La sede di Mps (foto LaPresse)

Banche di crisi e di scialo

Stefano Cingolani

Stanno per sprofondare ma distribuiscono prebende da capogiro. Dalla razza padrona alla razza predona. Cuccia, il "padrone dei padroni", non ha lasciato ai propri figli che il nome, l'istruzione e il principio di autorità

Nell’èra Cuccia ci si dava del lei. Era segno di professionalità, non di freddezza nei rapporti. Ci si vestiva in modo formale, preferibilmente in abito scuro. Non si usava il titolo di studio, ma ci si chiamava signori. Era l’uso delle grandi banche milanesi (Comit e Credit). Serviva tra l’altro a non discriminare le persone se non per il merito. I biglietti da visita portavano solo il nome e il cognome, omettendo titolo e carica”. Lo ricorda Fulvio Coltorti nella sua storia di Mediobanca, vissuta in prima persona dal 1972 e come capo ufficio studi per 36 anni. Del resto è quasi leggendaria la riservatezza e la frugalità di quel monaco del capitale; per Cuccia comandare era meglio che scialare, si potrebbe sostenere parafrasando un detto popolare siciliano. In ogni caso, il “padrone dei padroni” come lo ha definito Giancarlo Galli, non ha lasciato ai propri figli altra ricchezza che il nome, l’istruzione e il principio di autorità. Sarà la nostalgia che s’attacca alla pelle quanto più la carne decade, sarà lo spettacolo dei tempi bui “dove la parola innocente è stolta, una fronte distesa vuol dire insensibilità e chi ride la notizia atroce non l’ha saputa ancora”.

 

 

Sarà. Ma il passato ti salta in mente quando leggi certe notizie. I fatti innanzitutto. Il suo nome è Francesco Iorio, nato nel mitico 1968 a Sora, nella robusta terra di Ciociaria, laureato in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma, una carriera spesa nel mondo del credito, prima in società di consulenza poi in banche. Nutrendo un sano sospetto sugli economisti “che non ci beccano mai”, ha preferito la carriera di manager bancario, un po’ soldato di ventura un po’ Mr. Wolf chiamato a risolvere i problemi. Alla Ubi, il gruppo bancario della borghesia bergamasca e bresciana (Pesenti, Lucchini, Folonari, Camadini, per fare alcuni nomi), dove dominus indiscusso resta Giovanni Bazoli, diventa direttore generale, cioè il numero due operativo sotto la guida del consigliere delegato Victor Messiah. Nel giugno 2015, Iorio viene chiamato alla Banca Popolare di Vicenza già in piena bufera. Il presidente Gianni Zonin, primo vignaiolo d’Italia per quantità di bottiglie prodotte, ha gonfiato la banca come un otre e ora si trova prigioniero della sua stessa mania di grandezza. La mossa della disperazione è inserire sangue fresco. Lo stesso Zonin fa un passo indietro, come si dice. Lascia anche l’amministratore delegato Samuele Sorato e arriva Iorio, giovane promessa della nobile professione di dirigente bancario. Naturalmente, tutto questo ha un costo. Sorato e cinque ex dirigenti chiedono una buonuscita di 5,2 milioni di euro. Un giusto premio alla buona gestione? Non sembra proprio, visto che la banca è sull’orlo di una crisi che col passare dei mesi sembra senza via d’uscita. Se premio lo si vuol chiamare, allora si tratta di remunerazione della mala gestio, alla faccia di ogni regola economica prima ancora che etica. Iorio conosce la situazione e si rende conto che per lui è una sfida da far tremare i polsi, quindi chiede un bonus d’ingresso di 1,8 milioni di euro.

