Agnese e Matteo Renzi al seggio la domenica del referendum. Il maglione, dello stilista Ermanno Scervino, è stato al centro della polemica online (foto LaPresse)

Il prezzo di un maglione

Fabiana Giacomotti

Da Maria Antonietta ad Agnese Renzi: quando il populismo moralista si fissa su un dettaglio

I sandali dorati di Messalina. La collana di diamanti che Maria Antonietta nemmeno voleva. Le duemilasettecento paia di scarpe di Imelda Marcos. Il maglione bianco a coste grosse di Agnese Renzi, che messo così, ultimo di una lista di lussi inauditi, mi pare una bella revisione al ribasso ma d’altronde lo sono anche i tempi. Se per i libellisti del 1785 poteva avere un senso prendersela pure a sproposito con un monile di valore attuale stimabile in cento milioni di euro e che infatti innescò la Rivoluzione francese, la ridda di invettive scatenata attorno a un maglione da settecento euro di costo nominale (cioè non scontato, che è prassi ormai usuale per tutti) fa abbastanza ridere, soprattutto se chi ne scrive indignato di solito lo fa da un pc che ne costa almeno il doppio o da un cellulare di identico valore, pur senza rendersene conto perché i gadget sono entrati a far parte della nostra personalità in termini così definitivi da non essere neanche più considerati oggetti o estensioni delle nostre attività, bensì parte integrante di noi stessi, come facevano notare Elena Salibra e Giuseppe Langella dell’Università Cattolica di Milano in un divertente libriccino uscito per Mursia quattro anni fa. In buona sostanza, non siamo sanculotti da un pezzo e non diamo più l’assalto al forno delle grucce, per nostra fortuna e anche se gli ultimi dati sulla disoccupazione dovrebbero far prendere coscienza al nuovo esecutivo che non è possibile immaginare per il paese un futuro da tenutari di appartamenti a uso AirBnB ereditati dai nonni e che un popolo cupamente arrabbiato come il nostro è facile preda del primo avventuriero dotato di un eloquio accattivante.

Di quei tempi ci sono rimasti però i modi e le reazioni. Inizio anzi ad avere il sospetto che i modi siano gli stessi da millenni, e che finiscano sempre per fissarsi sui simboli di un lusso più o meno reale e su chi, per prassi culturale più volte ribadita nel corso della storia occidentale, sarebbe deputato a sfoggiarlo, e cioè le donne. Gerolamo Savonarola è morto da più di cinquecento anni, ma il falò delle vanità è sempre acceso, e c’è sempre qualcuno pronto ad alimentarlo, come i fiorentini che accorsero a portare specchi, vesti di seta, cosmetici in quella fatidica notte del 7 febbraio 1497, primo dei grandi fuochi del populismo quando si ammanta di moralismo. Le calze di seta di Claretta Petacci: settant’anni dopo piazzale Loreto c’è ancora qualche donnetta che dello scempio ricorda solo le calze di lusso dell’amante del duce appesa per i piedi. Non i volti sfigurati, non l’orrore della guerra civile, non le leggi razziali, non la stessa Claretta, che un po’ c’era e un po’ ci faceva, spinta dal padre e dalla famiglia avida come accade alle Pompadour di tutti i tempi, e che quella morte gelida e spietata avrebbe trasfigurato. No. Le calze di seta, “quando tutte noi dovevamo disegnarci la riga sulla gamba nuda col carboncino”. Eccolo, il simulacro del potere finalmente abbattuto: una calza di seta sulla gamba di una morta, e sono sicura che qualcuna l’abbia osservata con attenzione per capire se fosse possibile sfilargliela.

 

 

La grande storia, se ci si avvicina per guardarla meglio, ha sempre una dimensione spicciola; dietro il grande sogno, spunta la bramosia da quattro soldi, la grettezza, il “diritto per tutti” che non è pane, non è studio, non è casa, ma sono un paio di calze di seta e il maglione più o meno costoso indossati dal potere o dalla sua più diretta propaggine, cioè la donna che lo accompagna, interprete e depositaria dell’opulenza maschile. Il simbolo sul quale accanirsi e sfogare ogni motivo di rabbia, ogni frustrazione, ogni malanimo. Non a caso, due minuti dopo la nomina di Paolo Gentiloni a premier, un’amica spiritosa ha postato su facebook un avvertimento alla moglie Emanuela detta Manù, architetto con un debole per la buona cucina e ma anche la disciplina necessaria a smaltirne le conseguenze con lunghe corse e passeggiate in campagna: “Okkio al maglione”. Le polemiche attorno al maglione bianco a coste grosse indossato da Agnese Renzi durante la lunga giornata del referendum e le dimissioni notturne del marito premier tenevano infatti banco sui social da tre giorni e avevano raggiunto il tipico livello di guardia di cui parla Dumas nella “Sanfelice”, con la differenza che se i moti di piazza si possono sedare in molti modi e restano circoscritti, vedi appunto i tumulti di Napoli nel 1799, quelli sui social sono talmente incontrollabili da aver generato un allarme sociale, e perdonate il bisticcio. Era partito tutto nel migliore dei modi, con toni quasi inaspettati per chi, come noi giornalisti, è ormai abituato a rapportarsi con chi giudica il mondo dallo schermo di un pc e l’insulto che prude sotto le dita. “Elegante”, “composta”, “accorata”.

