L’abbraccio plateale in via D’Amelio, a Palermo, tra Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo assassinato dalla mafia, e Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso

I separati del dolore

Riccardo Lo Verso

Sono i familiari di Borsellino. Da un lato c’è la compostezza dei figli. Dall’altro la militanza chiacchierona del fratello Salvatore, che abbraccia Ciancimino e si sbraccia per la Trattativa

E’ una storia di dolore e militanza quella dei Borsellino. Militanza politica e giudiziaria. Il dolore appartiene a tutti, diversa è la reazione che ne segue. Una reazione silenziosa e rispettosa per alcuni. Urlata per altri. Sono mogli, figli, sorelle e fratelli nelle cui vene scorre lo stesso sangue versato dal magistrato dilaniato da Cosa nostra. Una precisazione doverosa in un mondo popolato di gente che si autoproclama portatrice di ideali e valori appartenuti al magistrato assassinato in via D’Amelio. Il “Paolo”, di cui in tanti, troppi si riempiono la bocca, non potrà né smentirli, ne strizzargli l’occhio. E allora si diventa tutti “amici di Paolo”. La misura è colma. Per rendersene conto basta leggere le parole con cui Manfredi, Lucia e Fiammetta hanno diffidato una onlus che riteneva di poter sbandierare il loro cognome per accomodarsi al banchetto delle parti civili. “Il preventivo avallo, nella fatale assenza di elementi conoscitivi, ad iniziative variamente e genericamente riconducibili, per auto definizione, ad attività cosiddette antimafiose – si legge nell’atto di diffida – contraddirebbe oltretutto lo spirito di laica prudenza e di rigoroso esame dei fatti che costituisce il più importante contrassegno dell’eredità intellettuale del magistrato”. Giù le mani da nostro padre, dicono i figli di Borsellino. Fiammetta è la più piccola.

 

Nelle cronache si ricordano appena un paio di suoi interventi. Parlare di interviste è troppo. Riduttivo definirla riservata. Riservato lo è anche Manfredi, commissario di polizia a Cefalù che, però, di tanto in tanto si fa sentire. Per la verità solo quando c’è davvero qualcosa di importante da dire perché le chiacchiere stanno a zero, come “le commemorazioni senza senso” contro cui si scagliò un paio di anni fa. Era il 19 luglio 2015. Aveva fatto sapere che si sarebbe messo di turno al lavoro, “per cercare di fare qualcosa di concreto” ed evitare la passerella. Ed invece era lì, nell’aula magna del Palazzo di giustizia di Palermo, ad attendere l’arrivo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Aveva davvero qualcosa di importante da dire. Bisognava difendere la sorella Lucia che, disse Manfredi, “ha portato una croce". Erano i giorni in cui si dibatteva sulla frase bufala, così l’hanno definita i magistrati, con cui il chirurgo plastico e amico del governatore Rosario Crocetta, secondo un articolo pubblicato dall’Espresso, avrebbe augurato a Lucia di fare la stessa fine del padre.

 

Non era a quella frase, seppure smentita, che Manfredi si riferiva, ma al “clima di ostilità e alle offese che le venivano rivolte” mentre tentava, da assessore regionale alla Salute, di contribuire a “una sanità libera e felice”. Lucia Borsellino decise di lasciare l’incarico ma, come ricordava Manfredi, “la lettera di dimissioni ha prodotto il silenzio sordo delle istituzioni, soprattutto regionali”. Lucia Borsellino era diventata, suo malgrado, il simbolo di una rivoluzione, quella di Crocetta, miseramente fallita. La sua era stata una scelta di generosità. Da dirigente regionale aveva deciso di accettare un incarico politico, mantenendo il suo status di tecnico. Il silenzio accolse le sue dimissioni. Toccò a Manfredi, e di certo non fu ispirato dalla sorella, decidere di intervenire “perché non credevo che la figlia prediletta di mio padre, quella con cui lui viveva in simbiosi, avrebbe dovuto vivere un calvario simile al suo nella stessa terra che ha poi elevato lui a eroe”. Lucia aveva detto sì a Crocetta per spirito di servizio. Nessuna bramosia di carriera politica. Quella stessa politica che le ha voltato le spalle. Ha pagato l’inesperienza forse, al di là dei meriti e dei demeriti che ha avuto nella gestione della malandata sanità siciliana. Squisitamente politica, invece, è stata la scelta di Rita Borsellino, sorella del magistrato, la prima a scrivere il suo cognome su una lista elettorale.

