Il 2 gennaio 2017 Roger Federer è sceso in campo alla Hopman Cup di Perth, un’esibizione a squadre. Sugli spalti, per lui, c’erano tredicimila persone (foto LaPresse)

Non dirmi addio

Giorgia Mecca

Federer torna in campo. Storie di campioni che non riescono ad abbandonare le loro carriere, così effimere e irripetibili

Se i campioni fossero persone oneste con se stesse direbbero che lo sport fa malissimo. Provoca dolori muscolari e frustrazione, rabbia, arroganza, gelosie, invecchiamento precoce del corpo, crisi di panico, molte sconfitte in cambio di molte vittorie. Confesserebbero che è una tortura, un supplizio che finisce troppo presto. Che ci si ritrova molto prima del previsto in punta di piedi e con gli occhi lucidi davanti a una marea di persone sconosciute a dichiarare la propria resa. Non dev’essere facile presentarsi da spettatore alla propria cerimonia di addio.

Nel 1978 Mohammed Ali conquista per la terza volta il titolo mondiale dei pesi massimi; ha trentasei anni ed è un uomo affaticato, i suoi movimenti sono diventati lenti, le gambe pesanti. “I’m the greatest” ripete ad alta voce per essere certo che tutti lo sentissero, sono il più grande. Non ha la minima intenzione di scendere dal ring, indossare uno smoking e partecipare alle celebrazioni per i suoi ultimi pugni. Il 30 novembre 1979 Ali chiama sua figlia Maryum (che ha undici anni e diventerà una pugile fortissima) e non vede l’ora di comunicarle che ha intenzione di conquistare il mondiale per la quarta volta “Papà, ti prego, no, non combattere più, ti prego, basta”. “May May, ma cosa stai dicendo?”. “Sto dicendo che sei vecchio”. E’ vero. I medici del comitato atletico non sanno se revocargli o no il permesso di battersi, un uomo ridotto in quelle condizioni avrebbe fatto meglio a dimenticarsi della boxe. La carriera dei pugili è ingrata, dolorosa, breve. Ali ha provato a misurarla: circa ventinovemila pugni, troppo pochi. “I’m the greatest” continua a ripetere, fa tenerezza. Il 2 ottobre 1980 al Caesar Palace di Las Vegas Mohammed Ali ritorna a combattere contro Harry Holmes, il suo ex sparring partner. “Non fu un incontro, fu un massacro” riportano le cronache dell’epoca. Ali si è ridotto a scagliare colpi a vuoto, suda inutilmente, è ormai lentissimo, senza fiato. Il pubblico lo osserva ammutolito: “E’ stato come assistere all’autopsia di un uomo ancora in vita” dirà Sylvester Stallone. Holmes non vorrebbe fargli male, ma Ali si rifiuta di cedere. E’ ostinato, è testardo, merita rispetto. Finalmente Angelo Dundee, il suo allenatore, si avvicina all’arbitro e lo supplica “Basta così”. May May alza gli occhi al cielo e pregò “Fa’ che questa sia l’ultima volta”. Non lo sarà.


Mohammed Ali (foto LaPresse)


Alcuni studiosi la chiamano dipendenza dall’adrenalina del proprio corpo, dipendenza dal proprio dolore. Ad Ali la boxe ha sempre ricordato la morte, adesso ha paura di non riuscire a vivere senza. L’11 dicembre 1981 a Nassau, Bahamas, Mohammed Ali ritorna per l’ennesima volta sul ring. Sta per compiere quarant’anni; Trevor Berbick, il suo avversario di anni ne ha ventisei, tredici in meno di lui. Fu uno spettacolo penoso. Odessa, sua madre, assiste a tutto l’incontro con le mani davanti agli occhi, con il terrore di ciò che sta succedendo: “Gli stanno massacrando i polmoni, me lo stanno uccidendo”. Sceso dal ring Mohammed Ali annuncia che è finita. La farfalla che aveva incantato il mondo esce di scena dopo ventuno anni di attività, cinquantasei incontri vinti e soltanto sei sconfitte. In tutta la sua carriera ha ricevuto un solo Ko. E’ davvero il più grande. “Non esistono foto di me al tappeto. Guardatemi, dopo tutto sono stato fortunato, sono ancora intero”. I medici sanno che non è così, ma quella sera la sua mamma e sua figlia tirano un sospiro di sollievo, è finita davvero.

