosta.

 

Roba dura da mandare giù, così il magistrato non si presenta e decade. Ma non decade a terra, perché sempre Crocetta gli piazza sotto la poltrona di liquidatore del carrozzone Sicilia e-servizi, la società a capitale pubblico che gestisce i servizi informatici della regione. Anzi, il presidente della regione Sicilia – un altro professionista dell’antimafia e dell’anticasta – a Ingroia di poltrone ne ha date due, l’altra è quella di commissario straordinario della provincia di Trapani. L’incarico rinchiude in sé entrambi i pilastri della carriera della coppia, quella anticasta, perché l’incarico rientra nell’annuncio da parte di Crocetta dell’abolizione delle province (che però sono ancora lì), e quella antimafia: “L’ho messo nel territorio del boss latitante Matteo Messina Denaro - dichiara il presidente - un segnale importante per la lotta alla mafia”. Il problema è, come dice l’Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone, che quei due incarichi sono incompatibili e Ingroia deve scegliere tra uno dei due. “Forse c’è chi non vuole che io continui a fare quel che ho fatto finora: in Provincia ho trovato molte cose che non vanno, le ho segnalate alla procura”. Togliere una poltrona a Ingroia è un attacco all’antimafia, quasi un favore a Messina Denaro. Purtroppo l’ex pm dovrà rassegnarsi, quando la regione approva una norma che impedisce di fare il commissario provinciale a chi ha già un altro incarico nella pubblica amministrazione regionale. Ingroia deve scegliere: o commissario nel feudo del Capo dei capi o liquidatore del carrozzone.

 

Messina Denaro può attendere, se ne occuperà qualcun altro, la priorità va al risanamento della Sicilia e-servizi. In poco tempo però l’incarico di Ingroia cambia: da liquidatore diventa amministratore unico, così non è lui a liquidare la Sicilia e-servizi ma è l’azienda pubblica a pagargli una liquidazione, 117 mila euro (più stipendio da 50 mila più spese di viaggio, vitto e alloggio da svariate decine di migliaia di euro) come bonus di risultato per una partecipata che, stando all’ultimo bilancio disponibile, registra un utile inferiore a 1.500 euro, meno di una fattura al Grand hotel del suo amministratore unico. Ma anche in questo ultimo flop di Ingroia, di cui si stanno occupando i suoi ex colleghi che lo indagano per peculato, si intrecciano sempre lotta agli sprechi e lotta alla criminalità. Quando la regione ha deciso di tagliare i trasferimenti alla società da lui amministrata Ingroia dichiarò: “Se mi vogliono abbattere così, a colpi di imboscate e tagli di bilancio sappiano che non ci riusciranno in silenzio. Non c’è mai riuscita la mafia con i colletti bianchi suoi complici a piegarmi quando facevo il pm”. Quando non si può usare la retorica anticasta, Ingroia sfodera quella antimafia. Per ora, nonostante i flop, ha sempre funzionato.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali