Donald Trump ha giurato ieri come presidente degli Stati Uniti a Capitol Hill, a Washington. Al suo fianco, la moglie Melania e i figli (foto LaPresse)

In fuga da Trump

Le celebrities che avevano minacciato di lasciare gli States sono rimaste. Si ritirano invece nei loro rifugi selvaggi le “comunità intenzionali”, quelle che non ne possono più del sistema

Lena Dunham conosceva un posticino tranquillo dalle parti di Vancouver dove trasferirsi in caso di vittoria di Donald Trump. Se n’è rimasta altrettanto tranquilla a Brooklyn. Samuel Jackson non ha portato il suo “culo nero” (parole sue) in Sudafrica, Miley Cyrus non faceva sul serio quando scriveva “dico sul serio!” sui social a proposito del suo abbandono del paese sessista e razzista che s’apparecchiava sotto le insegne dorate del trumpismo. Ogni volta la stessa storia. All’aeroporto, per l’addio finale al paese caduto nelle mani del mostro, non c’è mai nessuno di abbastanza famoso da suscitare scalpore, giusto qualche scrittore che si è convinto che lo si nota di più se straccia la green card. Trump s’è insediato, e quelli che avevano promesso secessioni e fulmini sono ancora lì a costringere tutti gli altri a sopportare le loro lamentazioni. Le celebrities, anche quelle che oggi marciano compatte nella “Women’s March”, controinsediamento al femminile, hanno deciso come tutte le altre volte di rimanere in patria a denunciare con più profitto la dittatura, perché nel tempo le ferite si rimarginano e l’indignazione passa, le star di Hollywood un modo di andare avanti lo trovano sempre.

 

La maestosa fuga dal tiranno è una specialità da praticare per lo più a parole. C’è però un’altra fuga in atto nell’America contemporanea. E’ un movimento sottotraccia e largamente silenzioso, non urla pubblicamente il suo sdegno per il clima politico insopportabile e a ben vedere non ha nemmeno l’ambizione di sollevare e coinvolgere le masse. Si tratta dell’universo in espansione delle cosiddette “comunità intenzionali”, gruppi e gruppuscoli che per le ragioni più disparate salutano la civilizzazione, voltano le spalle al sistema e si ritirano sotto coperta, dove i meccanismi e le angherie della civiltà non possono toccarli, o quasi. Dagli ecovillaggi a impatto zero con le lavatrici alimentate con le biciclette fino alle utopie millenariste d’ambientazione protestante e apocalittica e alle aggregazioni boschive dei “survivalist”, che vivono secondo l’antico ordine dell’uomo cacciatore-raccoglitore, si moltiplicano le comunità che decidono di andarsene. Andarsene da cosa? Dallo stato, dalle leggi, dalle regole del capitalismo, dalla politica corrotta, dall’accademia ipocrita, dai vicini di casa, dagli interessi a tasso fisso, dai poliziotti violenti, dai poliziotti gentili, dal turno di lavoro, dalle fognature condivise, dall’asilo parrocchiale, dai parcometri, dal welfare, dai frappuccini con la panna, dagli altri, che notoriamente sono l’inferno, a meno che non condividano fino in fondo le nostre intenzioni.

 

In breve, vogliono andarsene da tutto. Il film Captain Fantastic, in cui Viggo Mortensen è l’eccentrico patriarca di una famiglia che ammazza animali a mani nude nella foresta e rifiuta i diktat della società consumista, è l’istantanea efficace di una tendenza che sta crescendo. Se il “Noam Chomsky Day” festeggiato al posto del Natale in questa comunità alternativa appare come un’esagerazione parodistica, il confronto con le usanze degli “anarchici cristiani” che vivono sparsi per le colline della Virginia lo farà sembrare un attendibile documentario sociologico. L’elezione di Trump non è la causa remota di questo fenomeno di isolamento volontario e ricerca di un rinnovamento, forse anche di un paolino “nuovo inizio”, ma è in qualche modo il prodotto, il segnale dell’inquietudine profonda che s’agita nelle viscere della società americana. Nelle intenzioni di molti, votare Trump è stato un modo per mandare a casa le élite globalizzate e livellatrici che predicano uguaglianza sopranazionale e infinita prosperità.

 

La “rivoluzione politica” con cui Bernie Sanders ha tentato di rovesciare l’esausta sinistra liberal è un progetto completamente diverso dall’improvvisazione nazionalista trumpiana, ma ha la stessa tendenza iconoclasta e nutre un’analoga avversione per un sistema economico ingiusto. Uno ha eletto il politicamente corretto e la neolingua della burocrazia politicante a totem polemici, l’altro ha fatto la medesima operazione con la disuguaglianza economia e la lotta ai ricchi oppressori. Chi porta queste pulsioni alle loro estreme conseguenze non può contentarsi di alternative politiche speculari, di populismi di destra o di sinistra, deve prendere la via radicale dell’insabbiamento e dell’introflessione, il gran ritiro nei boschi che dall’origine della democrazia americana è stato un mirabile sogno fatto di wilderness e indipendenza da ogni potere costituito. Contrariamente a quanto spesso si dice, anche nelle scuole, i padri pellegrini non sono stati spinti sulle coste del New England dalla persecuzione religiosa anglicana.