Lo scorso 2 gennaio Roger Federer è sceso in campo alla Hopman Cup di Perth, un’esibizione a squadre preparatoria per gli Australian Open dopo una pausa forzata di sei mesi e un intervento al ginocchio sinistro. I tredicimila spettatori presenti alla prima partita della stagione non sapevano se avrebbero assistito al ritorno di un campione o al prolungato trascinamento della sua fine. Per prima cosa bisognava osservargli le gambe, le muoveva ancora? E come? Erano ancora le gambe di un tennista o di un uomo che farebbe meglio ad appendere la racchetta al chiodo? Federer ha compiuto trentacinque anni l’8 agosto, è diventato professionista nel 1998, l’anno in cui sono nati molti dei suoi nuovi avversari. In carriera ha vinto mille e ottanta partite, ottantotto tornei, diciassette prove del Grande Slam, sette titoli a Wimbledon. Adesso si trova al diciassettesimo posto in classifica, fuori dalla top ten per la prima volta dopo quattordici anni. Durante la sua ultima partita ufficiale, la semifinale di Wimbledon dello scorso anno contro Milos Raonic, a un certo punto del quinto set Federer, sceso a rete per disperazione e perché proprio non voleva perdere, dopo aver mancato di pochissimo uno schiaffo di diritto del canadese, si è lasciato cadere sull’erba e ci ha messo una vita prima di decidere di rialzarsi. Era disperato, non aveva mai perso una semifinale sul campo centrale di Londra. “Game set and match” ha sussurrato qualcuno dagli spalti con pochi minuti di anticipo. Lo svizzero avrebbe ancora avuto la possibilità di giocare una semifinale sul campo centrale dell’All England Club?

Ma soprattutto, era il caso di farsi massacrare dallo sport dopo tutto questo tempo? Alla fine della partita Raonic ha ammesso di non aver giocato contro un mostro sacro, contro la storia di questo sport; era desolato ma dall’altra parte della rete aveva trovato soltanto un giocatore invecchiato. Incuteva rispetto, non faceva paura. Adesso Federer è a Melbourne pronto a giocare gli Australian Open, il sessantasettesimo slam della sua carriera, non ne vince uno da Wimbledon 2012. Da allora soltanto finali perse quando andava bene e poi la schiena, le ginocchia e l’anagrafe. Perché continuare? A trentacinque anni Federer ha ribaltato la domanda: perché smettere? Alcuni guardandolo giocare sono convinti che per lui non rimangano che le briciole, ma Federer pensa di poter vincere ancora qualcosa di importante. Non è che il tennis gli piaccia ancora, è che non è capace di immaginare come possa essere la vita fuori dal campo.

Senza il tennis Federer continuerà a essere Federer? E Francesco Totti dopo più di venti anni giocati tutti indossando la stessa maglia, senza il calcio che cosa diventerà? Una volta appesa la propria carriera in un armadio, che cosa si vede quando ci si guarda allo specchio? Durante i suoi ultimi anni da giocatore, Andre Agassi si svegliava al mattino e non sapeva nemmeno dove si trovava. In albergo, certo, ma dove? A Roma, a Brisbane, o a Shanghai? Per far riposare un po’ la schiena era costretto a dormire su un pavimento ghiacciato. Era stato numero uno al mondo, aveva conquistato tutti i titoli del Grande Slam e vinto un oro olimpico, molto più di quanto desiderasse da bambino. Adesso, ogni volta che entrava negli spogliatoi alla fine di un match, sia che avesse vinto sia che avesse perso, si accasciava per terra e massaggiatori e fisioterapisti ci mettevano mezz’ora prima di riuscire a farlo rialzare in piedi. “Ma perché non smetti?”, gli chiedevano tutti quelli che lo incontravano. Il suo storico rivale Pete Sampras appena si è accorto di non riuscire più a vincere ha deciso che avrebbe anche smesso di perdere. “Mi dispiace, ma il tennis non è più roba mia” ha detto uscendo per l’ultima volta da Flushing Meadows.

