L'utile dilettevole

Andrea Ballarini

Sorseggiando un Kir con l’abate Faria. Dove si dimostra quanto sia indispensabile ciò che non serve, perché la ragione non è tutto

Mi ha dato appuntamento in una larga terrazza che si protende sul mare per svariate decine di metri. I cristalli della veranda, che una volta dovevano essere pulitissimi, sono tutti aperti e la piacevole brezza marina porta i profumi del Mediterraneo alla decina di fortunati che hanno l’opportunità di impiegare parte della loro giornata sorseggiando un aperitivo in quello che è uno degli angoli più suggestivi della Francia del Sud. E più carichi di storia. E di storie. Non per niente l’uomo che mi sta aspettando al tavolo con un calice di liquido ambrato è uno dei protagonisti di una delle più strepitose storie mai narrate. E’ anziano, ma non saprei dire se abbia settant’anni o cento; indossa un morbido abito di lino color écru con una camicia in tinta e una cravatta ciclamino a pois bianchi, che non è esattamente quel che mi aspettavo da un sacerdote; la barba è candida come i capelli e come questi è accuratamente regolata, né lunga, né corta. Sta leggendo qualcosa sul display del cellulare ma non appena si accorge della mia presenza lo posa, si alza e mi tende la mano con un sorriso che può solo essere definito contagioso. Mi invita a sedermi di fronte a lui e prima ancora che abbia preso posto ha già richiamato l’attenzione del cameriere ordinando a gesti un altro bicchiere di quel che sta bevendo lui. Pochi secondi e anch’io ho davanti il mio aperitivo. Che cos’è? Chiedo, levando il calice in risposta al brindisi proposto dal mio ospite.

 

“Un Kir. L’ideale prima di cena, soprattutto se è alla temperatura perfetta, come questo. In Italia il Kir è quasi sempre nella versione Royal, con il Prosecco al posto del Bourgogne Aligoté – che è praticamente introvabile – ma secondo me non c’è paragone: è molto meglio così”.

 

Benché non mi aspettassi un essere irsuto e con gli abiti a brandelli, come nelle illustrazioni delle edizioni ottocentesche, non ero neppure preparato a questo bon vivant borghese, dall’aspetto assai benestante. Evidentemente i miei pensieri devono essere trasparenti, perché il mio commensale dice: “Lo so, sono un po’ diverso da come sono stato raccontato, ma del resto ora vivo in una graziosa casetta sul mare e il Castello d’If lo vedo solo dal mio terrazzo – il che è assai meglio che viverci, mi creda – e la tonaca… be’, diciamo che si è sfilata al momento della mia morte letteraria”.

 

Si sta così bene su questa terrazza, col venticello che ci rinfresca, il sole che ci riscalda, il Kir freddo a lenire tutte le ansie, che non so come entrare in argomento senza risultare troppo brusco. Per fortuna ci pensa lui.

 

“Lei si starà forse domandando a cosa serve tutto questo?” dice, riassumendo la situazione con un gesto vago che comprende il mare, il cielo, il sole, la terrazza, gli aperitivi.

 

Veramente no, ma se ci penso, sì, potrei chiedermi perché abbia voluto vedermi qui, quando avremmo potuto liquidare la nostra conversazione con una semplice telefonata di mezz’ora; ma visto quanto è piacevole stare qui, preferisco non chiedermelo.

 

“E’ esattamente quel che penso io. Non sempre le cose più pratiche sono le più utili. Una telefonata sarebbe stata di certo più pratica, ma non avremmo goduto di questa vista, non avremmo potuto apprezzare questo venticello e, soprattutto, non avremmo potuto gustare il Kir della patronne. Per tacere della sua bouillabaisse. In Costa Azzurra ogni ristorante si vanta di cucinare la miglior bouillabaisse di Francia, ma quella che fanno qui…” e si bacia la punta delle dita con un gesto molto, molto italiano.

 

Allora, visto che ha introdotto lei l’argomento, ne approfitto. Durante la breve chiacchierata che abbiamo avuto mi è parso di capire che abbia delle idee molto precise su quel che è utile e quel che è inutile.

 

“Diciamo che ho delle idee molto precise sulla differenza tra quel che serve e quel che è utile. Sono stato un insegnante per molti anni e ho maturato la convinzione che nell’insegnamento, e di conseguenza nello studio, non ci si dovrebbe occupare più di tanto di quel che serve, bensì di quel che è utile. Vedrò di spiegarmi con una storiella zen che ho letto da qualche parte molti anni fa, non ricordo più dove… cosa vuole, con gli anni la memoria comincia a perdere qualche colpo… Immagini che improvvisamente al mondo ci siate solo lei e quella porzione di suolo che le serve per appoggiarvi i piedi e tenersi ritto; anzi, giacché ora è seduto, immagini che scompaia tutto tranne quei pochi centimetri quadrati di terra necessari a sorreggere la sua sedia e a lei per tenervi appoggiati i piedi. Solo questo, il resto non le servirebbe e quindi non ci sarebbe più. Riesce a immaginarlo?”.

