Alberto Matano. Il conduttore di “Sono innocente” si è formato tra l’Ansa-Bloomberg, Sky e il Tg1

L'urlo degli innocenti

Marianna Rizzini

Il caso della trasmissione di Rai 3 che risarcisce mediaticamente le vittime di malagiustizia

Fare colazione, salutare i figli, andare al lavoro. E poi, improvvisamente, un giorno, fare colazione, salutare i figli e doversi chiudere la porta di casa alle spalle e a testa bassa, in fretta, perché sono arrivati i carabinieri e ci si trova da un momento all’altro in stato di arresto, senza sapere perché, e non sapendo che cosa farsene della frase “sono innocente”, perché tanto nessuno ti ascolta. Alzarsi una mattina e trovarsi a vivere un incubo da film americano: ingresso in carcere, perquisizione, effetti personali da lasciare immediatamente, un avvocato con cui si parla non pensando ad altro che a quel concetto “sono innocente”, i proprio familiari trascinati nell’incubo delle visite, con le file, i cibi da preparare e le lettere che non sono mai private, perché prima devono passare dal controllo degli agenti. E poi il resto: la disperazione, la depressione, il nonsense, il vuoto, la reazione, la rabbia, l’ora d’aria, l’hobby salvifico – costruire barchette di carta? –, le letture prima impensabili e la rassegnazione e lo studio matto e disperatissimo delle carte processuali e la lenta, forzata conquista di una quotidianità rifiutata con il cuore e accettata (per sopravvivenza) con la testa. E poi, piano piano, l’esperienza del sonno che non riposa, perché non sei abbastanza stanco o troppo stanco psicologicamente. E la cauta gestione dei compagni di cella – angeli o diavoli a seconda dei casi, a volte beffardi a volte diffidenti a volte amici come mai un amico è stato e sarà là fuori. E infine uscire di galera, e capire che anche un solo giorno di carcere da innocente, figuriamoci anni, ha rovinato, se non tutta la vita, i rapporti con gli altri che non sempre capiscono e la tua percezione del mondo.

 

Perché tutto viene riportato a quel giorno che non può in nessun caso essere dimenticato, il giorno in cui ci si è trovati immersi, in prima persona, nell’incipit del “Processo” di Franz Kafka, l’immagine usata dal critico televisivo del Corriere della Sera Aldo Grasso a commento di “Sono innocente”, programma del sabato sera di Rai 3 (ore 21 e 15) che racconta storie di persone finite in carcere per un errore giudiziario. E trovarsi in quell’incipit (“…qualcuno doveva aver diffamato Josef K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato…”), da accusati ingiustamenti ma ancora a piede libero, è un sogno per chi, ex post, si trova nello studio di Rai 3, intervistato dal volto del Tg1 Alberto Matano, a ripercorrere (dolorosamente) la vicenda che, anche quando si conclude bene, scava voragini emotive (per non parlare del problema del risarcimento: la consolazione almeno materiale che non sempre arriva). All’origine di tutto – dell’errore e del calvario – c’è un’indagine condotta male o uno scambio di persona (qualcuno accusato perché “aveva la faccia tonda”, un altro perché “fratello di”, un altro perché i colleghi si sono messi d’accordo per metterlo in cattiva luce, un altro perché si trovava al posto sbagliato nel momento sbagliato).

 

Oppure c’è un pentito che non dice la verità (anche se a volte, nelle storie raccontate a “Sono innocente”, quella del pentito può essere la testimonianza salvifica). E poi c’è un giudizio non sempre raggiunto “oltre ogni ragionevole dubbio”. La costruzione del racconto, allora, “true crime” e analisi del “particulare” (i casi delle persone coinvolte negli errori giudiziari) ha portato rapidamente “Sono innocente” all’attenzione del pubblico del sabato sera. Ma il “particulare” non può non intrecciarsi al caso generale di un’Italia in cui, da vent’anni, l’informazione sui casi giudiziari è stata ipertrofica, ma di segno opposto, colpevolista più che garantista, sparata sul colpevole anche solo presunto, sul sensazionalismo da indagine finita sui giornali via intercettazione, sul contesto politico-sociale in cui il crimine, non accertato nel processo, diventa “certo” nel giudizio sommario del pubblico e del commentatore. In “Sono innocente” il piano generale è sotteso, emerge come sfondo, non direttamente discusso. Matano dice che l’intenzione non era quella di fare “un processo al processo”.