Così, tra buonuscita e buona entrata, la Popolare di Vicenza deve sborsare sette milioni da un bilancio già in profondo rosso. Nel suo primo anno di lavoro Iorio riceve un altro milioncino, così come il suo vice Jacopo De Francisco. Il presidente Zonin non è da meno, perchè si fa assegnare 1, 01 milioni che si porta a casa proprio mentre il bubbone da lui stesso creato è ormai esploso. Siamo nel marzo 2016, poi tutto precipita: cade Zonin, tracolla la banca, fibrillano le procure e, tra il tumulto dei risparmiatori beffati, spunta il fondo Atlante. La speranza è di separare il grano dal loglio con una “operazione di mercato”, in realtà nessuno vuole prendersi una tale gatta da pelare, e sulle spalle di Atlante finisce anche Veneto Banca. Iorio resta al suo posto, ma è chiaro che si trova in lista d’attesa. In assenza di acquirenti e di aiuti, Atlante, che fa capo alla Quaestio, società di gestione del risparmio guidata dall’economista Alessandro Penati con Giuseppe Guzzetti primo azionista attraverso la Fondazione Cariplo e il sostegno della Cassa depositi e prestiti, rimane azionista unico. Pressato dalla Banca centrale europea (gli uomini di Mario Draghi vogliono una soluzione entro la fine di quest’anno), decide di fondere le due aziende di credito. Due debolezze faranno una forza? Chissà, è un azzardo, ma non ci sono alternative, se non altro saranno tagliati sportelli e dipendenti (700 solo a Vicenza) con un risparmio sui costi; quanto al capitale si vedrà. La banca ha un buco di 8,75 miliardi, sono coinvolti 120 mila azionisti, per lo più piccoli perché i grandi sono scappati in tempo (con o senza cassa), Zonin ha ceduto tutto ai figli e si fa passare per nullatenente mentre incombe su di lui e gli altri amministratori un’azione di responsabilità. Non è facile affrontare un dissesto considerato tra i più gravi del Dopoguerra.

E Iorio? Domenica 4 dicembre annuncia le sue dimissioni. Ha lavorato 18 mesi e 4 giorni e non è venuto a capo di nulla, difficile fargliene una colpa vista la cancrena diffusa nei gangli del sistema, fatto sta che la sua gestione transitoria gli ha fruttato quattro milioni e 236 mila euro. E non è tutto. C’è la buonuscita, of course, che ammonta a 3,4 milioni pari a due annualità tonde tonde. Dunque, il dottor Iorio, risanatore mancato, ha guadagnato 13.858 euro al giorno per 551 giorni lavorativi. C’era una volta la razza padrona, poi è arrivata la razza predona seguita dalla razza cialtrona. C’era il banchiere di sistema, il banchiere d’affari o anche il “banchiere vampiro” come la rivista Rolling Stone ha chiamato i gattopardi della Goldman Sachs buoni per qualsiasi regime (uno di loro, Steven Mnuchin, già donatore per il Partito democratico, adesso va a fare il segretario al Tesoro con Donald Trump). Insomma, ci sono banchieri per tutte le stagioni. Anche banchieri di ventura, variante finanziaria della nuova razza pirata che ha trovato la sua Tortuga nel sistema bancario italiana. Lo dimostra Vicenza, lo confermano Ferrara, Ancona, Chieti, per non parlare di Arezzo che ha votato no al 70 per cento perché il governo ha liquidato la Banca Etruria, nata nel 1882 come cassa degli orafi, nella quale tutti inzuppavano (dalla giostra del Saracino alla squadra di baseball, fino alla diocesi, compresi i restauri nella basilica di San Francesco) senza che nessuno chiedesse il conto. In barba a conti in profondo rosso, sofferenze per due miliardi di euro e un capitale insufficiente (circa la metà di quello richiesto dalle autorità bancarie) sono fioccati i premi, i gettoni, i bonus per gli amministratori giunti a mettere insieme cinque paghe per il lesso.