 

Da quella avevano trovato riparo nella tollerante e secolarizzata Olanda, dove la comunità ha passato circa un decennio felicissimo dal punto di vista della libertà religiosa, un po’ meno per quanto riguarda le condizioni materiali del vivere. Ma quelle non sarebbero migliorate nelle colonie, almeno non subito. Il motivo che li ha spinti a rimettersi in marcia e a sfidare ogni avversità contemplata e ignota è che i più giovani si stavano assimilando alla cultura olandese, i padri vedevano l’amata purezza britannica svanire sotto i loro occhi, la lingua e i costumi si mischiavano con quelli di un mondo che non apparteneva loro. Dato che il loro mondo, l’Inghilterra, li aveva respinti con violenza, l’unica soluzione era costruire un nuovo mondo. E così si misero in viaggio un’altra volta, basando la loro speranza sulla convinzione che un mondo sconosciuto sarebbe stato migliore di quello noto per il semplice fatto che sarebbe stato il loro mondo.

 

Tutto questo per dire che la spinta verso la creazione di società autoregolamentate e fuori dal mainstream è all’origine del mito americano, non è venuta fuori lungo la strada. Il suo obiettivo finale si riassume in una parola: autosufficienza. Trump e le condizioni che hanno prodotto e favorito la sua ascesa alla Casa Bianca sono come degli acceleratori di questo movimento. Emma Green, giornalista del magazine Atlantic che ha firmato un’inchiesta su queste società sommerse e scollegate dalla rete, scrive che tutti i costruttori di esperimenti alternativi, che siano motivati dalla cura per l’ambiente o dalla costruzione del paradiso in terra, hanno una cosa in comune: “Sembrano condividere un pervasivo senso di alienazione politica, che ha raggiunto la sua apoteosi con l’elezione di Trump: un senso di divisione dai loro pari, una sfiducia verso lo stato. Le sfide della politica moderna – affrontare cose come i cambiamenti climatici, la povertà, le migrazioni di massa e la guerra a livello globale – sono così vaste e astratte che è difficile non trovarle schiaccianti. Ma invece di continuare con la disperazione passiva, come molti americani sembrano fare, le persone in queste comunità hanno deciso di rivedere in profondità le loro vite”.

 

Il ventaglio delle comunità intenzionali è potenzialmente illimitato. Il Downstream Project è nato nella cittadina di Harrisonburg, in Virginia, in un contesto urbano e non nel cuore di foreste remote proprio per dimostrare che per mettere in pratica uno stile di vita alternativo al mainstream non c’è bisogno di ritirarsi concretamente fuori dal mondo. Si può stare fuori ma in qualche modo stando dentro. Più o meno. La comunità è nata per ridurre l’impatto ambientale, e i suoi membri coltivano il cibo che mangiano, non possiedono elettrodomestici, non hanno l’allacciamento alla rete elettrica né acqua corrente, non pagano bollette. L’energia che consumano viene esclusivamente da fonti rinnovabili. I fondatori, Rachel e Nicolas, sono certi che questo tipo di rispetto per l’ambiente emerga chiaramente dagli insegnamenti della Bibbia; sono altrettanto certi che l’elezione di Trump, che in sé giudicano una circostanza agghiacciante, farà molto bene a tutti quelli che meditano di dare una svolta alla loro vita e di immergersi nell’universo silenzioso dell’autosufficienza. “Dalle elezioni abbiamo sentito sorgere in noi una nuova speranza. Quando c’è un democratico al potere, le persone che hanno a cuore la giustizia sociale vanno in letargo, perché si sentono confortate da quello che sentono alla National Public Radio. Se siamo cittadini di un altro regno, e l’impero diventa sempre più ridicolo, questo è un’ispirazione per prendere più sul serio le nostre convinzioni”, dice Rachel.

