Fabrice Luchini, in scena fino al 27 febbraio al Théâtre Montparnasse, a Parigi, in “Poésie?”. In Francia è uscita anche l’autobiografia dell’attore, pubblicata da Flammarion

L'attor cinico

Marina Valensise

Dal sublime al triviale. Fabrice Luchini, l’apprendista parrucchiere che nel nome di Céline e dei classici ha sedotto le platee di Francia

Anche in scena, Fabrice Luchini sembra molto isterico. Quando parla, tende il labbro fino a scoprire una fessura di denti bianchissimi e regolari. Ha una dizione implacabile, un senso perfetto delle pause e una passione per la poesia e la letteratura che da anni lo rende una figura unica nel teatro francese. I suoi spettacoli (fino al 27 febbraio, prenotando in tempo al Teatro Montparnasse, lo potrete vedere in “Poésie?”, il suo ultimo spettacolo) sono una lunga seduta psicanalitica collettiva, perché Luchini ha il dono di calamitare intorno a sé e alle sue ossessioni un pubblico vario e consistente. Le luci si spengono, s’alza il sipario, ecco che entra in scena col dolcevita nero, i pantaloni di velluto, in mano un libro o un paio di occhiali. Siede sulla poltrona di cuoio illuminata da un abat-jour e compie il miracolo. Per due ore, questo isterico istrione adulato e detestato per le stesse ragioni (il cinismo, la ferocia, la lingua acuminata), maestro nell’arte di strappare il riso con battute convulse, incanta la platea. Il suo pubblico è formato da studenti, impiegati, professori, notai, ingegneri, vedette dello star system, ma anche ministri, presidenti che arrivano alla chetichella, cercando di mimetizzarsi fra gli sconosciuti, ma vengono subito riconosciuti, blanditi, chiamati in causa. Luchini ha una passione per i politici e ogni sera la mette in scena passando dal sublime al triviale, senza perdere di vista la natura umana e il suo mistero.

Insomma, un genio. Piano, semplice, accessibile, e perciò molto sofisticato. Come fa? Legge il “Bateau ivre” di Rimbaud come nessun altro mai e ammette di non capire niente, spiegando che giustamente non c’è niente da capire, bisogna solo ascoltare, imparare a sentire. Legge i “Poèmes en prose” di Baudelaire, altro faro della poesia moderna, recita a memoria La Fontaine, mimando la perfezione classica e la semplicità della forma assoluta. Torna a Molière, come alter ego di Alceste, il Misantropo che vorrebbe dire a tutti la verità; ma si diverte di più a immedesimarsi in Philinte, l’uomo di mondo allievo di Montaigne che sa come vivere in società: “Prends tout doucement les choses comme elles sont”. Si mette a parlare di Proust, divagando sulla “Recherche” e sugli scambi omosessuali di Charlus, infine passa allo stile parlato del “Voyage au bout de la nuit” e al suo amore sconfinato per Céline, immenso scrittore del Novecento, maledetto, antisemita, criminale, osceno, che però gli ha fatto scoprire la grazia di La Fontaine. Eppure, niente pedanteria, nessuna boria: in questo andirivieni coi classici Luchini infila una serie di aneddoti per rivelare il suo animo da petit réac, reazionario schifoso che sarebbe voluto diventare uno di sinistra, ma non c’è mai riuscito, perché incapace di coltivare gli ideali universali di giustizia e libertà, perplesso di fronte all’utopia infantile dell’homme festif, del bobo in balia del buonismo convinto che la cultura redime l’uomo e migliora la società. Manco per niente. “La destra non è sexy – proclama Luchini – la destra crede che la natura umana sia mediocre: siamo pessimisti, vogliamo solo fottere. Contrariamente alla sinistra, non pensiamo che la cultura metta di buon umore”, conclude con Cioran, altro suo faro atrabiliare.