Agassi invece non riusciva ad andarsene. Il tennis non gli era mai piaciuto, gli aveva massacrato le ossa, lo aveva fatto invecchiare prima del tempo: era colpa di trent’anni passati a rincorrere le palline se adesso era costretto a punture quotidiane di cortisone che ormai non servivano nemmeno più. Come poteva essere così difficile accomodarsi all’uscita? Gli infortuni, gli aeroporti, gli allenamenti e gli antinfiammatori, le metanfetamine, suo padre, la paura e la depressione… alla fine della carriera Agassi aveva perdonato tutti. Gli rimaneva da risolvere un’unica domanda: e se quelli su cui stava per tirare una riga sopra fossero stati gli anni più belli della sua vita? “Non sono triste perché ho perso, sono disperata perché è finita” ha detto Martina Navratilova quando a trentasette anni, nel 1994, ha perso la sua ultima finale di Wimbledon. Non era ancora uscita dal campo e già sentiva la nostalgia dell’altoparlante che per vent’anni la aveva annunciata al pubblico prima dell’inizio delle gare, il colpo al cuore che le procurava ogni volta.


Andrea Agassi (foto LaPresse)


Le carriere degli atleti sono memorabili e spietate, imprese straordinarie che durano sempre troppo poco. Carlo Magnani, professore all’Università di Urbino e autore di “La filosofia del tennis” un libro preciso e ironico in cui paragona tennisti e filosofi, sostiene che per gli sportivi il tempo scivoli via più velocemente, che nei loro confronti la natura sia ancora più puntuale e maledetta. “La gioventù degli atleti non dura che una manciata di stagioni. I trent’anni sono un traguardo fatidico, da quel momento in poi comincia il declino. E’ terribile da ammettere, ma è la verità. Sa quanti anni aveva Björn Borg quando ha deciso di ritirarsi? Ventisei, quello sì, fu un ritiro perfetto”. Nel 1981 subito dopo la finale degli Us Open persa contro John McEnroe, il tennista svedese esce dal campo, passa dagli spogliatoi a ritirare le sue cose e senza nemmeno farsi la doccia chiama un taxi e esce per sempre dal circolo. Non partecipa nemmeno alla cerimonia di premiazione. E’ un uomo pragmatico e razionale, non sta agendo di impulso o per la rabbia della sconfitta, davanti ai microfoni dice: “Mi sono finalmente reso conto di non essere più il numero uno al mondo. Bene, non voglio nemmeno essere il numero due”.

 

Michel Platini conclude la sua carriera più o meno allo stesso modo; dopo aver rifiutato un assegno in bianco da parte di Gianni Agnelli e un arretramento tattico imposto dall’anagrafe, il 16 maggio 1987, a trentadue anni annuncia che si sta per ritirare. Con la maglia della Juventus ha vinto due scudetti, una Coppa dei Campioni, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Uefa, una Coppa Intercontinentale, una Coppa Italia e tre Palloni d’oro. “Mi piacerebbe essere un bambino e ricominciare tutto dall’inizio”. Siccome non è possibile, preferisce togliersi le scarpe e uscire di scena. Usain Bolt e Michael Phelps, dopo aver vinto tutto quello che dovevano vincere alle Olimpiadi di Rio dello scorso anno, hanno deciso di dire addio al proprio sport senza girarci troppo intorno. Sono delle eccezioni, nella maggior parte dei casi per i campioni il ritiro è un massacro, lacrime e sangue, una decisione piena di tormento e di paura. Nessuno è felice di assistere al proprio funerale.

