Ecco l'isola che non c'è

Michele Masneri

Artificiale e sovrana, sorgerà in Polinesia. Presentazione surreale della creazione più sfrenata di Thiel

San Francisco. Farà il governatore della California. Il giudice della Corte suprema. L’ambasciatore in Germania. Basta. L’Amministrazione Trump si è insediata da una settimana e Peter Thiel, il principe delle tenebre di Silicon Valley, è diventato un’ossessione. A Maureen Dowd del New York Times il consigliere di amministrazione di Facebook, fondatore di Paypal, e molto altro, ha dato recentemente saggio della sua sgangherata Weltanschauung: in Silicon Valley non si fa abbastanza sesso, dice, la California dovrebbe fare la secessione, e la morte, come le tasse, è solo un epifenomeno, presto vi si troverà rimedio.

 

Thiel infatti ha una sua camera iperbarica, persegue una dieta paleo tramite un suo chef milanese, ed è sinceramente convinto di poter campare almeno fino a 120 anni (ma non ha ancora trovato una tinta di capelli efficace sul lungo periodo). Vorremmo troppo parlargli per discutere di un sacco di cose, ma da quando è entrato nella squadra di Trump, unico magnate californiano ad averlo endorsato, è irreperibile, introvabile, irredimibile. L’altra sera a una cena, un trentenne, “sì, sono stato a casa sua una volta, a una festa in piscina”, ma si sa che sono tutte mitologie. Tutti hanno un aneddoto su Peter Thiel a San Francisco, è come “ho lavorato con Woody Allen” a Roma, ma tagliato al montaggio. Si fa allora un vano tentativo, e un venerdì sera di gennaio si va a un evento del Seasteading Institute, la fondazione che punta a costruire isole artificiali e sovrane da piazzare in acque internazionali: una delle creazioni più fantasiose di Thiel, ma il Thiel degli inizi, quello sfrenato libertario, seguace di Ayn Rand, la scrittrice-guru dei siliconvallici, che predicava un mondo senza governo, un’anarchia dei talenti (qui idolatrata come un Gianfranco Miglio degli anni Novanta). “Creare isole sovrane e indipendenti non è solo rilevante. E’ assolutamente necessario”, ha spiegato Thiel a una conferenza dell’istituto nel 2009. “Più stati ci sono, più ci sarà libertà”, disse allora convinto. L’istituto per creare isole off-shore è stato per anni diretto da Patri Friedman, nipote di Milton, premio Nobel per il liberismo, che poi ha mollato ed è tornato a fare il programmatore a Google. E’ la realizzazione acquatica del sogno libertario, il simmetrico idrico dei missili spaziali di Elon Musk.

 

L’isola sovrana che non c’è doveva essere già pronta nel 2013, poi la cosa andò a rilento, come succede talvolta con le grandi opere. Ma adesso ci siamo, ci invitano dunque a questa presentazione importantissima, per la prima volta dalla fondazione infatti il Sea Institute firma un accordo con un paese estero per fondare la sua prima isola artificiale, isola autosufficiente, alimentata con energia solare, nutrita con coltivazioni idroponiche e dissetata con dissalatori. Nello specifico, l’isolotto o atollo sorgerà nella Polinesia francese, e sarà presente, dice l’invito, nientemeno che il presidente della Polinesia, e si sogna che ci sia anche Thiel. Si parte dunque per questo palazzone di vetro, un piano terra nel financial district. Fuori, fotografato da un fotografo tipo di matrimoni, c’è un signore dall’aria esotica con capelli, baffi, un gran foulard al collo e uguale a Roberto Da Crema, quello delle televendite. Dev’essere evidentemente il presidente della Polinesia francese, gli si va incontro e lui simpatico dando il biglietto da visita dice che si chiama Jean-Christophe Bouissou e non è il presidente, il presidente non è potuto venire infatti, perché nella Polinesia francese c’è un importante cambiamento di governo in corso “ma non importante quanto qui in America, ah ah!”, scherza. Non sarà presidente ma è però un ministro, e dice molto affabile che quando è salito sull’aereo dalla Polinesia era responsabile del Turismo e quando è atterrato a San Francisco e ha riacceso il telefono gli hanno detto che era diventato ministro invece delle Infrastrutture, “che comunque mi sembra una buona carica”, riflette adesso serio.