Con un po’ di fatica, ma ci riesco.

“Crede che potrebbe essere felice in una situazione del genere?”.

Ne dubito.

“Eppure avrebbe tutto quello che le serve. Lei vivrebbe, respirerebbe, potrebbe ragionare e perfino muoversi, per quanto relativamente. Avrebbe tutto quello che le serve, ma nulla più di questo. Ciò non dimostra forse quanto sia indispensabile ciò che non serve?”.

Riconosco che è una provocazione stimolante.

“No, la prego, non si metta a parlare come gli intellettuali che quando pensano che una cosa sia un’idiozia la chiamano provocazione. Se non è d’accordo lo dica”.

Ma no, si figuri. Penso che sia vero, solo che credo si debba intendere il concetto cum grano salis.

“Come tutti i concetti, del resto."

Certo, ma se interpreto bene le sue parole, lei vuol dire che nel decidere cosa studiare non bisogna tenere solo in considerazione l’utilità di quel che si studia”.

“Di quel che serve, non di quel che è utile. C’è una bella differenza. Una cosa può essere utilissima e non servire a nulla”.

Ma lei sta facendo l’apologia degli studi umanistici e sta svalutando il sapere scientifico?

“Ma lei sta stravolgendo le mie parole per puro espediente retorico, affinché spieghi meglio quel che intendo, oppure ha veramente capito questo?”.

La prima che ha detto.

“Ah, meno male. Lungi da me l’idea di abbarbicarmi alla supposta superiorità delle discipline umanistiche su quelle scientifiche. Credo che entrambe abbiamo gli stessi diritti di cittadinanza in una civiltà che non voglia regredire allo stato di barbarie. Credo però che l’utilità, nell’accezione più riduttiva del termine, che di solito è il misero criterio in base a cui si tende a privilegiare gli studi tecnico-scientifici a quelli umanistici, non sia il più adatto a compiere delle scelte oculate. In altre parole, credo che l’idea di utilità – intesa come utilità in senso nobile e non degradata a mero ‘servire a qualcosa’ – necessiti disperatamente di una ridefinizione semantica”.

Siamo qui per questo.

Il mio commensale si lascia sfuggire un sorriso prima di sorbire un lungo sorso del suo Kir con una voluttà difficile da immaginare in un uomo di quell’età.

“Una cosa può non avere un’applicazione pratica, eppure avere un’utilità enorme. Forse che il colle e la siepe che impediscono la vista di una porzione di paesaggio servono a qualcosa? No. Domani un bimbo nel mondo avrà meno fame perché io sono appagato dalle sensazioni che dà quella parte dell’ultimo orizzonte? Non credo. E allora? Dovremmo forse per questo smettere di interessarci a quel colle solitario? Forse che ciò renderà quel bimbo meno malnutrito? Non penso proprio. Forse, però, renderà me più gretto, più arido e, in ultima analisi, meno capace di far qualcosa per aiutare quel bimbo. Tutto questo per dire che, se non svincoliamo lo studio dalla tirannide dell’utilità, anzi dal fatto che debba servire a qualcosa di pratico, di immediatamente quantificabile e misurabile, finiremo per perdere di vista il suo valore più importante che non è il servire a qualcosa, quanto l’essere utile”.

Forse qui potrebbe essere più chiaro.

“Immaginiamo per un momento che nessuno studi più il latino. Una perdita relativa, si dirà. Del resto, a meno di frequentare compulsivamente sacerdoti o giuristi, le occasioni di utilizzare quella lingua non è che oggi siano poi così tante. Improvvisamente il latino diventerebbe come l’etrusco, una serie di segni ininterpretabili. Si potrebbe obiettare che il mondo continuerebbe all’incirca nello stesso modo, senza fare un plissé. In fondo ci sono così tante lingue che una in meno, e morta per di più, che differenza farebbe mai? Scarsa. E se dall’Europa uscisse la Grecia? Ce ne faremmo presto una ragione. Ce la siamo fatta con la Gran Bretagna, vorremmo non farcela con la Grecia, che per di più serve così poco dal punto di vista economico? Anzi, possiamo dire senza tema di essere contraddetti che da questo punto di vista la Grecia non serve quasi a niente”.

Infatti, c’è chi lo sostiene. 

“Ecco, e finché ragioneremo in questi termini biecamente utilitaristici, con in mente quell’accezione umiliante di utile di cui dicevamo, non riusciremo mai a capire. Il criterio economico è uno dei tanti, importante, fondamentale, come negarlo? ma farlo diventare l’unico in base a cui interpretare il mondo sarebbe come credere che abbiamo le mani solo per poterci tagliare le unghie. Se la gente si comportasse esclusivamente sulla base di motivazioni econonomiche sarebbe un mondo molto più facile da interpretare. Ma non è così. La Grecia è alla base di quel che è l’Europa, della sua storia, della sua essenza, del suo spirito, della sua anima, ed è per questo che pensare un’Europa senza la Grecia è pura follia… anche se è vero che i greci hanno fatto un bel po’ di casino col bilancio durante le olimpiadi. Ma ce la sentiamo di sostenere che poiché i romani hanno avuto degli imperatori pazzi, bisogna cancellare ogni traccia dell’impero romano dalla nostra storia?”.