Ad Agnese Renzi venivano riservati solo elogi, e nessuno aveva notato il maglione. Poi, mentre l’abbandono del premierato sembrava senza ripensamento e sulle pagine politiche dei quotidiani i notisti rassicurati davano sfogo all’astio che accompagna ogni sconfitta, qualcuno ha insinuato che la coreografia dell’addio, Matteo Renzi chino sul leggìo, la moglie dietro le quinte ma sempre inclusa nell’inquadratura, ricordasse molto quella della presidenza Obama e chi siamo noi, dei boccaloni che si fanno menare per il naso da questa sceneggiata. La miccia era innescata, e c’è voluto un attimo. Social e folla da esecuzione capitale di tre secoli fa seguono le stesse regole e si fanno eccitare nello stesso modo. Anche nelle polemiche online sul niente, che sono la maggioranza perché i dibattiti seri richiedono preparazione e competenza, troverete sempre l’agente provocatore, “l’eccitatore di disordini pubblici” manzoniano, l’urlatore primigenio, insomma uno di quei tipi che la Serenissima sguinzagliava qui e là a scatenare la gazzarra perché il popolino potesse riversare la propria rabbia su obiettivi facili e che ora non devono neanche rischiare le botte perché possono attivarsi al calduccio del proprio letto, alle sei del mattino, mentre bevono il primo caffé.

Lanciato il sasso, un secondo urlatore si è ricordato della passione di Michelle Obama per la moda. E un terzo, che qualcosa mi dice sia del mio giro perché non credo che la maggior parte della gente passi il tempo a leggere i crediti delle didascalie e sappia che, per i cento giorni del premierato Renzi, Ermanno Scervino ne è stato lo stilista en titre, invidiatissimo dai colleghi come Rose Bertin ai tempi di Maria Antonietta o la sartoria Montorsi nel Ventennio, è andato sul sito per verificare se il maglione fosse accreditabile alla maison fiorentina e stabilirne il prezzo. Il linciaggio online è partito così. Un’ora dopo, il prezzo del maglione era lievitato a 950 euro, nella più trita delle dinamiche della calunnia, e mezza Italia faceva i conti in tasca all’insegnante liceale Agnese Landini in Renzi, come se le strade del “paese in crisi” evocato dai tutori del salvadanaio altrui non fossero piene di studentesse con piumini da mille euro o di parka con il cappuccio bordato di pelliccia che va per la maggiore questo inverno e potrei proseguire all’infinito con casi reali e inconfutabili, ma preferirei evitare di cadere anch’io nel tranello della miseria argomentale. Credo che sui casi delle collane e dei maglioni, eterno ricorso della tattica populista, ci sia in effetti qualcosa di più stimolante da osservare, e che qualcuno abbia già iniziato a farlo, colpito come me dalla violenza che si scatena attorno alle questioni risibili.

Il primo spunto mi è arrivato via facebook dall’amico Antonio Mancinelli, firma della libertà di pensiero che nella moda e addentellati non è così facile a trovarsi, e ve lo riporto pari pari: “Qualcuno ha mai chiesto quanto costassero i girocollo in cashmere di Marchionne? Ve lo dico io: millecinquecento euro cadauno e mai lo si è fatto notare. Questa è la rivincita di un machismo mentale che va oltre l'aver votato "sì" o "no" al referendum. Di fronte ai problemi seri, gli italiani si dividono tra scapoli e ammogliati. Ma tutti insieme, sono un coro di misogini che lèvati”. Per pura cronaca, si potrebbe osservare che di golfini di cashmere è morta la carriera politica di Fausto Bertinotti, dei quali la moglie Lella evocava l’acquisto a prezzi stracciati in misteriosi mercatini a scopi giustificatori, mentre Sergio Marchionne è l’amministratore delegato di una società privata e Agnese Landini è la moglie di un ex premier, ruolo pubblico, diventata pochi mesi fa insegnante di ruolo in un liceo vicino a casa dopo un decennio di precariato, un successo che com’era logico attendersi le è costato un immediato attacco da parte dei social ma anche, a sorpresa, una difesa puntuale da parte di una collega pentastellata di Bari che ha messo tutti a tacere (all’estremo opposto del sobillatore, anche sui social agisce spesso il calmieratore, il cancelliere Ferrer “adelante Pedro”, che va da sé risulta più efficace se di segno politico e di pensiero opposto a quello della folla armata di picche: ne ho dovuto chiamare uno in soccorso anche io poche settimane fa quando, per via di un pezzo sul Foglio tagliato e rimontato da qualche malevolo, sono stata offerta in pasto agli stessi attivisti Lgbt di cui avevo sostenuto le ragioni.