Ma entriamo: è una sala espositiva che è una via di mezzo tra un piccolo Vinitaly e una scuola media privata, ci sono dei pannelli su dei trespoli che spiegano i vantaggi di queste isole offshore, mentre delle signorine girano con dei bicchieri di blanc de blanc e bordeaux, è tipo presentazione con l’autore da Settembrini libri; passano dei canapè ai gamberetti e dei bigné. C’è anche un pacco di targhette adesive con la scritta “Ciao, il mio nome è…”, e un pennarello, e ognuno scrive il proprio nome e se le mette sul taschino.

 

Mentre cerchiamo tra la folla inutilmente la chioma color mogano di Thiel, socializziamo e cerchiamo anche questi mitologici elettori siliconvallici che – sostiene Thiel – avrebbero votato in massa per Trump nel segreto nell’urna. C’è uno spilungone in blazer di New York, lavora al marketing di una startup, ha ricevuto l’invito ed è venuto. Sei parte dell’élite liberale? “No”, ride. Allora avrai votato Trump. “Ma chi, quel disgraziato? Ma scherzi, io ho votato Gary Johnson, il candidato libertario”. Continuiamo la nostra indagine, ecco Susanna Dokupil, addetta stampa dell’Istituto delle Isole, ed ex presidente della sezione del Partito repubblicano di Harris County, Texas. Dice, poco convinta: “Siamo ottimisti”. E poi: “Di sicuro la gente era stufa di un governo business as usual, Trump cambierà le cose, è l’equivalente di Airbnb in politica”. Non capiamo molto bene il senso. Ma ha votato Trump? “Ehm, preferirei non parlare di questo”. Insomma, non si trova un elettore di Trump manco a pagarlo, però tutti si scambiano molti biglietti da visita, c’è un signore che si occupa di tubature che si presenta a un esperto di desalinizzazione; dei ragazzotti stanno aggiustando un maxi schermo, “tra poco parlerà il presidente della Polinesia in collegamento!” mi dice sempre il ministro con cui ormai ho fatto amicizia, ma questo Skype non parte, allora mi mischio alla folla, ecco una coppia di ingegneri, un francese che si chiama Nicolas Germineau (leggo sul cartellino) e un altro è russo, si chiama Egor Ryjkov, sono appena tornati dalla Polinesia, sono ingegneri dell’Istituto, dicono che la tempistica è precisa per questo isolotto, servirà un anno “per creare la legislazione”, e poi almeno tre per costruirlo. Ma quanto sarà grande? “Mah, per ora non si sa”. “E quanto costerà? “Non possiamo dirlo”. Sarà la Salerno-Reggio Calabria di Thiel?

 

Cerchiamo su Google News “Polinesia Francese+isola”, si trovano solo notizie del grave rimpasto in atto. Siamo di fronte alla Storia con la S maiuscola? Un golpe esotico? Intanto entrano frotte di imbucati, passati a scroccare un bicchiere. Sei dell’istituto? “Quale istituto, io sono amico di Greg, anche tu sei amico di Greg?”. “Ma chi è Greg?”. C’è un gruppo di giovani benvestiti, managerini scesi dalle banche e dagli uffici di venture capital qui, fanno un capannello tipo pavoni del Pitti libertario. Poi ci sono le matte classiche degli aperitivi romani. Una signora tutta rifatta con una tuta di pelle aderente e stemmi della Nasa, ha i capelli azzurri, mi avvicina e dice che è polacca, “amicissima di Papa Wojtyla e anche di Tronchetti Provera”, dice con accento da Zsa Zsa Gabor o Melania Trump. E poi, “senti caro, domani se vuoi si va a un lunch, saremo pochiiissimi, ma dobbiamo essere pronti a Santa Clara alle dieci di mattina”, io non capisco, mi sembra presto per una colazione, anche se a Santa Clara, poi mi rendo conto che intende “launch” cioè lancio, e non lunch, e nello specifico, dice lei sbrigativa, lancio del nuovo missile di Elon Musk, l’altro soggettone della Silicon Valley che progetta appunto i razzi per andare su Marte. E però glielo devo far sapere stasera stessa se vado, e come ci va lei, le chiedo, per prendere tempo, lei dice con un piccolo Cessna, naturalmente, poi mi dà un biglietto da visita, si chiama Eva Blaisdell, ceo di un California Space Center, un centro di lancio spaziale, sta a Malibu, c’è una sua foto molto buia vestita da astronauta e una dicitura: “Space is the destiny”. Insomma, siamo in un “Fratelli d’Italia” d’Alberto Arbasino, ma siliconvallico. C’è il viceconsole francese che ci interroga preoccupato: ma che anche voi in Italia state facendo un’isola offshore? Lo tranquillizziamo, no, ci bastano quelle emerse. Entra come una star Tom W. Bell, guru del Cato Institute, popstar dei libertari, con uno zainetto di pelle. Un signore con la barba e uno strano accento sta parlando col mio ministro, si presenta, è l’onorevole Smari McCarthy, “partito dei Pirati islandesi”, mi dà il biglietto da visita con lo stemma del parlamento di Reykjavik.

