Notti magiche al Trump hotel

Michele Masneri

A Las Vegas. Tra i cappellini della campagna elettorale, a ruba fra i turisti, e lo champagne di famiglia

Las Vegas. Andare in cerca di startup e ritrovarsi in una grande metafora ottonata. Il povero cronista prende l’aereo da San Francisco verso “Sin City”, la capitale del peccato che per l’occasione e come ogni anno ospita il Ces, la più grande fiera della tecnologia del mondo, che quest’anno celebra la sua edizione numero 50. E lì, solite atmosfere da Salone dell’auto: amministratori delegati di mezza età istruiti da plotoni di coach a imitare liturgie da Steve Jobs senza averne il fisico, a leggere sul gobbo elettronico “e adesso siamo qui a offrirvi il prossimo schermo Oled, oh yeah”, mentre platee di dipendenti applaudono esageratamente temendo licenziamenti. L’auto elettrica di Fiat-Fca, però Marchionne non c’è. Polaroid che presenta i suoi computer e le sue stampanti 3D. Il drone più carino di tutti, che vince un concorso di bellezza qui in questi saloni di giganteschi Ergife sparsi per la strip. Non c’è un posto abbastanza grande per contenerli tutti, infatti, questi appassionati di tecnologia, dunque tutti questi fondamentali eventi sono sparsi per varie location tutte ugualmente orride. Il regno della moquette e del male di vivere. Gli inviati bestemmiano che gli tocca prendere tre coincidenze per arrivare quaggiù, spostatelo a New York. In Italia ci sarebbero dibattiti tipo salone del Libro tra Torino e Milano, con un Nicola Lagioia del Nevada a prendere la presidenza.

La più grande fiera della tecnologia del mondo celebra la sua cinquantesima edizione. Nel regno della moquette e del male di vivere

Qui se ne guardano bene, il loro salone se lo tengono stretto, orde di cronisti e turisti arrivano ogni anno ad ammirare il nuovo schermo piatto oltre al ponte veneziano, la piramide egizia, e primari concerti di star stagionate (Elton John-Céline Dion-Rod Stewart).

 

Si prende una stanza, non resistendo, al Trump International, della catena presidenziale, che costa meno rispetto agli altri e promette gadget inarrivabili. E subito iniziano riflessioni: un’architettura basica, da periferia romana, da socialismo reale, però dorato (i grattacieli di Las Vegas sembrano un paese immaginario dell’Europa dell’est, ma con molto ottone. Ci sono le montagne, dietro, pare Nova Gorica in Slovenia). Il Trump è un enorme accendino Cartier, 64 piani di non-morbidezza, con “sopra” e “sotto” di cemento bianco che paiono il suo involucro, di polistirolo. Sotto, un enorme parcheggio multipiano che funge da piedistallo di questo grande parallelepipedo, e palme intirizzite in una piscina esterna fantozziana (fa molto freddo in questi giorni, ma è piena, e però è nuvolo e avvertono che “oggi è sconsigliato tuffarsi”, mah). Sotto, ancora, un grande portico-pronao, che sembra l’ingresso delle terme di Fiuggi disegnato da Luigi Moretti, ma con un tocco di grandeur mortuaria, portieri in livrea e due giganti suv neri targati TRUMP-2 e TRUMP-3, e si immagina che il TRUMP-1 sia in uso solo quando il Presidente è in casa, tipo SCV1 per la Papamobile. Al sessantunesimo piano vi è infatti l’appartamento presidenziale; e qui a Las Vegas si è tenuto l’ultimo dei dibattiti elettorali, all’Università del Nevada, ci dice l’uberista orgoglioso. Gli uberisti del Nevada sono differenti da quelli della California, hanno i capelli tinti, “lascia che apra la portiera a questa bella signora”, dice questo saltando fuori con passo da cow-boy alla mia amica. Fuori sono sharing economy ma dentro, dentro sono ancora autisti di limousine (si vede poi che il Nevada non è tanto Uber-friendly, girano ancora molti taxi con autisti tutti afroamericani, sedili di velluto sfatti, e sul tetto cartelli pubblicitari per ristoranti da stardom televisive, Ducasse, Gordon Ramsey, che qui prosperano nella plastica, fanno hamburger su licenza).

 

In camera (camera 5719, cinquantasettesimo piano, superior con doppio letto queen size, viene 120 dollari a notte), si fa ovviamente man bassa di tutti i gadget disponibili, da portare ad amici riflessivi e abbastanza spiritosi: e qui, riflessioni anche olfattive: saponi e shampoo sono ok, non fantastici ma ok. Il packaging, lettere dorate su fondo blu, una carta ormai un po’ indurita, che fa le orecchie; sembrano quei profumi che si trovano sulle bancarelle, vecchi Trussardi. Drakkar Noir. Fragranze anni Ottanta. Un lime molto industriale. Molti agrumi. La Jacuzzi ha un design vecchiotto ma funziona. La doccia, dietro un vetro molto zigrinato con la sua guarnizione di plastica, non è piena di calcare come altrove accade, e butta molta acqua calda, infinita. Tanti asciugamani, un po’ ruvidi, da vecchia palestra. Se vuoi l’accappatoio a due strati, viene 120 dollari (rubarlo non viene voglia, c’è molta sicurezza, guardie con auricolari ovunque). Il frigobar è vuoto, proprio completamente vuoto, un cartello dice che è per una legge federale: ci sono solo due bottigliette d’acqua con la scritta TRUMP. Nell’angolo-cucina, un microonde potentissimo tutto d’acciaio che quasi brucia una tazza di plastica con una bustina di tè marca “Wake up”, un earl grey da camionista (il concetto di tè verde non alligna, qui, dev’essere considerato un lusso per élite invertite).