Due ore dopo era tutto finito; bisogna sempre affidarsi al capobranco). Mancinelli però ha anche ragione. Le donne sono le prime vittime e i bersagli più facili di ogni semplificazione, e un capo di vestiario si presta di certo meglio di una proposta di legge a colpire l’immaginazione popolare e ravvivare le chiacchiere. Più facile prendersela con le (ahinoi, brutte davvero, però) scarpe leopardate del sottosegretario alla presidenza del consiglio Maria Elena Boschi che con la sua riforma costituzionale. Sulle scarpe di Imelda Marcos, non sulla sua carriera politica successiva alla morte del marito, nel 2009 il Pan Asian Repertory Theatre di New York allestì un musical di due ore (il Village Voice corse a recensirlo e se ne andò deluso ma con una grande battuta in tasca: “Questo ritratto della ex first lady delle Filippine dovrebbe essere appuntito come uno stiletto, e invece è piatto e floscio come una ballerina”); non mi pare però che qualcuno abbia mai composto canzoni sulle camicie di Nelson Mandela, e dubito che nei prossimi decenni ne ascolteremo una sulle sahariane di Fidel Castro. Ci sentiamo a disagio solo a pensarlo, come invece non ci accade per Imelda, per la collana di Maria Antonietta (due film, un numero imprecisato di libelli e operine) e per i golf di Agnese Renzi.

Nelle favole come nelle commedie, gli uomini narcisi e vanitosi non hanno nome e cognome ma diventano tipi umani, figure amorali, vedi l’imperatore che scende per le strade nudo o il “Borghese gentiluomo” di Molière, un fanciullone che, dopotutto, è anche simpatico. Le donne possono pagare per tutta la vita una sregolatezza vestimentaria, come Mathilde nel racconto “La collana” di Guy de Maupassant, che si sfinisce di lavori umili per ripagare come vera a un’amica più altolocata una collana di diamanti falsa (il racconto è naturalmente diventato un musical). L’orpello maschile è invece il segno del capo. Dovessi andare indietro nella memoria della storia economico-finanziaria italiana, mi verrebbe in mente solo il nomignolo affibbiato a Davide Croff ai tempi della gestione di Bnl, “l’indossatore delegato”, o lo sfottò per le camicie variopinte (anche queste orride davvero) di Roberto Formigoni. Quisquilie, badinages.

A noi giornalisti della moda, Agnese Landini in Renzi è sempre piaciuta molto. La moda se ne infischia dei nasi imponenti, lo status di Marella Agnelli e di Anjelica Huston nell’empireo della bellezza mondiale dovrebbe esserne prova sufficiente, e ritiene invece indispensabili gli attacchi sottili e il portamento, il port de tête che un tempo si insegnava alle bambine borghesi costringendole a camminare su e giù per il salone con un libro in equilibrio sulla testa, perché per natura lo possedevano solo le nobilissime o le poverissime abituate fin dalla prima infanzia a trasportare ceste pesanti sulla testa, equivalente reale del simulacro librario casalingo. Incrociavamo dunque Agnese Renzi seduta composta in prima fila alle sfilate, raramente e appunto solo a quelle di Ermanno Scervino, la osservavamo nelle immagini accanto Michelle Obama e ci veniva in mente il famoso consiglio del grande stilista-fotografo, mai farsi fotografare vicino a una colonna perché si rischia di sembrare o sensibilmente più grosse di lei o di scomparire fra le scanalature, e invece lei stava dritta lì e non sfigurava per niente, con quel suo bel naso importante e le caviglie sottili. Per maggior sicurezza, a Manù Gentiloni ci sentiremmo però di consigliare, oltre a una grande attenzione ai maglioni, un occhio di riguardo sulle sneakers.

Di più su questi argomenti: