Il tenente generale Bruno Kasdorf della Bundeswehr durante un’esercitazione (foto LaPresse)

Giù le armi

Giulio Meotti

L’esercito tedesco è stato ucciso dal languore pacifista. La Germania ora sente la pressione dell’America, ma è un’armata senza tamburi

Si costituirono gruppi che diffondevano slogan come questi: “Nie wieder” (mai più) e “lieber rot als tot” (meglio rosso che morto), che i renitenti, gli obiettori e i pacifisti fecero propri e che proclamano ancora rivisitati. Il primo ministro della Difesa, Theodor Blank, fu bastonato in una via di Augsburg. Cinema e ristoranti esponevano cartelli: “Vietato l’ingresso ai militari”. E si dice che lo stesso cancelliere Konrad Adenauer abbia esclamato quando firmò la ricostituzione delle forze armate: “E’ pazzesco, signori miei, che io sia costretto a creare un esercito tedesco, è semplicemente pazzesco!”.

 

Sono passati cinquant’anni, ma quel sentimento pubblico è ancora forte in Germania. Basta pensare a quanto ha detto la scorsa settimana Sigmar Gabriel, attuale ministro degli Esteri: “Dobbiamo stare attenti a non ingigantire l’obiettivo del due per cento, evitare di essere consumati dalla gioia di una nuova spirale da riarmo”. Questa è stata la frase decisiva: “Spirale da riarmo”. Nei giorni precedenti, la Germania aveva fatto un annuncio sorprendente: portare i soldati da 170 mila a 198 mila entro il 2024. Effetti del nuovo vento che spira dall’America, con l’Amministrazione Trump che bastona non poco gli alleati della Nato, spronandoli a investire più in difesa e sicurezza, a raggiungere quel due per cento.

 

Come ha scritto Martin Walker su National Interest, “la Bundeswehr si sta trasformando nella prima forza militare postmoderna del mondo. Se mai l’Armata Rossa dovesse ripresentarsi nella pianura della Germania settentrionale, l’esercito non sarebbe probabilmente in condizione di fare molto di più che multarla per eccesso di velocità”. La Germania, infatti, a forza di temere quella “spirale da riarmo” si è ritrovata con una timida armata senza tamburi. Era un baluardo dell’occidente, la Bundeswehr, quando all’estremo nord oltre l’Elba e a sud fra la Turingia e la Franconia, in caso di necessità avrebbe dovuto fronteggiare unità nemiche, come i connazionali della Volksarmee della Ddr. La Germania oggi è forse il paese più antimilitarista del mondo e non servono grandi sforzi di fantasia per individuare le cause di questo atteggiamento.

 

Un sondaggio Tns Emnid ha rivelato che il 70 per cento dei tedeschi è contrario a un aumento delle spese militari. Manfred Güllner, capo sondaggista dell’istituto Forsa a Berlino, ha detto che molti tedeschi equiparano un budget militare più grande a più alto rischio di guerra. “Preferirebbero che i militari non fossero operativi e rimanessero a casa”, ha detto Güllner al Wall Street Journal. Eppure la Germania era fra i più pesantemente armati. Con le sue trentasei brigate, mezzo milione di soldati fra marina, aviazione e forze di terra, un arsenale fra i più sofisticati, la Bundeswehr è stata un pilastro della Nato. Con i riservisti, in caso di crisi potevano scendere in campo un milione e 250 mila uomini (le testate nucleari erano ovviamente sotto controllo americano).

 

Nata negli anni di una Guerra fredda che poteva diventare calda, la Bundeswehr era il nerbo delle forze della Nato. Oggi è il suo ventre molle e risente del suo paradossale vizio di origine: furono gli Alleati, non i tedeschi, a volerla. Le “marce della pace” in Germania sono state un fenomeno impressionante. Negli anni Cinquanta vi parteciparono sindacalisti e socialdemocratici contro la politica di riarmo di Adenauer; negli anni Sessanta vi presero parte pacifisti di sinistra e pastori evangelici contro le armi atomiche e il governo di grande coalizione. Poi il movimento pacifista raccolse socialdemocratici, liberali, ecologisti, obiettori di coscienza, pastori protestanti, sindacalisti, comunisti. Due milioni di persone firmarono il cosiddetto “Appello di Krefeld” contro i missili nucleari e più di un milione sottoscrissero l’“appello per la pace” dei sindacati. Quasi un milione di persone presero parte ai raduni, ai cortei, alle “catene umane” a Bonn, ad Amburgo, a Stoccarda, a Berlino Ovest, compresi tanti scrittori, come Günter Grass e Heinrich Böll. Vi prese parte anche il futuro cancelliere Willy Brandt, che diceva con orgoglio: “La Repubblica federale tedesca non vuole nuovi missili”.