Un'architettura basica, da periferia romana, da socialismo reale, però dorato. Nel portico un tocco di grandeur mortuaria

Un interruttore comanda il tritarifiuti poderoso. Alle pareti, dei finti Picasso. Un lusso disperato da working class?

 

Poi, si va di sotto (gli ascensori, dorati, sono tre, velocissimi che ti si tappano le orecchie, non aspetti mai, con bottoni giganti tipo telefoni per ipovedenti Brondi, e utenze anziane, con scritte LOBBY-PISCINA). Al primo piano questa piscina, appunto, fuori, increspata dal vento, e la palestra con attrezzi perfetti Technogym, tappetini TRUMP che si vorrebbe subito rubare ma ci sono telecamere ovunque, e a un certo punto non si resiste a intervistare un inserviente con maglietta sempre Trump. “Ah, italiani, wow, pazzesco”. Ma lei indossa la maglietta del presidente. “Chi? Io? Ah sì, che paura”, risponde. Dice che forse il suo padrone ci porterà alla guerra, chi lo sa, e però quell’altra, Hillary, era il diavolo, davvero, “she’s the devil”, e va avanti a lustrare un tapis roulant. Lo schermo del tapis roulant intanto manda dibattiti sui media cattivi ed elitari: il presidente eletto dice bugie, il presidente eletto dice che il briefing dell’intelligence è stato spostato. Jack l’inserviente continua a lustrare lo schermo, scuotendo la testa, dolente e decoroso.

 

Poi giù, il Trump Store: una wunderkammer del merchandising demente, un Eataly trumpista. Lingottini d’oro con inciso l’ubiquo TRUMP cubitale (è cioccolato al latte, 5 dollari), mentre lingottini uguali ma d’argento sono invece di cioccolato fondente. C’è anche il lingottone da 30 dollari, tipo Toblerone repubblicano.

 

Poi il vestiario: i famigerati cappellini con la scritta “Make America Great Again”, nella finitura rossa, bianca, nera e camouflage. Vengono 30 dollari, si va subito a vedere, sono proprio made in Usa; mannaggia. Mentre sono made in Lesotho le magliette Trump Golf (65 dollari, finalmente l’abbiamo preso in castagna). Puro cotone, ma di consistenza mortaccina. I cappellini vanno a ruba: un roccioso signore asiatico è indeciso, poi ne compra due, dice “questo non posso non prenderlo, sono un veterano di guerra”, serio, e prende anche quello camouflage. L’antico maggiordomo di Trump ha detto al New York Times qualche tempo fa che il presidente eletto nelle sue residenze al mattino sceglie sempre il colore del cappellino in base all’umore, così il personale sa come regolarsi.

 

“Nessun picco di vendita ultimamente, caro, sono due anni che gli affari vanno benissimo” dice sbrigativa Angela, la cassiera, signora di mezza età con faccia e modi stinti e spicci, le avrà viste tutte a Las Vegas, quindi ci ha già sgamati e non ha tempo da perdere. E poi filtri solari, creme da corpo, shampoo, penne a sfera, apribottiglie, magneti, tutto brandizzato e trumpizzato. Ma soprattutto i vini: in uno scaffale a parte, tutta la produzione della Trump Winery, le fattorie in Virginia dove il clan si dedica alla vigna: ecco un rosso (30 dollari) e uno chardonnay (30) e il top di gamma, il blanc de blanc (50), il naming è comunque più sobrio di quello dello Chateau D’Alema (si chiamano solo "rosso" e "bianco" e “metodo champenois” e poi c’è un bordeaux “Meritage”, che è un po’ l’equivalente del Nerosé dalemiano, ma è il nome del vitigno; e però qui l’etichetta indica che “contiene solfiti”, mentre i vini di Max si sa che sono quasi tutti organic, altra classe).

 

Il vino di Trump è comunque già enologia della Nazione: la tenuta è stata acquistata nel 2010. Il sito strombazza citazioni del presidente Thomas Jefferson, padre alcolico della patria, che aveva le vigne vicino, a Charlottesville, nei pressi di Washington, e sull’etichetta c’è anche la dicitura “Monticello” che era il nome delle celebri tenute jeffersoniane: né con l’antico presidente né coi suoi vini Trump c’entra però alcunché, e non si sa se siamo nell’ambito della fake news o della semplice paraculata commerciale. Il sito dice anche che è la più grande vigna della costa est (ma non è vero neanche questo).