 

Ma attenzione, il collegamento funziona e improvvisamente sul maxischermo appare un signore con una collana di fiori avaiana al collo, è finalmente il presidente polinesiano, monsieur Edouard Fritch: dice che è molto dispiaciuto di non poter essere qui con noi, legge un discorso in un inglese molto peggio di Alfano, dice soprattutto che vuole tranquillizzare la comunità internazionale, che “non ci saranno cambiamenti radicali nella compagine di governo” (siamo tutti sollevati). E che il ministro del Turismo (ma non era delle Infrastrutture? Hanno fatto un altro rimpasto?) che ha lasciato Papeete ieri sera ha tutto il suo appoggio, e che tra noi c’è perfino il ceo di Air Tahiti, la compagnia aerea di bandiera. Nessuno però ha capito quale sia. Poi si alza e pensando che il collegamento sia chiuso dice qualcosa in polinesiano stretto, e si aggiusta la patta dei pantaloni. Allora chiudono Skype e si procede coi discorsi, è il fondamentale momento della firma di questo rivoluzionario accordo.

 

Va su il mio ministro, con un signore piccoletto che annuisce sempre con la testa, sarà evidentemente questo il ceo di Air Tahiti, e il ministro dice che per firmare questo accordo ha portato due – come dite voi inglese penne? Ah, sì, penne – molto speciali perché nel tappo hanno una perla, e effettivamente sono due pennoni tipo Mont Blanc neri, enormi, con una perla gigante nel cappuccio. Chissà che valore. Il ministro inizia a dire che “la Polinesia francese non è così lontana!”. “Sono solo sette ore!, Mentre da Parigi sono 12. E poi dice che “la Polinesia francese ha 217 mila abitanti, forse meno di San Francisco!” (veramente San Francisco ne ha ottocentomila), e ben 118 isole, e continua a enumerare cifre tipo quegli zii che sanno tutti gli orari dei treni a memoria. “Il Pacifico è grande come l’America! Il 55 per cento della Cina! Abbiamo grandi ospedali in grado di curare tutti i tipi di cancro, ed elenca tutti i tumori” (scaramanzia tra i presenti). Intanto sorge in noi sempre più impellente la domanda: ma perché un arcipelago di 118 isolotti quasi tutti disabitati dovrebbe volerne uno nuovo di zecca, e pure di importazione?

 

Poi il ministro finisce, il piccoletto scende giù (e si scopre non essere il ceo della Air Tahiti) e va su il direttore generale dell’istituto che si chiama Randy Hencken, è il successore di Friedman, è un quarantenne barbuto con un vestito scuro, la camicia col colletto stretto, l’orecchino, tutto insomma molto giusto, e l’aria ironica di uno che presiede l’istituto delle isole in quanto lavoro più hipster di California (avrà una startup di famiglia o una moglie ricca che lo mantiene). Sul sito web dell’istituto è pieno di video suoi da Bora Bora con una collana di fiori, sembra un film di Wes Anderson (o semplicemente questi hanno trovato il modo di farsi le vacanze a sbafo a spese della Polinesia francese).