Così, in un delirio di egotismo che però non è mai autoreferenziale, Luchini spiattella i suoi tic, invita il pubblico a entrare nel suo mondo, ne sfruculia i pregiudizi, il conformismo, le pose mentali. E si mette a raccontare i fatti propri, gli esordi di attore per caso, gli anni di apprendista parrucchiere, riversando sulla platea i suoi dubbi, le ossessioni, la rabbia e l’intelligenza che, come al solito, è allegria quanto più nasce da un fondo antico (maniaco depressivo) di malinconia. Ogni sera, danzando in questo modo sulle partiture dei classici, ripetendo le parole dei grandi, fa danzare anche il pubblico, piegandolo alle sue pause, spingendolo al riso, dominandolo col solo movimento del corpo, le braccia, le mani, il passo controllato, come un prestigiatore con l’ipnosi o un domatore di cavalli con la sola forza dello sguardo. In realtà, egli stesso si considera un miracolo: figlio di un italiano immigrato, verduraio di mestiere, che un bel giorno impazzisce e stenta a riconoscere la moglie, l’estremo testimone di un grande patrimonio letterario è l’ex teppista di Abbesses che oggi pontifica in tv, frequenta il jet set intellettuale nell’isola di Paros, s’intrattiene con Jean d’Ormesson dell’Académie française, riceve il presidente Hollande in camerino conversando per ore in tête-à-tête. Una sera a Parigi, col console generale, anche noi siamo andati a salutarlo dopo lo spettacolo per invitarlo a una serata italiana. “Che bello… ma quale vantaggio ne ricavarei?”, rispose con la faccia tosta del cafone ambizioso e fiero di esserlo. Eppure, niente di miracoloso nel suo successo, frutto di uno studio tenace, di una devozione religiosa alla letteratura e al teatro classico, di una passione umile e ossessiva che nutre sin da bambino l’autodidatta della Goutte-d’Or, illuminato per caso dalla bellezza del verbo e dall’essenza della forma, prima di coltivarle in proprio grazie ai corsi di teatro di Jean-Laurent Cochet, e mettersi a lavorare sui testi scolpiti nel marmo dai grandi autori in grado di combinare la natura e l’artificio come Molière, La Fontaine, Céline, per farne il fulcro della sua vocazione.

Per capire come tutto questo sia avvenuto dovete leggere l’autobiografia di Luchini (“Comédie française, ça a débuté comme ça”, Flammarion, 252 pagine, 19 euro). Fatelo lentamente, prendendo appunti, centellinando le pagine e magari recitandole a alta voce. Sentirete il talento di un attore di genio, il suo magnetismo, la capacità quasi infinita di resuscitare la potenza dei classici. Ne uscirete rigenerati, vogliosi di altre letture, forti di una sicurezza nuova che senza nulla togliere ai successi dei cantautori effimeri e dei grafomani contemporanei vi riconcilierà con la gerarchia dei valori, dandovi la misura eterna della vera grandezza. Scritto in forma di appunti, il diario di Luchini è il romanzo di formazione di un attore sui generis. Un caledoscopio di ricordi, sensazioni, stati d’animo, racconto di vita vissuta da un genio dell’intrattenimento degno dell’Académie. La vera sorpresa non è solo il ritmo, l’intelligenza, la suspense che alimenta l’attesa, la capacità di maneggiare un classico estraendone il succo più segreto, sino a catturare anche i lettori più cretini e distratti. La vera sorpresa è la freschezza, popolare e beffarda, di Luchini, la sua semplicità, l’attenzione spietata verso la lingua dei suoi grandi intercessori, a cominciare da Céline, che scoperto per caso da ragazzo gli ha aperto un mondo, il mondo della periferia, del parlato, dell’oralità triviale, dell’emozione diretta “che spazza via la possibilità di una grandiloquenza affermativa”.

Quel mondo è anche il suo, e Luchini vi entra e ne esce senza complessi, alternando in continuazione aneddoti da bar sport e aspirazione all’universale, minimalismo e metafisica. “Céline non è mai solenne. Mai universitario. Tocca il tragico della condizione umana e dà l’impressione di parlare a noi come si parla al bar o ai tavolini di un caffé… ricorre all’insignificante per farci accedere all’universale… Noi oggi parliamo tutti la lingua di Céline. I ribelli della tv copiano Céline senza saperlo”, insiste Luchini, ed è per questo che urge tornare alla fonte, scoprire le partitura originali “lavorando in leggerezza, per non rovinare la forza della frase”. Si spiega così l’ipnosi collettiva che da quasi trent’anni circonda Luchini e i suoi spettacoli su Céline, maestro del parlato che fa entrare la vita nella letteratura. Céline il proletario, il critico assassino, che Luchini predilige perché ha sepolto Proust in cinque righe del “Voyage au bout de la nuit”: “Proust, lui stesso uno spettro a metà, si è perso con straordinaria tenacia nell’infinita, diluita futilità dei riti e dei passi che si attortigliano intorno alla gente di mondo…” Eppure, niente destinava il figlio di un immigrato italiano all’empireo dei grandi attori. L’unica ambizione di sua madre era di sottrarlo alle “intemperie” del banchetto di frutta e verdure nel passage Cottin. Così un bel giorno, nel 1969, prendono insieme un autobus che da Montmartre li porta nei quartieri alti e si presentano in un salone per parrucchiere sugli Champs Elysées. Volto da putto, la terza media in tasca, il ragazzino ha quattordici anni ma sforna le sue motivazioni con sicurezza e viene subito assunto. Unica condizione, farsi crescere i capelli, perché la moda è quella dei Beatles, e cambiare nome, Fabrice al posto del popolare Robert. Inizia così l’avventura mondana dell’addetto al casco nel salone di avenue Matignon.