 

La grande fuga dal regno distopico e dorato di Trump come motore di nuove forme di organizzazione sociale contiene un paradosso. Perché in un certo senso, infatti, il trumpismo è un figlio del fallimento, spettacolare e doloroso, di forme alternative di organizzazione sociale. Le periferie dell’America appalachiana bianca dominate dalle roulotte, luoghi chiusi e preclusi agli outsider, governati da ancestrali logiche d’onore incomprensibili ai più e lontane migliaia di anni luce dalle regole di Washington, figurarsi da quelle di Davos, sono le comunità sociali in cui l’identità trumpiana ha messo le radici. La differenza rispetto agli ecovillaggi et similia è che si tratta di comunità inconsapevoli, non intenzionali, attraversate da istinti autodistruttivi e messe in ginocchio da logiche commerciali che le svantaggiano. Questo vasto underground rurale e suburbano è la patria del “forgotten man” di Trump. Un articolo sferzante e amaro scritto da Kevin Williams sulla National Review durante la campagna elettorale ha messo a nudo una verità indicibile riguardo a questo mondo sommerso: non è stato un nemico esterno a mandarlo gambe all’aria, piuttosto si tratta di un deterioramento della stoffa sociale, una putrescenza che va risanata con una massiccia opera di bonifica: “La verità di queste disfunzionali e inefficienti comunità è che meritano di scomparire.

 

Da un punto di vista economico, sono asset negativi. Moralmente sono indifendibili. Dimenticatevi tutta la merda teatrale su Bruce Springsteen. Dimenticatevi la santimonia sulle città industriali della Rust Belt e le teorie del complotto sugli orientali che gli stanno rubando i posti di lavoro. La underclass americana è schiava di una cultura feroce ed egoista i cui prodotti principali sono la miseria e le siringhe per l’eroina. I discorsi di Trump li fanno sentire bene, e così l’ossicodone. Quello di cui hanno bisogno non è un analgesico, letterale oppure politico. Hanno bisogno di una vera opportunità, il che significa che hanno bisogno di vero cambiamento, cioè hanno bisogno di una compagnia di traslochi”. Non è forse una storia parallela, benché rovesciata, a quella delle comunità che i si isolano per staccare la spina dalle brutture della vita contemporanea? Quell’America dimenticata che poi è stata rietichettata come il “popolo di Trump” non era forse in cerca di un distacco dalle logiche della politica nazionale, dalle burocrazie, dai circuiti dell’informazione mainstream, non coltivava inconsciamente il sogno di una vita “off-grid”? Alexis Ziegler, fondatore della Living Energy Farm, una fattoria completamente scollegata dalle infrastrutture condivise dove si cucina con l’energia solare e si lavano i vestiti con quella eolica, si definisce un “amish senza il patriarcato” e spiega che fra i suoi membri domina la “alienazione fra la politica di destra e quella di sinistra”.

 

Agli occhi di questi neoamish con i pannelli fotovoltaici, Trump non è che una figura della civilizzazione corrotta alla quale hanno voltato le spalle, in cerca di un’utopia dell’autenticità da buon selvaggio rousseano. Ziegler è certo che la comunità, una volta messa a punto, possa fungere da modello, da cellula elementare per la trasformazione completa della società. L’obiettivo è niente meno che la rifondazione del sistema democratico su basi nuove e sostenibili, cosa che associa la Living Energy Farm a una lunga tradizione secolare di comunità utopiche che coltivavano il sogno di una nuova società. La novità in questa era centripeta e trumpiana è che molte di queste nascenti comunità intenzionali sono estranee ai progetti di riforma su vasta scala, non vogliono cambiare nulla se non la loro personale condizione. Progetti come la comune a impatto zero di Cambia, spiega l’Atlantic, “non sono stati costruiti per generare una rivoluzione, ma come rifugio”. Il suo fondatore, Gil Benmoshe, è stanco dell’attivismo: “Non voglio più essere un attivista. Mi impone di confrontarmi con cose che odio troppo, e questo mi rende triste e frustrato”. La costruzione di rifugi antiatomici per difendersi dalle radiazioni di Trump, della politica e del mondo è la risposta radicale di chi ha abbandonato anche la speranza che un clima di protesta permanente come quello alimentato da uno spettro di celebrità che va da Michael Moore a Bill de Blasio possa ottenere qualcosa.

 

Agli occhi di queste comunità in fuga, ogni tentativo di riforma è vano, conviene salire sull’ascensore sociale ma andare verso il basso, nei seminterrati dell’America dove ancora è possibile perseguire l’ideale dell’autosufficienza. Sono sentimenti in linea con la spinta individualista e solitaria raccontata dalle grandi indagini sociologiche del nostro tempo sulla condizione americana, a partire dall’iconica figura del giocatore solitario di bowling coniata da Robert Putnam, e sono rafforzate anche dall’esaurimento della “wonderlust”, l’impulso dell’esplorazione che è il cemento d questo paese di pionieri e gente di frontiera. Gli americani si spostano meno, cercano nuove opportunità con meno ardore di un tempo. E quando le cose vanno male trovano riparo in riedizioni ecosostenibili delle bibliche “città di rifugio”, nella tremante attesa del prossimo cataclisma.

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