Jude Law (Watson) e Robert Downey Jr. (Holmes), ultime incarnazioni cinematografiche e televisive dei personaggi di Sir Arthur Conan Doyle

Da Holmes a Schiavone: il detective, guerriero e filosofo che si allena alla morte

Edoardo Rialti

Nella letteratura e al cinema, deve tuffarsi tra i gorghi della violenza, e al tempo stesso ogni suo gesto, ogni sguardo esprime una visione del mondo, la lente d’ingrandimento con cui studia la scena del crimine

“Felice chi vide ciò che è sotto la terra. Sa il termine di una vita, sa un inizio divino” (Pindaro)

“Ma in che mondo vive, Marlowe? In questo, ma non l’ho scelto io” (Raymond Chandler)


 

Un poliziotto di mezz’età rientra a casa tardi, dopo una giornata faticosa o essere stato a letto con una bella donna. Ad aspettarlo sul divano c’è la moglie sorridente. Li osserviamo ridere e cenare, e ci sembra di aver già capito con chi abbiamo a che fare. Con che pasta d’uomo e di marito. E invece no. “Marina ride. Dio quanti denti che ha. Ci si riflette la luce sopra e se guardo bene forse mi ci rifletto anche io. Faceva schifo quella carbonara. ‘Te l’hai mangiata per pietà, vero?’. Ride e non risponde. L’ha sempre fatto. Quando Marina ride non c’è posto per altro. Solo per il riso. Ed è giusto. Secondo me quando si ride, si ride e basta. E’ il solo momento di libertà che abbiamo, in fondo. Quando ridiamo. Non c’è più. Non è più sul divano. Non è accanto a me mentre mangio la carbonara chimica, forse è a letto, forse è al bagno o forse più semplicemente è uscita”. In realtà cominciamo a capire che la moglie è morta da anni. E questo rende il sesso persino più amaro, e gli echi delle battute a cena più strazianti.

 
Ci sono delle immagini narrative che non svelano solo quel personaggio, quel libro, quell’autore, ma additano e persino incarnano la storia di un intero genere letterario. E questa scena del commissario Rocco Schiavone (creato da Antonio Manzini e portato sullo schermo da Marco Giallini) in fondo sintetizza una verità perenne del poliziesco, che accomuna tutti i suoi protagonisti: da Maigret ad Amleto e prima ancora, un detective è sempre sposato con la morte. Lo sa bene anche il Montalbano di Camilleri, ogni mattina presto: “Aviva appena rapruto l’occhi, calcolanno che potiva dedicare un quarto d’ora scarso alle tambasiate mentali, quanno un pinsero improviso gli passò per la testa, non un pinsero completo, ma un principio di pinsero, un pinsero che accomenzava con queste ’ntifiche parole: ‘Quanno viene il jorno della to morti…’. E che ci trasiva questo pinsero in mezzo agli altri? Era una vigliaccata! Era come se uno, mentre faciva all’amuri, s’arricordava di botto che non aviva pagato la bolletta del telefono”.

Marco Giallini (qui con Isabella Ragonese) è l'interprete del commissario Rocco Schiavone nella serie tv, diretta da Michele Soavi, su Rai2. Personaggio e storie tratti dai romanzi di Antonio Manzini


 