 

“E’ molto più difficile di quanto si pensi” dice Magnani “non si tratta soltanto di ringraziare il pubblico e abbandonare il campo, a livello psicologico si tratta di dismettere la propria identità. Devono reinventarsi, senza nessuna certezza che il futuro per loro sarà migliore del passato. Pensi a Merckx, a quanto è stato umiliato prima di convincersi a farla finita”. Eddie Merckx, soprannominato il Cannibale, è considerato da molti il ciclista più forte di tutti i tempi. Ha vinto cinque Giri d’Italia e cinque Tour de France; il 18 maggio 1978, mentre i suoi colleghi stanno per cominciare il Giro, lui annuncia la sua fine. “E’ il giorno più triste della mia vita”. La sua carica agonistica in grado di demolire tutti quelli che gli correvano vicino è improvvisamente scomparsa, dell’antico cannibale non è rimasta neanche l’ombra. I suoi avversari non riescono a immaginarsi il futuro del loro sport senza di lui. L’unica persona felice quel giorno è sua madre, che non avrebbe più sofferto guardandolo soffrire.


Eddie Merckx (foto LaPresse)


E’ stato un francobollo a rendere eterno Dino Zoff, il capitano. Ha chiuso la sua carriera nello stesso modo in cui è riuscito a portarla avanti per oltre vent’anni. In silenzio. Si è ritirato dal calcio a quarantun anni, nel 1983. “E’ stata una decisione pesante – racconta al Foglio – Ma volevo chiudere in bellezza. Meglio di così non avrei potuto”. Con la maglia della Juventus non ha mai saltato una partita, 540 presenze in serie A, sei scudetti, un europeo e poi il mondiale in Spagna. Le lacrime e l’abbraccio con Bearzot, un altro friulano di poche parole.


Dino Zoff ai tempi in cui giocava nella Juventus (foto LaPresse)


“Avevo quarant’anni. La mia vittoria più bella”. E’ stato difficile ricominciare guardando il calcio da fuori, da spettatore e non da protagonista? “E’ stato difficilissimo. Stare in porta mi piaceva ancora, più passava il tempo e più innamoravo di questo sport. Da giovane sembra tutto naturale, quando invecchi ti rendi conto che il tempo ti scivola via dalle mani e quando è finito, è finito per sempre”. L’11 luglio 1982, subito dopo la finale dei mondiali di Spagna vinta 3 a 1 contro la Germania, Zoff e Gaetano Scirea festeggiarono la vittoria bevendo un bicchiere di vino e rimanendo in silenzio. Non sapevano cosa dirsi, erano i campioni del mondo, forse non sarebbero mai stati più felici di così. “Sa perché è così difficile lasciare? Perché niente come lo sport è in grado di regalare una felicità che è così immediata che ti sembra quasi di poterla toccare con le mani”. Come tutti i grandi sportivi, si ricorda di tutto e conosce bene la nostalgia: i mondiali, la fascia da capitano e poi Gaetano che gli manca tutti i giorni. “Quando non ci penso io, sono le persone che incontro a farmeli tornare in mente, ma sono bei ricordi, sono la mia giovinezza, gli anni più belli della vita”. Che cosa pensa Zoff di Totti, di Buffon, di Federer, di Nadal e di tutti quei trentenni che nonostante il fisico, i paragoni impietosi con il passato, i giornali, le loro immagini riflesse allo specchio e le dita puntate su quei maledetti chiodi continuano a giocare? “Penso che dovrebbero continuare finché hanno fiato da buttare. E’ così bello quello che succede dentro a un campo, dura così poco”.

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