 

E però, dopo aver ascoltato gli ospiti, e dopo aver approfondito le storie di non-giustizia, dice di essere diventato “più cauto “di fronte alle notizie di indagine, avviso di garanzia, arresto o presunto crimine, di aver sviluppato un’attitudine al “dubbio” che non aveva e di aver affinato l’attenzione al presupposto di innocenza “fino a prova contraria” (“dovremmo recuperare lo spirito garantista che parte del nostro sentire, della storia repubblicana”, dice). Per Matano, che ha un passato da cronista televisivo politico e un presente da anchorman del Tg1, l’incontro con i protagonisti dei casi di errore giudiziario che arrivano in studio è prima di tutto “un’esperienza umana”, prima umana che giornalistica, anche se poi la regola (giornalistica) del programma è “mai essere lacrimevoli”, mai “indugiare” sul dolore mentre l’innocente con esperienza di carcere alle spalle si addentra di nuovo, in retrospettiva, nel gorgo da cui pareva impossibile uscire, e da cui qualcuno è uscito come per caso: per esempio perché uno sconosciuto, da un giorno all’altro, gli ha fornito un alibi o ha riconosciuto il vero colpevole).

 

Dice Matano che una delle “missioni” del programma (“Sono Innocente” è un nato all’interno di Rai 3, con Zodiac Banijay, produzione per l’Italia di Non Panic e riadattamento dagli autori Cosimo Calamini, Matteo Billi, Francesco Foppoli e Matano stesso, per la regia di Alessandro Tresa), è di dare “un riscatto pubblico alle vittime di errore giudiziario”, una seconda vita mediatica a chi ha avuto “la vita reale distrutta, senza contare la difficoltà di gestire il ritorno dal carcere, magari in un piccolo centro”. Il “supplemento di responsabilità” di cui parla Matano, conduttore che si è formato tra l’Ansa-Bloomberg, Sky e il Tg1 (con Gianni Riotta e poi con Mario Orfeo), è responsabilità anche per lo spettatore, che davanti al “true crime” sullo schermo si trova a “rimettere in discussione l’automatismo” che porta a vedere un colpevole in ogni titolo di giornale che spari in prima pagina l’ultima inchiesta-monstre.

 

Il pubblico, intanto, quello che, da due puntate (la terza va in onda oggi) ha seguito “Sono innocente”, si è fatto vivo in chiave riflessiva sui social, cosa che stupisce nel paese non noto per cautela mediatica pre-processo, come se anche su Twitter e Facebook – luoghi dove, di solito, dilaga l’epidermica colpevolizzazione – ci si fosse svegliati in parte dal lungo sonno manettaro. E davanti alla storia di Giuseppe Gulotta, andata in onda nella seconda puntata del programma, l’uomo che a soli 18 anni fu accusato e poi condannato – innocente –per l’omicidio di due carabinieri, e che solo dopo 40 anni dall’arresto, 15 anni di carcere e decenni di tribunali ha ottenuto i 6,5 milioni di risarcimento, più di un commentatore e di uno spettatore hanno pensato al caso Tortora, il conduttore, giornalista e volto di “Portobello”, dipinto da un camorrista come spacciatore, poi assolto e proclamato innocente, ma intanto additato come mostro nella girandola della cosiddetta “gogna mediatica”. E se Kafka ha fatto vivere al protagonista del “Processo” la discesa nel Maelström dell’incredulità di fronte all’avvio della vicenda assurda, il caso Tortora ha acceso ex post un faro sui danni della “presunzione mediatica di colpevolezza”. Ma dagli anni Novanta in poi, con Tangentopoli e il diffondersi del ritornello “tutti ladri” (con riferimento alla classe politica), gli anticorpi garantisti sono andati via via scomparendo.