Come scriveva Northrop Frye, per gli antichi Greci il guerriero costituiva il vertice dell’umanità ideale, proprio perché in fondo esercitava la vita di un contemplativo: che si tratti Ettore, l’uomo dei legami, il principe-padre-sposo, perfettamente inserito nella sua comunità, o del semidio Achille, che si aggira sulla spiaggia piangendo e urlando, sul visibile confine tra la natura umana e quella divina, solo il guerriero tra i “brotoi” (i mortali o, meglio ancora, i morenti) guarda in faccia la morte, altrui e propria, ogni istante della vita. Il che in fondo lo accomuna all’altro ideale dell’uomo libero greco, il filosofo che, lo sappiamo bene, non fa altro che “allenarsi alla morte”, come diceva Socrate. Non è certamente un caso che l’investigatore costituisca proprio la fusione di queste due figure. Ogni detective è una diversa commistione proprio di guerriero e filosofo. Come Achille, spesso deve tuffarsi tra i gorghi della violenza fisica, e al tempo stesso ogni suo gesto, ogni suo sguardo esprime una determinata visione del mondo, la vera lente d’ingrandimento con cui studia la scena del crimine. Del resto, l’espressione socratica “sediamoci e osserviamo bene” potrebbe essere stata pronunciata in Baker Street, o nella serra di Nero Wolfe.
E’ un tema che naturalmente esplode nella vita e nell’immaginario delle città post Rivoluzione industriale, con la loro nuova gestione del delitto, le guerre relativamente ai confini e la filosofia che diventa una dottrina universitaria e non uno stile di vita, ma in realtà presente in nuce fin dagli albori: già nella Bibbia di Daniele e Salomone o nell’“Edipo” di Sofocle abbiamo i primi interrogatori incrociati e i bluff con i sospettati (la connessione tra dramma e tribunale non è solo evidente nelle tante opere che rappresentano dei processi, ma anche dal carattere tuttora teatrale delle aule di giustizia, con i giuramenti o l’ingresso dei testimoni) e nell’“Amleto” il giovane principe-filosofo (ma guarda un po’) fa confessare Claudio senza parole, vedendolo sbiancare durante uno spettacolo ispirato al suo delitto. Lo Zadig di Voltaire col suo spirito deduttivo fa già presentire Holmes, ma il vero Founding Father è proprio l’americano Poe, il cavaliere eccentrico Dupin apre le danze al grande filone degli investigatori dilettanti. Negli anni di Dickens (che crea l’ispettore Buckett) e Wilkie Collins la parola detective inizia sempre più a diventare un sostantivo e non solo aggettivo di police. E dopo tanti Giovanni Battista, atteso e invocato persino da una parola nuova, il Messia arriva: Sherlock Holmes, col suo culto positivistico della fredda ragione, la sua indifferenza alle grazie femminili, i suoi abissi di tedio tra la febbre di un caso e l’altro.

  
Come spesso succede con le grandi intuizioni narrative, gli epigoni sperano di riscuotere lo stesso successo intagliando ancora e ancora la stessa cornice, senza aver davvero compreso il quadro. Molti cercheranno di imitare Doyle, ma saranno coloro che, ammirandolo, offriranno qualcosa di nuovo e persino opposto, a tributargli l’omaggio migliore e più fecondo. Il ricco filone degli investigatori eccentrici, che osservano e comprendono il mondo e il male meglio dei poliziotti in divisa. Il polemista cattolico G. K. Chesterton, che fu presidente dell’associazione degli scrittori polizieschi e uno dei primi difensori della validità del genere (“per una curiosa confusione, vari critici moderni sono passati dal dire che un capolavoro può anche essere impopolare, a dire che se non è impopolare non può essere un capolavoro”) ha contrapposto all’aristocratico scientismo di Holmes l’empatia del suo goffo e geniale padre Brown, allenato da anni di confessionale agli abissi della libertà umana. Laddove i poliziotti cercano dei criminali, egli invece sa di avere a che fare con una categoria molto più vasta e omnicomprensiva, quella dei peccatori: “Vedete, li avevo assassinati tutti io stesso, per questo naturalmente, sapevo come erano andate le cose… Avevo preparato ciascun delitto con ogni cura, avevo vagliato esattamente come esso potesse esser compiuto e con quale stato mentale un uomo potesse compierlo. E quando fui perfettamente sicuro di essere io stesso nelle condizioni dell'assassino, naturalmente seppi chi egli fosse… Intendo dire che realmente mi son visto, ho visto me stesso, commettere gli assassinii. […] Intendo dire che ho pensato e ripensato come un uomo possa diventare così, finché mi resi conto che ero simile a lui”. Oppure pensiamo al dandy Poirot di Agatha Christie o alla sua vecchia Miss Marple che, come una monaca laica, risolve i casi dal salottino del tè. Oppure al Nero Wolfe di Rex Stout, con i suoi fiori e i pasti pantagruelici, un esteta che, al pari del celebre Des Esseintes, a sua volta non esce praticamente mai ad appestarsi col fetore e baccano della città moderna. Un discepolo di Aristippo.