 

Dalla militanza antimafia – quella degli anni al fianco di don Luigi Ciotti nell’associazione Libera che sarebbe diventata una holding nel panorama dei beni confiscati – alla candidatura alla guida della presidenza della regione. Una Borsellino contro Totò Cuffaro, che non era ancora stato condannato per mafia, ma era già abbastanza chiacchierato per dare alla sfida il sapore della lotta eterna fra il bene e il male. Rita Borsellino ne uscì sconfitta, ma il patrimonio di un cognome non poteva andare perduto. E così nel 2009 divenne europarlamentare del Pd. Nel 2012 la nuova sfida: le primarie del centrosinistra per scegliere il candidato a sindaco di Palermo. Gli elettori del Pd le preferirono un giovane rampante, Fabrizio Ferrandelli, poi sconfitto dal politicamente eterno Leoluca Orlando. Il Professore e il giovane rampante si sfideranno di nuovo a breve, chissà se le accuse di voto di scambio politico-mafioso piovutegli addosso azzopperanno il candidato Ferrandelli. Rita Borsellino è una traghettatrice. Si colloca nel mezzo fra la militanza politica a quella giudiziaria del fratello Salvatore. Si sono spesso ritrovati accanto e da soli, senza altri familiari a fianco, alle marce e alle fiaccolate dove il segno distintivo è lo sventolio delle agende rosse. Per anni Salvatore ha vissuto lontano dalla Sicilia. Si era trasferito a Borgofranco d’Ivrea, “la città dove avevamo scelto di vivere per fuggire da Palermo – così scriveva – una città dove io, con la mia laurea in Ingegneria, non avrei mai potuto trovare un lavoro e dove non volevamo far nascere e crescere i nostri figli”.

 

A Palermo c’è tornato anni dopo la strage del ’92, e l’agenda rossa, quella del fratello magistrato sparita nel nulla, è diventata il simbolo del suo movimento, il vessillo di una confraternita che bandisce gli eretici. O dentro o fuori. E dentro vi sono finiti pure personaggi le cui imposture sarebbero state presto smascherate. Come Massimo Ciancimino, condannato per avere riciclato il tesoretto del padre, arrestato pochi giorni fa per essersi portato a casa dei candelotti di tritolo tentando di fare credere che si trattasse di una minaccia, condannato e imputato a Bologna e Caltanissetta per calunnia. Salvatore Borsellino e Ciancimino jr si abbracciarono in via D’Amelio e il figlio di don Vito divenne il redento della confraternita. Redento e trasformato dal pubblico ministero Antonio Ingroia nel testimone chiave del processo sulla Trattativa. La Trattativa e cioè la Camelot di leggendari magistrati pronti a tutto pur di raggiungere la verità. Per anni è stato un fortino, la Trattativa. Oggi sembra una ridotta della procura di Palermo. Ingroia tentò il salto di qualità, voleva trasformare la confraternita in un partito politico. Alla fine si dovette accontentare del sostegno di una manciata di adepti, la sua Rivoluzione civile si schiantò contro il muro dell’indifferenza degli elettori. I pm della Trattativa sono gli unici che meritano il rispetto di Salvatore Borsellino. Gli unici che ricevono l’invito per le manifestazioni organizzate dal suo movimento o per i quali si convocano adunate di solidarietà.