 

E oggi Daria Bignardi, direttore di Rai 3, dice che l’idea del programma è nata, da un lato, “nel solco della ‘tv civile’ di Angelo Guglielmi, quella attenta ai diritti negati”, e dall’altra da una nuova sensibilità verso i danni etici e politici del colpevolismo, e dalla recente insofferenza “per il clima di continuo ‘giudizio’, superficiale e manicheo, in cui abbiamo vissuto negli ultimi vent’anni”. “Stiamo cercando di non sprecare questa occasione”, dice Bignardi, “un’occasione di raccontare prima di tutto grandi storie vere, ricostruendo la vicenda secondo gli schemi del ‘true crime’ ma anche attraverso l’intervista in diretta all’ex detenuto innocente. Abbiamo però scelto un tono non colpevolista verso i magistrati, prima di tutto perché siamo garantisti anche nei loro confronti, e poi perché il focus dev’essere appunto sulla storia, sul passaggio di vita breve o lungo in carcere, ma sempre andando contro il riflesso condizionato che può portare gli operatori dell’informazione ad alimentare la gogna mediatica, e cercando di recuperare la parola ‘garantismo’, cavallo di battaglia di molti in altre epoche. Il garantismo vogliamo farlo letteralmente vedere: se vedi una ragazza di vent’anni che, per un errore giudiziario, viene accusata di un crimine a Catania quando non è mai stata a Catania, la volta successiva magari ci pensi due volte prima di gridare al ‘mostro’ davanti a un titolo di giornale”. Per fare questo, gli autori del programma si sono basati sulla consulenza e sull’aiuto dei redattori del sito “www.errori giudiziari.com”, che, dice Bignardi, “hanno un approccio al tema non ideologico”. Ma che cosa succede nel momento in cui la vittima dell’errore giudiziario è chiamata a rivivere il trauma davanti alla telecamera? “Non tutti ne vogliono parlare”, dice Matano, e Bignardi racconta che “quando lo fanno è soprattutto per il bisogno profondo di riabilitazione agli occhi di un mondo che li ha considerati colpevoli nonostante il loro grido ‘sono innocente’”.

 

La critica, a partire da Aldo Grasso sul Corriere fino ad Antonio Dipollina su Repubblica, ha accolto positivamente la novità del programma che, in tempi indignati e manettari, ha scelto di parlare di innocenza e garantismo. Quando il riflettore si accende, e il “presunto colpevole” riabilitato appare nello studio di “Sono innocente”, un film dell’orrore scorre metaforicamente sullo schermo. C’è Vittorio Raffaele Gallo (visto nella seconda puntata), un uomo che ha fatto, sì, “soltanto” sette mesi di arresti domiciliari dopo essere stato additato come autore di due rapine nell’ufficio postale dove lavorava. E però poi, per il prosciolto Gallo, è arrivato il terribile seguito: licenziamento dalle Poste, moglie che cambia la serratura e baratro della vita da quasi-homeless che gli si spalanca davanti proprio quando sembra tutto risolto. E c’è Lucia Fiumberti di Lodi (la sua storia andrà in onda stasera, nella terza puntata), che ha passato ventidue giorni in carcere, con l’accusa di aver falsificato una firma per un’autorizzazione in cambio di soldi. Ma poi si scopre che l’errore è stato per così dire “facilitato” da una specie di congiura dei suoi superiori, che, calunniandola, hanno fatto in modo che la colpa ricadesse su di lei.

 

La sua storia colpisce in quanto storia di “persona comune” investita da una realtà neppure pensabile fino a cinque minuti dell’arresto. Sempre nella terza puntata parlerà Giovanni De Luise, giovane napoletano condannato in via definitiva a ventidue anni di carcere come killer di Massimo Marino, accusato dalla sorella di Marino. Ed è nel suo caso che il pentito arriva a “scagionare”, assumendosi tutte le responsabilità. E quando ci si domanda “perché De Luise è stato messo e tenuto in carcere da innocente?”, la risposta è incredibilmente “fisiognomica” (la suddetta “faccia tonda”). Ma è la storia dell’imprenditore Diego Olivieri (prima puntata), imprenditore a Vicenza e mediatore di pellame accusato ingiustamente di narcotraffico, associazione mafiosa, riciclaggio e insider trading, a tracciare la linea invisibile tra il caso privato e il caso pubblico: Olivieri, che prima dell’errore giudiziario veniva considerato il bravo lavoratore con bella casa e bella barca, dopo l’errore dovrà scontare, oltre alla detenzione nella peggiore sezione del carcere di Vicenza e poi a Rebibbia, anche l’odio strisciante di chi, dopo l’arresto, e senza credere alla sua dichiarazione d’innocenza, ha visto in lui un piccolo esempio di “potente” da punire (come accade ogni giorno con il politico intercettato) con la sommaria condanna sociale preventiva (“mafioso” è una della principali accuse lanciate un tanto al chilo dagli indignados della Rete).

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.