   
Accanto a tutto ciò, ecco però ricomparire anche il guerriero: il Sam Spade e di Hammett, e soprattutto un nuovo personaggio-spartiacque, il Philip Marlowe di Chandler. Che si lascia sfuggire i suoi aforismi col sorriso triste di un vecchio lupo (“I morti sono i migliori colpevoli di questo mondo. Non si difendono… La maggior parte della gente consuma metà delle proprie energie cercando di proteggere una dignità che non ha mai posseduto”). Per Chandler Marlowe incarnava il “principio di redenzione. Può essere pura tragedia se è alta tragedia, può essere ironia, pietà o l’aspro riso del forte. Ma sulla strada dei criminali deve camminare un uomo che non è un criminale, che non è un tarato, che non è un vigliacco. Nel poliziesco realistico quest’uomo è il detective. E’ l’eroe, è tutto. Un uomo completo, un uomo comune, eppure un uomo come se ne incontrano pochi. Dev’essere, per usare un’espressione un poco abusata, un uomo d’onore per istinto, per necessità, per impossibilità a tralignare. Dev’esserlo senza pensarci e, certamente, senza mai parlarne troppo. Il miglior uomo di questo mondo è abbastanza buono anche per qualsiasi altro mondo”. L’ombra lunga di Ettore e Achille.

  

Questa figura dell’uomo fondamentalmente buono che guada il fango della corruzione e della miseria umana (come dicono nella serie tv sul detective Luther/Idris Elba, “c’è differenza tra sporcarsi le mani e essere corrotti”) prosegue con un altro pilastro come Maigret. Negli stessi anni in cui Camus si chiedeva se si possa essere santi senza credere in Dio, Simenon voleva immaginare un medico dell’anima che non fosse uno psicologo o un prete: “Già all’età di 14 anni mi dicevo: perché non dovrebbe esistere una sorta di medico che sia al tempo stesso medico del corpo e medico dell’intelligenza?… è con questi intendimenti che poi ho creato il personaggio di Maigret… per me un ‘accomodatore’ di destini… medico dunque, e per una simile funzione è più importante di quella del confessore, perché il confessore è più pericoloso che salutare, per via del dogma. Perché se si giudicano gli uomini secondo i principi di un dogma, non si possono poi aiutare veramente… ho dato a Maigret una regola fondamentale della mia vita: comprendere e non giudicare, perché ci sono soltanto vittime e non colpevoli. Gli ho dato anche gli ineffabili piaceri della pipa, ovviamente”. Ed è questo che vediamo fare a quest’uomo ben curato ma di ossatura plebea, che percorre Parigi fumando e alla sera si riposa a tavola con la moglie, con la quale, intuiamo da accenni discreti, ha perso una bambina: “Ci si domandava qual era la sua idea, e in realtà non ne aveva. Non cercava neanche di scoprire un indizio propriamente detto, ma piuttosto di impregnarsi dell’atmosfera”.

  
La staffetta di questo sguardo compassionevole, di questa pietà virile, passerà poi nelle mani del Pepe Carvalho di Montalban e, l’omaggio si capisce subito, il Montalbano di Camilleri. Che talvolta può solo tuffarsi in mare per lavarsi di dosso la meschinità e il male che deve fronteggiare e scrutare ogni giorno: “Currì come un dispirato verso Marinella, arrivò alla casa, fermò, scinnì ma non trasì dintra, si mise a curriri verso la ripa di mari, si spogliò, lasciò che per tanticchia l’aria fridda della notte gli agghiazzasse la pelle e doppo principiò ad avanzare dintra all’acqua lentamente. A ogni passo il gelo lo tagliava con cento lame, ma aviva bisogno di puliziarisi pelle, carni, ossa e ancora più dintra, fino a dintra all’arma”.
Tuttavia anche la statua del guerriero può nascondere parecchie crepe, e già Achille ed Eracle sapevano bene che la grandezza e l’eccezionalità delle proprie doti e dei propri sentimenti spesso sfociano nella ferocia, o nella follia: se Marlowe voleva un eroe ultimamente luminoso, la narrativa successiva ha premuto l’accelleratore sugli aspetti più foschi di chi si trova a sguazzare nella violenza, e spesso, come Macbeth, non riesce più a lavarla via: i poliziotti corrotti di Ellroy, che letteralmente latrano alla luna, l’Alligatore di Carlotto, fino allo Schiavone di Manzini.

  
Abbiamo poi le filosofe-guerriere: la coroner Kay Scarpetta, che risale agli assassini studiando i cadaveri come una mappa o un poema, o la Catherine Cawood di “Happy valley”, una poliziotta-nonna col nipotino che soffre di esplosioni aggressive, e che, quando baciata in macchina, si ritrova qualcosa conficcato nella schiena e borbotta “Saliamo. Sono troppo vecchia per scopare in macchina”. E, naturalmente, la forza del genere si cimenta ormai da decenni con ambientazioni diverse nello spazio e nel tempo: incontriamo così investigatori eunuchi alla Corte Ottomana (lo Yashim di Jason Goodwin) o nella nebbia delle metropoli del futuro (il Deckart di Philip Dick o lo splendido e terribile Takeshi Kovacs di R. K. Morgan. Uno che, come testamento, chiede solo di far sapere che è morto “ancora incazzato”).