 

La tenuta però ha una sua storia vera decorosa e istruttiva: apparteneva a una celebre signora, Patricia Kluge, figlia di diplomatici inglesi, nata a Baghdad, poi divenuta per via matrimoniale una delle donne più ricche del Paese sposando il self made man John Kluge, re delle stazioni radiofoniche, patrimonio numero uno in America (ma prima, anche il soft-pornografo Russell Gay che volentieri la metteva in foto discinta nei suoi giornaletti di gran successo, un Riccardo Schicchi americano). Sfinita da questa intensa vita matrimoniale la signora aveva deciso di andare a vivere in campagna e aveva messo su una mega tenuta, costruita in stile finto inglese, tipo Franco Maria Ricci a Fontanellato, 2000 acri dal nome altisonante di Albemarle House, con campo di golf a 18 buche in cui intrattiene reali e autorità di mezzo mondo. Erano gli anni Ottanta. Poi nel 2000 divorzia dal marito e con un nuovo fidanzato si butta nel business del vino, vince medaglie, il suo bordeaux viene servito al banchetto di nozze di Chelsea Clinton. Però si ingarella troppo coi vini, chiede prestiti per 65 milioni alle banche per nuovi macchinari e nel 2008 in piena crisi dei mutui collassa sotto una rata mensile di 500 mila dollari (non si sa se variabile, fisso o misto). Mette in vendita la tenuta per 100 milioni, non la prende nessuno, le banche pignorano tutto, e alla fine arriva Trump che dice di ammirare molto la signora, e dunque la vuole aiutare, e compra tutto per 6,2 milioni, e per un po’ però la tiene a dirigere la cantina

Giù c'è il Trump store, una wunderkammer con lingotti di cioccolata, vestiario, gadget, tutto brandizzato. E soprattutto i vini

(compra insomma “a cancelli chiusi” tipo il Nardoni Liv Ullmann in “Speriamo che sia femmina”). Poi dopo poco lei viene cacciata.

 

La cantina oggi è proprietà e dominio del figlio Eric Trump, quello con le gengive presidenziali. La casa dalle foto è uguale a quella di Blake Carrington in “Dynasty”, c’è anche una cappella privata e gran uso di eliporti. Nel Trump immobiliare c’è del metodo, naturalmente: per conquistare la residenza floridiana di Mar-a-Lago, dove passa le feste, e far scendere il prezzo, comprò prima la spiaggia davanti, e poi minacciò di costruirvi “il più brutto edificio del mondo”. I proprietari cedettero, l’edificio più brutto del mondo non venne eretto, o forse è il progetto che venne riciclato per questo hotel qui a Las Vegas.

 

A rebours, qui in albergo: nella hall, un albero di Natale più poverello di quello di Virginia Raggi, con sotto dei pacchettini con carte colorate, finti. Al ristorante DJT, come le iniziali dell’unpresidented, cameriere incerte e traballanti servono middle class con trolley sgarrupati. Al check in, una receptionist Jessica con unghie leopardate annuncia subito la sòla, una sovrattassa da 29 dollari al giorno che prevede “pulizia scarpe, uso della piscina, utilizzo della nostra edicola digitale”, tutto molto utile. Non c’è casinò. Secondo Eric Trump, responsabile anche di questo hotel, la compagnia ha naturalmente la licenza per il gioco d’azzardo ma signorilmente non hanno impiantato roulette e slot machine “per non abbassare il tono dell’immobile, e vedere poi crocieristi in ciabatte e tazze di caffè americano nell’atrio” (nell’atrio passano molti cinesi in ciabatte e caffè americano, preso in un secondo baretto mobile che apre al mattino e viene smontato la sera, con prezzi più bassi per chi non può permettersi quello principale). Il latte di soia è sconosciuto. Passano anche hostess ed equipaggi di linee aeree cinesi.
Viene un collega giornalista milanese in visita: “Che hotel povero!” (lui sta al Mandarin: a Las Vegas la quantità di doratura è inversamente proporzionale al prezzo). E però, tornati in camera, mentre la tv vecchiotta ma che funziona al primo colpo manda infiniti dibattiti Cnn sul presidente e questi briefing della Cia, il letto è perfetto, né morbido né duro, e si è dormito benissimo, come bambini, anche se un portalampada di cristallo è scheggiato. Povera, disperatamente signorile, fasulla, questa stanza, vecchiotta e fuorimoda ma funzionante, è come il taglio di capelli di Melania Trump? Come l’America trumpista? Di torre doveva esserne costruita un’altra, in questo hotel, ma poi non se n’è fatto più niente. Trump disse che c’era una richiesta “pazzesca”. Ma dopo un anno solo il 21 per cento delle stanze venne prenotato. I contratti di costruzione e di gestione sono stati firmati in diretta durante lo show “The apprentice”, tipo salotto di Bruno Vespa. Trump assicura anche che nel rivestimento esterno vi sia dell’oro: ma è chiaramente il solito, vecchio, patetico ottone.

 

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