 

Tanti fuggirono la leva. Chi non poteva fare come l’asso del tennis Boris Becker, che fuggì a Montecarlo, chiedeva la residenza a Berlino Ovest: nella metropoli smilitarizzata non esisteva la leva. La fuga dalle caserme fu segnata anche dal calo demografico, il “Pillenknick” come la chiamarono, la svolta della pillola. E’ la brusca sterzata verso il basso subita dalla natalità quando si è fatto dilagante, negli anni Sessanta, l’uso degli anticoncezionali. L’insofferenza per i riti militari ha anche avuto momenti caldi. Come a Brema nel 1980. Era in programma una grande festa militare con rullo di tamburi, giuramenti e sfilate. Ma nella piazza vicina c’era una massiccia manifestazione di pacifisti. Scontri durissimi, centinaia di feriti. Da allora le feste militari si sono sempre fatte nei cortili delle caserme, quasi a vergognarsene.

 

Quando crollò il Muro, la stragrande maggioranza dei tedeschi non considerò più la sicurezza fra i problemi principali del paese. E soltanto il dieci per cento dei giovani ritenne “importante” l’esercito: nel 1980, erano quasi il 40 su cento. Poi arrivò Helmut Kohl e il cancelliere esaltò “il primo esercito della Germania democratica” la cui missione “è definita, fin dalla fondazione, dalla libertà personale, dalla dignità umana e dalla giustizia”. Un modo per dire: un esercito che non deve fare guerre e che da allora, infatti, non ne ha fatte. Il leader socialdemocratico Rudolf Scharping si rifiutò di assistere alla fiaccolata dei soldati, scusandosi con la necessità di dover ricevere alla stessa ora alcuni direttori di giornale. E il vice sindaco di Bonn, Dorothee Pass-Weingartz, rappresentante dei Verdi, disse a Kohl che “in città c’è gente in disaccordo con le fiaccolate militari”. Nel 1991, il cancelliere preferì offrire agli Alleati centinaia di miliardi, pur di non spedire truppe tedesche nel Golfo contro Saddam Hussein (si replicherà nel 2003 con Gerhard Schroeder).

 

Quando lo scorso settembre il ministro della Difesa, Ursula von der Leyen, è andata in Iraq a parlare con gli ufficiali tedeschi che addestrano i combattenti curdi, ha assicurato le sue truppe che sarebbero rimaste a distanza dalle zone di battaglia, aggiungendo che per l’esercito tedesco, “la sicurezza è la priorità più alta”. Commenta John Vinocur sul Wall Street Journal che “la Germania, uno dei più grandi produttori di armi al mondo, ha di nuovo reso evidente che si tratta di un attore non letale e a basso rischio, anche di fronte a una forza anti-occidentale e barbarica come nemico”, ovvero l’Isis.

 

Nei giorni scorsi una inchiesta dello Spiegel ha messo a nudo lo stato pietoso della Bundeswehr. “Così piccolo l’esercito non è mai stato prima di ora”, ha detto il delegato parlamentare per l’esercito, Hans-Peter Bartels. L’esercito è oggi il venti per cento di quello che era nel 1990. Secondo quello che i media tedeschi descrivono come “l’avvocato dei soldati”, le forti carenze della Bundeswehr impattano anche sulla “motivazione” dei militari. “La truppa è demotivata, troppo quello che manca”, ha affermato Bartels. E le carenze hanno effetti “sul piano della formazione, sulle esercitazioni e sulle missioni”. L’esercito tedesco attraversa una crisi gravissima, di identità e funzionalità. I suoi uomini sono “demotivati”, “frustrati”, “depressi”, la sua efficienza è nulla, “al di sotto dei livelli operativi”.

 

E pensare che ancora nel 2011 l’allora ministro della Difesa tedesco, Thomas de Maiziere (Cdu), proponeva una riduzione di circa il venti per cento dei soldati. L’Isis, l’aggressività russa a Est, la crisi dei migranti avrebbero ridimensionato i piani dei pacifisti di Germania. Malte Lehming, editorialista del Tagesspiegel, ha sintetizzato bene la visione dei tedeschi: “Meglio sacrificare la Nato e rinunciare alla lotta contro il terrorismo piuttosto che sostenere nozioni impopolari come la solidarietà con i propri alleati”. Allo stesso tempo, la cancelliera Angela Merkel ha ammesso pochi giorni fa alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza che l’Europa non sarà in grado di garantire la propria sicurezza senza il supporto degli Stati Uniti.

 

Nel 2008 si registrò un calo del ben 62 per cento dei volontari a causa della guerra in Afghanistan. E quanti morti fra i tedeschi aveva fatto la guerra ai Talebani? Ventotto. Sì, ventotto. Ma quanto basta per far crollare i tassi di arruolamento.