Mentre firma il memorandum, momento di imbarazzo perché una delle preziose penne con la perla cade a terra, e però quello che tutti temono, che si stacchi appunto una perla, non accade, e il ministro la raccoglie subito. Il ministro ribadisce poi l’importanza di questo progetto “tanto che il presidente ha interrotto una importantissima riunione di gabinetto per fare il collegamento”, poi va sul palco uno con i capelli tinti dello stesso colore di Peter Thiel, si chiama Joe Quirck, è il responsabile dello storytelling del progetto isole, si definisce “aquapreneur” e “aquavangelist”, è autore del libro “Seasteading: come le città galleggianti cambieranno il mondo”, di imminente pubblicazione presso il primario editore Simon & Schuster, oltre che di bestseller su e con celebrità. Fa un discorso molto “inspiring”, con l’aria di chi ha fiutato un grosso business.

 

Poi però il direttore generale Hencken, che sembra il protagonista Andreas di “Purity” di Jonathan Franzen, fa l’annuncio vero e proprio e cioè che il progetto isole cambierà nome e si chiamerà “Blue Frontiers”, e darà un contributo fondamentale alla “blue economy”, e soprattutto non sarà più non profit, anzi devono e vogliono fare margine. Ecco spiegato quel giro di professionisti delle tubature, e tutti quei biglietti da visita; e però, dice il direttore generale, servono comunque molti soldi, e per questo inizia a girare una grossa busta azzurra tipo matrimoni al sud, e “sarà molto apprezzata la generosità”, dice, ce la danno anche a noi, si prega di sbarrare la casella, 100, 250, 1000, 5000 dollari. Nessuno caccia un dollaro, pare. Intanto noi continuiamo a illuderci di trovare Thiel, almeno in spirito. “Ma che non lo sai, lui è uscito da tempo dal progetto, ha donato 500 mila dollari all’inizio e poi non si è mai più visto”, ci dice un signore simpatico, Greg Delaune, responsabile ingegneristico del progetto for profit, in italiano (ha studiato per anni a Ferrara). Poi arriva un simpatico capelluto e fa tutta una lamentela sui prezzi degli affitti, cresciuti orrendamente a San Francisco, dice che lui sta in un one bedroom al quartiere della Marina a equo canone a 3.000 dollari, dice che Trump gli fa schifo, che Thiel sì l’ha conosciuto, “un tipo interessante”. Poi dopo a casa scopriamo che è Jonathan Cain, presidente della Thiel Foundation, quella che offre 200 mila dollari ai ragazzi che abbandonano la scuola per fondare la loro startup. “Ci vediamo a cena!”, ci dice, ma alla cena nessuno ci ha invitati, proprio come negli aperitivi romani con l’autore, dove ti pregano e poi c’è sempre una cena segreta ai Parioli dove non ti portano.

 

Sconfortati usciamo fuori e c’è il nostro ministro che fuma, e finalmente gli facciamo la domanda che ci attanaglia: perché visto che avete 118 isole ne dovete fare una nuova di plastica? “Perché sono basse! Le isole, sono basse” dice il ministro, fumando. “Sono atolli, e dunque con il riscaldamento globale verremo sommersi”. Mah. Poi gli dico che ho letto in rete che la società civile polinesiana sostiene che l’isola è tutta una scusa per trasformare la Polinesia in un paradiso fiscale. Lui dà una grande boccata di fumo: “Ma noi siamo già un paradiso fiscale, mon ami!”, dice. “Non abbiamo nessuna tassa! Nessuna. E abbiamo anche un welfare pazzesco, lo stato pensa a tutto. Non ti devi preoccupare di niente, devi venire assolutamente a vedere”. Non mancherò, però scusi, ministro, ma non stona questa cosa assistenzialista con le idee libertarie, con Ayn Rand e tutto? Il ministro delle Infrastrutture o del Turismo tace, assorto. “Questa è una buona domanda”, dice invece improvvisamente l’omino accanto. “Però che importa. L’importante è che trasportiamo un sacco di persone della Silicon Valley laggiù”, dice soddisfatto, e si presenta. Abbiamo indovinato: è finalmente lui, il ceo della Air Tahiti.