 

In fondo, tutti i nomi citati e tanti altri ancora, si aggirano sempre nella nebbia, del grigio della nostra comune natura umana. Da soli o in coppia. Altro tema fondamentale. In questo senso, il primo celebre duo investigativo è costituito dalla coppia Dante-Virgilio (le domande che rivolgono ai morti sono quasi sempre le famose “w” del giornalismo), seguito e variato da innumerevoli altri. Perché la verità la si cerca anche così, in un dialogo con una controparte essenziale (la propria moglie, un ex-criminale, un amico, il proprio padre o il proprio figlio, una vecchia prostituta, persino un mostro che supera l’orrore di tutti gli altri avversari, come nei duetti tra Clarice Starling e il dottor Lecter) oppure aggirandosi come lupi solitari, confortati o feriti da una serie di incontri fugaci. Una battaglia e una indagine filosofica che ci riconsegnano anche il paesaggio, perché il poliziesco è anche un grande inno doloroso alle città degli uomini. Nessuno che abbia letto Maigret camminerà in Place des Vosges nello stesso modo. Lo stesso vale per i Navigli di Scerbanenco, la Torino di Fruttero e Lucentini, la Sicilia di Sciascia. Notiamo di più e meglio quello che era già presente nella nostra percezione, ma che forse non avremmo mai saputo esprimere.
In questa comune zona grigia, nel guazzabuglio delle motivazioni, si aggira qualcuno che, come Socrate, fa domande scomode, e come Diomede, spesso deve sapersi fare largo in un vicolo buio, armato di pistola, o solo di un coltello. Ma che soprattutto, tenendo gli occhi incollati sulla morte, nel tentativo spesso vano di distinguere colpa e innocenza, comunica, con ogni gesto e battuta, come egli stesso, in prima persona, le tenga testa (sempre che ci si riesca): dalla cocaina di Holmes alle bracciate in mare e i pasti gustati in silenzio di Montalbano, dal whisky serale degli sbirri di Ellroy allo spinello mattutino di Schiavone, da una notte di sesso squallido eppure affamato, come cani intorno alla spazzatura, al riposo del piatto caldo preparato dalla persona cara.

 
Come notava Michael Onfray, “Il professore vive di filosofia. Il filosofo la vive… pensa per vivere e per vivere meglio, riflette per dirigere la propria azione, medita allo scopo di tracciare una strada all’esistenza, legge e scrive al fine di dare forma a un caos cartografato dal verbo”. Per questo continuiamo ad amare i detective e i loro casi. Non si tratta solo del piacere di scoprire il colpevole, certo. Ma perché, spesso a differenza nostra, dentro le indagini, prima e dopo aver risolto il delitto di qualcun altro, li vediamo allenarsi costantemente alla loro stessa morte. Come si auspicava Nietzsche, non ci fanno lezioni sulla vita, le incarnano. Mostrandoci anche tutto ciò cui è possibile aggrapparsi, da una briscola coi pensionati del “Bar Lume” di Malvaldi alla salutare reazione di Livia alle inquietudini mattutine di Montalbano: “Quanno ci si mittiva, Livia era pejo di Sherlock Holmes. Tanticchia affruntato, le disse la virità, tutta la virità, nient’altro che la virità. Livia s’infuriò. ‘Ma tu sei un demente!’. E fici spiriri la sveglia infilandola dintra a un cascione dell’armuar. L’indomani al matino invece della sveglia fu Livia ad arrisbigliari a Montalbano. E fu una bellissima arrisbigliata con pinseri di vita e no di morti”. A cosa aggrapparsi, o come lasciare la presa.

 
Nello splendido “Il grande nulla” Ellroy racconta un poliziotto che bracca un assassino di omosessuali. Arriviamo poi a scoprire che è segretamente omosessuale egli stesso. Alla prospettiva di essere sottoposto alla macchina della verità, “pensò al suo assassino; pensò che aveva ucciso perché qualcuno lo aveva spinto a essere quello che era lui. Alzò il coltello e lo perdonò; si portò la lama alla gola e la squarciò da un orecchio all’altro, fino alla trachea, con un solo taglio preciso”. Il coroner registrerà poi che “il taglio era sorprendente: nessun segno d’esitazione”. Ettore e Achille, ma anche Seneca e Epicuro avrebbero approvato.