 

Il paese è il leader economico in Europa, ma Berlino spende solo l’1,2 per cento del suo pil in spese militari, meno anche in termini assoluti rispetto al Regno Unito, la Francia e una miriade di altri paesi europei. Sigmar Gabriel e l’ex presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, candidato alle elezioni contro Angela Merkel, stanno utilizzando la battaglia contro una maggiore spesa per la difesa come un simbolo della resistenza a Trump. Per l’Spd, il dibattito ha un grande potenziale: il nemico è visibile e il dibattito è morale.

 

Ha scritto Konstantin Richter della Welt che “l’esercito tedesco zoppica anche per la sua mancanza di sostegno pubblico. Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, i tedeschi si sono trasformati in veri e propri pacifisti, godendo del loro ruolo a margine di conflitti globali. La maggioranza del pubblico tedesco si oppone a missioni di combattimento e sostiene la Bundeswehr come un’organizzazione quasi umanitaria, una sorta di Medici senza frontiere con le pistole. In una guerra convenzionale, le forze tedesche sarebbero state sopraffatte dai sovietici nel giro di pochi giorni. Ma avevano il sostegno nucleare della Nato e sapevano che erano lì solo per deterrenza, non per combattere. Così muovevano carri armati e truppe attraverso i boschi della Germania occidentale, in preparazione di battaglie che era altamente improbabile che si verificassero. Per dirla rozzamente, la Bundeswehr non è mai stata pensata per funzionare da sola. E in una certa misura, rimane vero anche oggi”.

 

Su Foreign Policy di dicembre, Hans Kundnani ha rilevato che “un semplice paragone fra il budget militare americano e quello tedesco illustra bene il problema. Nel 2015, quello americano era di 597 miliardi di dollari, quello della Germania era di 36 miliardi, un ventesimo di quello dell’America. Ma quello tedesco è piccolo anche rispetto alla Francia (46 miliardi) e all’Inghilterra (56 miliardi). Una immagine simile emerge se si considerano le capacità. Durante la Guerra fredda, la Bundeswehr aveva mezzo milione di soldati, 2.500 carri armati Leopard. Oggi ha 176 mila soldati, meno di un settimo del milione e trecentomila degli Stati Uniti, e soltanto duecento Leopard. La Luftwaffe, l’avazione tedesca, ha solo 109 Eurofighter e 89 Tornado. Ma è emerso anche che soltanto 42 dei 109 Eurofighter sono operativi”. La Germania dovrebbe spendere sessanta miliardi in difesa per raggiungere gli obiettivi della Nato.

 

Secondo Kundnani, questa disfunzione ne rispecchia una culturale. “Nel primo decennio dopo la riunificazione nel 1990, la Germania sembrava convergere con la Francia e il Regno Unito sull’uso della forza militare. Questo cambiamento è culminato nella partecipazione della Germania nella guerra del Kosovo nel 1999. ‘Mai più Auschwitz’ sembrava aver sostituito ‘Mai più la guerra’ come un principio fondamentale della politica estera tedesca. Ma nel 2000, sullo sfondo dell’uso della Bundeswehr in Afghanistan, i tedeschi sono sembrati tornare al principio di ‘Mai più la guerra’. La Germania ha rifiutato di partecipare all’intervento militare in Libia in 2011 e anche lo shock strategica della crisi Ucraina non ha cambiato l’atteggiamento dei tedeschi circa l’uso della forza militare”.

 

La Germania oggi vede se stessa come una “Friedensmacht”, una forza della pace, un termine coniato dalla Ddr e usato per la Repubblica federale nel 1993 da Alfred Mechtersheimer, un ex colonnello che entrò nei Verdi. Così, nei giorni scorsi un deputato tedesco ha espresso la sua rabbia dopo che la figlia sedicenne ha ricevuto una lettera dall’esercito in cerca di volontari. “E’ scandaloso che le persone così giovani siano prese di mira”, ha detto Özcan Mutlu al quotidiano “taz”. “I giovani hanno bisogno di protezione”. La brochure ricevuta dalla figlia di Mutlu è stata uno delle 1.033.043 spedite nel 2016. Sebastian Schulte, corrispondente del magazine militare di Jane, scrive che “un fattore è il drammatico cambiamento nella demografia: il numero annuo di diciottenni idonei per il reclutamento scenderà da 749 mila nel 2015 a 605 mila nel 2030”.

 

La Germania, che distrusse l’Europa con la sua corsa al riarmo sotto il nazismo, ora la mette nuovamente a rischio per paura della “spirale da riarmo” e in preda al languore pacifista.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.