 

Ad esempio quelle per il pm Antonino Di Matteo, che sull’eccidio di via D’Amelio indagò quando era un giovane magistrato in servizio a Caltanissetta. “Nei primi interrogatori abbiamo ritenuto che le dichiarazioni di Scarantino fossero genuine. Solo dopo abbiamo intuito che erano inquinate”, disse in aula Di Matteo, citato come testimone al Borsellino quater. Una circostanza che, come è giusto che sia, non scalfisce la stima per il pubblico ministero. Borsellino, però, usa due pesi e due misure. Non mostra analoga riconoscenza, infatti, per coloro che, a fatica e a distanza di decenni, hanno smontato la vergogna delle inchieste costruite sulle bugie dei finti pentiti. I pm di Caltanissetta sono dovuti ripartire dalle macerie lasciate sul campo dai colleghi che hanno creduto – fatta salva la buona fede – a Vincenzo Scarantino e soci, nonostante gli avvocati urlassero per tentare di smascherare le loro patacche. Per Borsellino tutto questo non basta. “Nessuno ha ritenuto di dover presenziare all’udienza”, ha scritto il fratello del magistrato alcuni giorni fa al termine di un’udienza del processo. Salvatore Borsellino ha “condannato” pure il pm Stefano Luciani, presente in aula, “colpevole” di non avere incrociato il suo sguardo per un saluto. Per Borsellino si è trattato di un gesto deliberato, figlio della “fatwa” lanciata contro di lui da Nico Gozzo e Sergio Lari. Il primo oggi fa il sostituto procuratore generale a Palermo, mentre il secondo è il procuratore generale di Caltanissetta.

 

Sono stati i due magistrati che hanno riaperto le indagini sulla strage di via D’Amelio. Due anni fa, però, criticarono l’abbraccio con Ciancimino alla commemorazione dell’eccidio, vedendo in quell’immagine il simbolo di un’antimafia urlata che dimenticava le vere icone della legalità per rimpiazzarle con personaggi dalla discutibile credibilità processuale. I loro meriti non potevano che passare in secondo piano. Non importa che abbiano rivoltato come un calzino i processi imbastiti sul nulla. Non importa che abbiano portato in aula magistrati e poliziotti dai quali sarebbe stato lecito attendersi che dicessero “scusateci, abbiamo sbagliato”, rivolgendosi ai familiari delle vittime – Borsellino e gli agenti di scorta – e agli imputati mandati in galera da innocenti. Non importa che i pubblici ministeri di Caltanissetta abbiano fatto tutto questo. Quello che conta è che uno di loro, ammesso che sia accaduto, non abbia incrociato lo sguardo di Salvatore Borsellino. Nella trincea del fratello del magistrato le bordate non hanno risparmiato né la Corte d’assise né il presidente della Repubblica emerito Giorgio Napolitano al quale i giudici ebbero il torto di revocare l’ammissione alla testimonianza. Apriti cielo. Salvatore Borsellino era pronto a ritirare la costituzione perché non gli interessava partecipare “a un processo in cui l’esigenza primaria della ricerca della verità e della giustizia soggiace alle imposizioni di chi ritiene di essere al di sopra delle leggi e detiene evidentemente ancora il potere necessario a imporre il suo volere”. Un attacco che segna la distanza dalla cognata Agnese, moglie di Paolo. E’ morta nel 2013 la signora Piraino Leto in Borsellino. Per anni è rimasta in silenzio. Ammise di averlo fatto per proteggere i propri figli.

 

Poi, decise di raccontare le confidenze del marito ai giudici di Caltanissetta, gli stessi che ora il cognato attacca. Evidentemente si fidava di loro. La pensava in maniera opposta anche su quel “galantuomo di Napolitano” che Nicola Mancino, uno di cui invece Agnese Borsellino disse di non fidarsi, aveva “messo nel mezzo” nelle telefonate con il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio. E cioè quelle telefonate che, pur non avendo alcuna rilevanza penale per stessa ammissione dei pubblici ministeri della Trattativa, sono state per mesi spacciate come l’ariete per penetrare in chissà quali segreti e nefandezze di stato. Napolitano ha dovuto sollevare un conflitto davanti alla Corte costituzionale per vederle mandate al macero. Il 19 luglio è ancora lontano. C’è tempo per allestire le passerelle, organizzare marce e fiaccolate. Da qui ad allora magari potrebbero servire le parole scritte nella diffida con cui Manfredi, Lucia e Fiammetta Borsellino hanno vietato a una onlus di sfruttare il loro cognome. Non pretendono e non vogliono essere “pubblici custodi” dei valori del padre, ormai patrimonio dell’intera collettività, ma sottolineano che “una felice scelta fonetica non può surrogare i valori che quel nome dovrebbe rappresentare”.