Donald Trump al telefono nello Studio Ovale. Alla parete, il ritratto Andrew Jackson, una fisionomia che ogni americano conosce perché campeggia sulla banconota da venti dollari

The Donald 1829

Andrew Jackson, il “forgotten man” che portò il populismo alla Casa Bianca. Il settimo presidente e Trump, una simile idea dell’America

"Non si è visto nulla del genere dai tempi di Andrew Jackson", ha sussurrato un ammiratore all’orecchio di Donald Trump dopo la vittoria alle elezioni. L’accostamento con il settimo presidente degli Stati Uniti (dal 1829 al 1837) gli è rimasto impresso, lo ha riproposto in un’occasione ufficiale, definendo Jackson “una figura incredibile nella storia americana” e improvvisando un’antica ammirazione per un uomo “che non si arrendeva mai”. Deve essergli sovvenuto allora che già Newt Gingrich e Rudy Giuliani lo avevano paragonato all’inventore della presidenza populista, e che Stephen Bannon, alfa e omega dell’Amministrazione, nutre un’ossessiva ammirazione per il collerico condottiero diventato presidente. Quando, durante la campagna elettorale, hanno chiesto a Trump chi fossero i suoi presidenti preferiti nella storia, lui ha dato la risposta che un candidato repubblicano è tenuto a dare: Washington, Lincoln, Reagan. Più tardi ha aggiunto anche Eisenhower, scelta non del tutto convenzionale, perché i più puri fra i repubblicani giudicavano l’ex generale un democratico sotto mentite spoglie, e il suo rooseveltiano ricorso alla spesa pubblica spiega perché la National Review, bastione conservatore, correggeva lo slogan “I like Ike” con un più prudente “I prefer Ike”. Visto da destra, il vecchio Ike era soltanto migliore delle alternative. Trump, che promette molte infrastrutture e poca ortodossia liberista, poteva permettersi tranquillamente di evocare un eroe nazionale anche se non ha avuto accesso al Valhalla conservatore. Quando però si è trattato di scegliere gli arredi dello Studio Ovale, dal quale non si è mosso il busto di Martin Luther King né è comparso il ritratto di Vigo Von Homburg Deutschendorf di “Ghostbusters II” – le fake news non sono un’esclusiva della destra – il ritratto che si è fatto largo è proprio quello di Jackson.

 

Ora nella foto in cui Trump villaneggia al telefono il primo ministro dell’Australia incombe lo sguardo che ogni americano conosce perché occhieggia sulla banconota da venti dollari. C’è qualcosa di didascalico nell’accostamento fra due presidenti che, a due secoli di distanza, esibiscono somiglianze cristalline di temi e sporgenze caratteriali, condite da un’aneddotica che fa passare la voglia di sostenere che Trump è la negazione dello spirito americano. Se di negazione si tratta, è forse una manifestazione dell’antitesi che la modernità sempre produce assieme alla tesi, come spiega bene lo storico di Yale Steven Smith, muovendosi nel solco di Leo Strauss, nel saggio “Modernity and Its Discontents”, che fornisce un’ottima lente per leggere alla giusta distanza, e senza citarli mai, sia Jackson sia Trump, così diversi e così modernamente figli di uno stesso spirito. Gli esegeti di Jackson, a partire da quelli che si prendono più sul serio come Jon Meacham, autore della biografia da Pulitzer “American Lion”, dicono che l’analogia è fasulla, l’accostamento impreciso. Ci sono una serie di consonanze temperamentali e ambientali che derivano dal fatto che la storia non si ripete ma è in rima, secondo il detto apocrifo di Mark Twain, ma non colgono una quesitone sostanziale, sono soltanto accidenti e incidenti.

 

La cerimonia d’insediamento, ad esempio, con le parole incendiarie e la rivendicazione cruda, verbalmente violenta della riappropriazione del potere da parte del popolo è un tratto comune ai due: “Oggi non stiamo soltanto trasferendo il potere da un’Amministrazione all’altra o da un partito a un altro, stiamo togliendo il potere da Washington e lo stiamo dando a voi, il popolo americano”. Comuni sono anche certi slogan. Trump agita il suo “drain the swamp”, prosciugare la palude dell’establishment dove non cresce nulla, Jackson parlava di “pulire le stalle di Augia”, una fatica erculea che evidentemente era ancora un riferimento afferrabile per un popolo collegato in qualche modo all’epica. Ma al di là delle similitudini superficiali, meandri della storia, cosa c’entra il generale che vinse la battaglia di New Orleans con il tycoon dei palazzi dorati e dei reality show? Come si concilia l’ascesa dell’uomo della frontiera di umilissime origine con il rampollo del real estate che mette il suo brand sulla 5th avenue? Che c’azzecca l’uomo d’onore e di legnosa durezza che sfidava a duello per ogni affronto con il re dell’avanspettacolo che prega per i pessimi ascolti di Schwarzenegger alla National Prayer Breakfast e da re dello spogliatoio si vanta di afferrare le donne “by the pussy”?

 

Più di quel che si pensa. Non è soltanto una fissazione di Bannon, che peraltro, a dispetto dell’immagine da zotico che coltiva con impegno, qualche libro lo ha letto, ma Jackson e Trump sono incompatibili soltanto se si procede per accostamento diretto, frontale, per dir così. Si deve piuttosto andare per analogie indirette, mettendo a paragone il tipo jacksoniano con l’uomo di Trump. Occorre una dialettica identitaria. Walter Russel Mead, che da tempi non sospetti studia l’America jacksoniana come chiave per capire l’oggi, scrive: “Per i jacksoniani, che hanno formato il nucleo della base appassionata di Trump, gli Stati Uniti non sono un’entità politica creata e definita da una serie di proposizioni intellettuali radicate nell’illuminismo e orientate verso il compimento di una missione universale. Piuttosto si tratta dello stato-nazione del popolo americano, e i suoi affari principali sono nell’ambito domestico. I jacksoniani vedono l’eccezionalismo americano non come un attributo dell’universale attrazione delle idee americane, e nemmeno come l’attributo di una vocazione unicamente americana a trasformare il mondo, quanto piuttosto radicare nel singolare impegno di questo paese all’uguaglianza e alla dignità dei singoli cittadini americani.

 

Il ruolo del governo americano, credono i jacksoniani, è quello di compiere il destino del paese attraverso la cura della sicurezza fisica ed economica nella loro patria, facendo questo interferendo il meno possibile con la libertà individuale che rende unico questo paese”. Ecco l’analogia che nella comparazione letterale dei due personaggi non si vede: la concezione della nazione e del ruolo dell’America nella storia universale che Jackson ha infuso è estremamente più profonda e vasta della figura stessa di Jackson, così come le nozioni implicite che Trump raccoglie e veicola sono più forti e imponenti del pervasivo e totalizzante personaggio che Trump ha fatto di se stesso. In un certo senso sono entrambi eroi inconsapevoli, hegeliane astuzie della ragione. Il nazionalismo trumpiano va a nozze con l’impronta politica data dal primo presidente che non aveva una plantation in Virginia e non era un Adams del Massachusetts. Veniva da una parte così remota della frontiera che non si sa nemmeno in quale stato esattamente sia nato. La sua era una famiglia di scotoirlandesi, quegli scozzesi dell’Ulster che si erano stabiliti lungo gli Appalachi formando comunità identitarie distinte per sensibilità, costumi e senso dell’appartenenza nazionale sia dai britannici che erano già sul continente, sia dagli irlandesi cattolici che sarebbero arrivati in massa più tardi.

 

Queste stesse comunità depresse e sospettose, ancora oggi relativamente isolate, sono state al centro della grande indagine nazionale intorno ai caratteri dell’elettore di Trump, il famoso “forgotten man” che il presidente ricorda sempre. Jackson era un forgotten man esemplare. La vicenda di J.D.Vance e della sua famiglia, raccontata in “Hillbilly Elegy”, caso editoriale e politico di memorialistica apolitica, è quella di una famiglia appalachiana povera di denaro ma ricca di significati derivati dai legami comunitari che fatica maledettamente ad adattarsi alla vita della classe media e livellatrice dell’Ohio, ed esce malconcia dalla contraddizione. E’ una famiglia jacksoniana, e non soltanto perché riprende in vari modi i temi della vicenda storica dei Jackson. Mostra infatti una visione del mondo su scala locale, dove l’idea della patria è legata a un confine da difendere prima che a un ideale da esportare, un universo fatto di interesse e onore, di familismi amorali e teste dure. Era massone, Jackson, inserito in una logica corporativa, ma non era radicato negli ideali illuministi e nel loro raziocinante universalismo; in modo non del tutto dissimile, Trump è uomo di affari immobiliari e traffici loschi ai margini di Atlantic City, ma non è radicato nel mondo globalizzato della finanza. Alexis de Toqueville, che inevitabilmente guardava il mondo attraverso le lenti dell’aristocrazia francese, liquida con sufficienza “un uomo dal carattere violento e dalle capacità mediocri”, diventato presidente “soltanto grazie al ricordo di una vittoria ottenuta vent’anni fa sotto le mura di New Orleans”.

 

Per l’uomo jacksoniano non c’era ragione più adeguata di quella strenua resistenza patriottica per elevarlo al ruolo di presidente, che era concepito innanzitutto come un difensore dell’esistente, non un visionario che porta “hope” e “change”. “Il populismo jacksoniano si occupa soltanto a intermittenza di politica estera, e per la verità si occupa soltanto a intermittenza di politica in generale”, scrive Russel Mead. Alla Casa Bianca Jackson ha inventato il “kitchen cabinet”, il governo del tinello fatto di consiglieri informali e senza ruoli, che altro non era se non la trasposizione in termini politici della comunità identitaria nella quale si era formato. Trump si è portato addirittura i lealisti della famiglia fin dentro la West Wing. Rispetto all’uomo globale di Hamilton, l’uomo di Jackson “colloca la sua comunità morale più vicino a casa, in cittadini che condividono con lui un comune legame nazionale”, scrive Russel Mead. Non è un caso che Hamilton sia diventato un eroe hip-hop di Broadway, con il cast che fa la predica al vicepresidente che era andato a godersi lo spettacolo, e Jackson sia finito nello Studio Ovale di Trump.

 

In questa analogia la violenza e l’onore a questa connessa ha un ruolo centrale, naturalmente. Nel racconto di Vance compare uno zio che per poco non fa secco con la sega elettrica un camionista che gli aveva dato del figlio di puttana. L’uomo sopravvive e decide di non denunciare il suo aggressore, scelta che non stupisce nessuno nella comunità: è parte del codice d’onore. Allo stesso modo, Thomas Hart Benton è diventato il più ardente sostenitore di Jackson dopo averlo quasi ammazzato a pistolettate. Le cronache dell’epoca dicono che quella notte a Nashville non c’era medico che riuscisse a fermare l’emorragia dalla spalla ferita, e tutti i dottori tranne uno hanno suggerito l’amputazione dell’arto. Jackson, più di là che di qua, ha sentenziato: “Mi tengo il braccio”. E’ stato protagonista di duelli cruenti e talvolta disonorevoli (è stato criticato dai gentiluomini del Kentucky per aver ucciso a sangue freddo uno sparatore più abile di lui, ma del resto Jackson si era preso la prima pallottola nel petto, così vicino al cuore che non sono mai riusciti a togliergliela), è stato un generale feroce e vendicativo, ha ordinato esecuzioni alle sue milizie senza divisa, organizzato processi sommari, condotto campagne elettorali che hanno polverizzato ogni decenza, almeno per gli standard del tempo. Le parti più nere della sua leggenda riguardano il trattamento dei nativi americani, cacciati brutalmente verso il nulla dell’Oklahoma nel famoso “trail of tears”. Un genocidio a tutti gli effetti, sostengono in molti, sollevati dal fatto che dal 2020 la sua figura sulle banconote sarà rimpiazzata da quella dell’abolizionista Harriet Tubman.

 

Al netto di impeachment e maledizioni, allora il ritratto di Jackson sarà ancora lì, nello Studio Ovale. Lo chiamavano “jackass”, asino, per la sua testardaggine, ma lui non era permaloso e lo giudicava un complimento, tanto da adottare l’animale come mascotte, in barba agli avversari che credevano di ferirlo. Ancora oggi l’asino è il simbolo del partito che Jackson ha fondato, il Partito democratico. Era un agitatore di animi, in tutti i sensi. L’amore dei suoi sostenitori era pareggiato soltanto dall’odio dei suoi critici. Il giorno dell’insediamento la folla era preda di un invasamento tale che ha fatto irruzione prima nel Congresso e poi alla Casa Bianca, lui ha dovuto abbandonare la residenza troppo ricolma d’amore – si dice da una finestra – e ha passato la prima notte da presidente in un albergo. Una tremenda campagna elettorale lo aveva lacerato, culminando con la morte improvvisa della moglie Rachel, che lui ha sempre attribuito alla velenosa indecenza dei suoi avversari che la chiamavano “bigama”, alludendo al fatto che lei e Jackson si erano probabilmente sposati prima che il procedimento per il divorzio da un precedente matrimonio fosse liquidato.

 

Al suo funerale, Jackson ha accusato gli uomini della campagna di Adams di omicidio: “Spero che Dio onnipotente possa perdonare gli assassini. Io non potrò mai farlo”. La rabbia incontenibile è il tratto che è rimasto impresso nella memoria popolare di un uomo che non la mandava a dire sul campo di battaglia o alla Casa Bianca. Tutti i suoi collaboratori e amici avevano una serie di aneddoti su Jackson che perde le staffe. Lo storico Henry William Brands ha scritto: “Gli osservatori lo paragonavano a un vulcano, e soltanto i più intrepidi o stupidamente curiosi avevano voglia di vederlo eruttare”. Un’interpretazione più sottile della rabbia di Jackson – e più pertinente per l’oggi segnato dalla rabbia di Trump – l’ha data Robert Remini. Secondo lui il presidente non aveva alcun problema a controllare la sua rabbia, che era diventata però un mito e uno strumento di governo. Remini, insomma, dice che Jackson ci faceva. E sorrideva beffardo dentro di sé quando nel suo ultimo giorno da presidente ha detto che aveva soltanto due rimpianti: “Non avere sparato a Henry Clay e non avere impiccato John Calhoun”, i suoi peggiori nemici.

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