Le donne arrivano in Bentley, passano intere giornate alle prese con i colpi di sole, con la depilazione delle gambe infinite, lasciano mance mirabolanti e covano i pulzelli. Sensibile al denaro, Fabrice indossa il blazer, i mocassini Weston, scopre la potenza del lusso e dell’eros e si mette a leggere Freud. Devota, una cliente prende a cuore la sua iniziazione sessuale, e gli propina un incontro con l’amica di una cantante, puttana esperta e ben disposta. Luchini si presenta in uno dei grandi palazzi parigini, scale di marmo, tappeto di moquette, penetra in un appartamento dai soffitti altissimi, con boisieries e ritratti di Mao Tse Tung alle pareti. L’accoglie un tipo strano che lo fa sedere a tavola e gli offre da mangiare, ma alla fine si slaccia i pantaloni per possedere sul tavolo davanti a lui l’amica in questione appena rientrata. “Ora tocca a te”, gli intima una volta conclusa l’operazione. Ma appena il pulzello si apparta con la signora in camera da letto, quello strano tipo ricompare armato di telecamera per filmare il tutto, col risultato di farlo fuggire a gambe levate come un eroe di Truffaut… E’ così che Luchini racconta in presa diretta le prodezze e le umiliazioni della sua vita, cedendo la parola ai grandi autori che ne accompagnano come un coro antico le gesta più paradossali. Timido, depresso, beffardo, incline al riso, maestro del sarcasmo e di una forma di surrealismo disarmante, ci regala una serie di sketch irresistibili, tanti spunti involontari per un vaudeville contemporaneo. Leggete per esempio l’incontro con Roland Barthes, il sommo saggista, critico e scrittore, “il pensatore, il signore, l’uomo da me più adorato, che ha scritto su Racine, su Proust, l’autore del ‘Degré zéro de l’écriture’, e dei ‘Fragments d’un discours amoureux’”. Insomma un mito. Barthes tiene ogni settimana un corso al Collège de France, seguito da migliaia di persone. Entusiasta del “Perceval”, film medievale di Eric Rohmer in cui Luchini non si sa bene come ha una parte, ne scrive una bellissima recensione sul Nouvel Observateur.

E Luchini, che continua a lavorare come apprendista parrucchiere, e come fattorino del banco di verdura di sua madre, seguendo sempre i corsi di recitazione, prende il coraggio a due mani e si presenta al Collège de France. Sala gremita, mille ascoltatori in estasi, un muro umano per salutare il maestro a fine corso. Arrivato il suo turno, è a lui, al piccolo shampista, all’attore per caso scelto da Rohmer, che il grande Barthes porge un bigliettino col suo numero di telefono. L’incontro avverrà tre settimane dopo a casa del critico in rue Servandoni, “l’appartamento di un austero universitario che non è compromesso dal capitale, un intellò di alta gamma. Semplice, niente di ostentatorio, qualche candela profumata, come unico simbolo di eccesso…”. Seduzione immediata. “Non mi accoglie come Jean Genet nel ‘Miracle de la rose’ dicendomi: ‘Assieds-toi sur ma bite et causons’, ma io capisco subito…”. Arte dell’ellissi, sapienza della pausa. I due prendono a parlare, psicoanalisi, strutturalismo, di Guy Debord. “Fabrice, datemi il diritto di non avere opinioni”, replica Barthes, un po’ estenuato. E a quel punto, il ventenne attore e shampista fa una cosa stranissima. “Sapete cosa c’è di geniale in voi, Roland?” “No”. “Alzatevi”. Barthes si alza, Fabrice lo porta nell’ingresso di casa e gli mostra un berretto sull’appendiabito. “ça, Roland, ça monsieur Barthes, ça: ça fait sens”. E l’altro gli risponde: “Quale senso?” E Luchini: “E’dicotomico con voi che siete il più grande specialista di Proust, l’uomo della moda, della mitologia. Quale significante per questo berretto?”… “Ma Fabrice, io sono basco…” Siamo a teatro, teatro puro e questa è la commedia surreale fatta di nulla, di un dettaglio cretino, triviale, inatteso, perché appunto basta un nulla alla potenza dell’arte per rivelare il graffio dell’universale.

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