Non comincerà a fare ragionamenti misticheggianti sull’anima e lo spirito, vero?

“Nessun misticismo o spiritualismo alla buona. Se le persone agissero solo in base a motivazioni economiche non avremmo neppure la metà dei problemi che abbiamo, ma gli esseri umani tendono a dare lo stesso valore che attribuiscono al denaro – anzi, persino superiore – ai simboli. E i simboli agiscono indipendentemente dal fatto che ce ne si renda conto o meno. Ma noi tendiamo a dimenticarcelo e a comportarci come se avessimo a che fare con degli esseri esclusivamente raziocinanti e consequenziali. Basta vedere quanto poco ci azzeccano i sondaggi con le loro analisi scientifiche: dalla Brexit a Trump, solo per citare gli ultimi due casi macroscopici”.

Ma per tornare al nostro tema. Questo cosa dimostra?

“Questo dimostra che le azioni degli uomini, e quindi anche quel che si studia, se vogliono avere la speranza di rendere questo mondo un posto migliore, devono rispondere a motivazioni più spirituali e più profonde del mero ‘serve o non serve’. Quando leggo certi interventi di pseudointellettuali à la page che sostengono che dovremmo tutti metterci a studiare fisica nucleare, o microbiologia, o qualche altra materia superscientifica, perché lo scopo dell’università deve essere quello di produrre applicazioni pratiche del sapere, mi riempio di bolle. A parte che un’infinità di scoperte ‘pratiche’ nascono da casi fortunati, come la penicillina, o da eventi di pura serendipità, come i raggi x, lo scopo dell’educazione non è quello di fabbricare scienziati migliori, bensì quello di far crescere uomini migliori, che poi saranno scienziati, medievisti, esperti di graffiti rupestri, idraulici, sarti, musicisti o ingegneri elettronici migliori. Si studia non per servire a qualcosa, ma per essere utili a sé e all’umanità. Ma finché le scuole saranno pensate avendo in mente la domanda ‘a che cosa serve?’ persevereremo nella tragica convinzione che in Italia, soprattutto in Italia, si possa non studiare la storia dell’arte. Ma può esservi qualcosa di più assurdo? Del resto, a che cosa serve la bellezza? A salvare il mondo? Bah, forse per qualche russo un po’ fissato di un paio di secoli fa… E poi ci meravigliamo che si costruiscano brutture architettoniche che devastano il paesaggio”.

 

Così lei però si sta un po’ contraddicendo. La bellezza è un valore in quanto tale e non perché impedisce di dare in pasto alla speculazione edilizia angoli di paesaggio.

“Ammetterà però che sarà più difficile far approvare un piano regolatore mostruoso a chi ha in sé una qualche idea di bellezza. E quell’idea non è innata, va coltivata, fatta crescere e accudita con amore. E poi, comunque, questo è solo un effetto collaterale della conoscenza. La conoscenza è ricompensa a sé stessa. Crede che Edmond, quando ci siamo incontrati molti anni fa nelle celle di quel castello che si vede là in fondo a sinistra, piantato nel mezzo del golfo di Marsiglia, sarebbe stato più felice se gli avessi insegnato qualcosa di pratico invece di raccontargli quel che diceva Saffo delle Pleiadi a metà della notte? Quante altre volte nella sua vita gli sarà capitato di occuparsi delle Pleiadi? Una? Nessuna? Eppure, quel che è poi diventato Edmond è misteriosamente legato anche a quel che Saffo ha detto delle Pleiadi. L’istruzione ha dato a Edmond la forza per non impazzire, nonostante l’ingiusta detenzione. A questo deve mirare l’istruzione, o meglio l’insegnamento, a rendere gli uomini più felici e quindi migliori; a trarre da ciascuno di essi il meglio, senza pretendere che serva a qualcosa di più ‘pratico’ di questo: più utile di un buon essere umano che cosa c’è?”.

 

Quindi lei è per la rivalutazione del sapere umanistico?

“Non solo. Io sono per la rivalutazione del sapere tout court, al di là di ogni ideologizzazione. C’è una frase di Jules Verne…”.

Che però è vissuto un bel po’ dopo di lei, se non sbaglio.

“Giovanotto, come crede che abbia fatto a far passare tutti gli anni dal 1846 a oggi se non leggendo quello che di interessante veniva pubblicato?”.

Troppo giusto.

“C’è una frase di Verne che riflette perfettamente il mio modo di occuparmi della cultura”.

E sarebbe?

“Bisogna accettare ciò che di volta in volta la scienza ci insegna: forse non ci saranno sempre degli scienziati, ci saranno sempre dei poeti”.

E con Jules Verne arriva la patronne a cui Faria ordina subito due bouillabaisse con il suo sorriso irresistibile. Aveva ragione: è veramente la migliore bouillabaisse che abbia mai mangiato.

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