E non era certo una novità. Quando nel 2009 lasciò il suo incarico, dopo 29 anni nei quali aveva fatto il bello e il cattivo tempo, Elio Faralli chiese l’azzeramento di tutti i suoi debiti, un riconoscimento alla carriera pari a 1,3 milioni di euro e 10 mila euro al mese per cinque anni. Così hanno fatto tutti quei “banchieri del territorio” che hanno gestito il credito in modo paternalistico se non clientelare, finché è durata. La storia del Monte dei Paschi di Siena non è diversa. Al contrario, si può dire che abbia rappresentato un archetipo per questo genere di banche. Nemmeno l’intervento di un “banchiere di mercato” come Alessandro Profumo è riuscito a venire a capo del maledetto imbroglio. Tutto era confuso, avviluppato in intrecci rossiniani. Una gestione all’insegna della razionalità non poteva essere sufficiente. La banca senese ha ingoiato un boccone indigesto con l’Antonveneta, senza avere il capitale sufficiente. Ha turlupinato l’occhiuta vigilanza della Banca d’Italia inventandosi operazioni finanziare spericolate ai limiti del lecito. Ha venduto al dettaglio (bastavano mille euro) contratti derivati per alcuni miliardi (ancora non è chiaro fino in fondo a quanto ammontino, ma cominciano a scadere già l’anno prossimo).

Non stupisce che abbia fallito ben due test della Banca centrale europea. Profumo ricorda di essere arrivato il 28 aprile a Siena, come presidente con zero compensi (forte della superliquidazione da 38 milioni di euro avuta quando ha lasciato Unicredit) e già il 5 maggio c’erano 150 agenti della Finanza alle porte. Se ne è andato tre anni dopo risanando i conti e chiedendo al mercato prima 5 poi 3 miliardi di aumenti di capitale. La banca è stata distrutta da “un blocco di potere senese autoreferenziale nel quale le appartenenze, per la verità abbastanza trasversali, contavano di più della competenza e dei valori”. In un’intervista televisiva ha parlato di “poteri oscuri”. L’amministratore delegato Fabrizio Viola ha continuato a guidare Mps fino al luglio scorso quando è stato defenestrato dal governo su indicazione di JP Morgan e Mediobanca che gli preferivano Marco Morelli. E’ toccato a Padoan comunicarglielo, da ambasciator che non porta pena. Ora è stato reclutato da Atlante come maestro di cerimonie per le nozze tra Popolare di Vicenza e Veneto Banca. La sua uscita con un assegno da 4 milioni (su uno stipendio di 1,3 milioni annui) è pari a quella del predecessore Antonio Vigni finito in mano alla magistratura insieme a Giuseppe Mussari. E adesso? Nelle banche che non hanno saputo adattarsi al mercato, interviene lo stato.

Al primo piano di palazzo Sella, il fortilizio del ministero dell’Economia assediato da dissidenti e questuanti, stanno studiando il piano B da concordare con le autorità europee. Il Tesoro (già primo azionista con il 4 per cento) entra in campo per sottoscrivere parte del capitale diventando così il socio numero uno e di gran lunga il più importante. L’ipocrisia europea parla di “intervento precauzionale”, non di nazionalizzazione. E i piccoli risparmiatori? Al Monte dei Paschi si tratta di 37 mila soggetti che hanno in mano un valore pari a 2,16 miliardi, circa la metà del totale dei bond subordinati che dovrebbero essere convertiti in azioni per aumentare il capitale della banca senese. La proposta di cambio volontario è stata una delusione, ha raccolto solo 98 milioni tra i piccoli e nel suo insieme è arrivata ad appena un miliardo di euro. Il rifiuto massiccio di diventare soci nasce dal timore del futuro, dalla sfiducia nella sorte della banca alla quale si erano affidati per decenni, ma anche dall’attesa di essere salvati dal Tesoro, cioè, per essere chiari, da tutti i contribuenti. Un intervento pubblico in una banca che rischia di provocare una crisi sistemica, è previsto dall’Unione europea, solo “a condizioni di mercato” coinvolgendo chi detiene azioni e obbligazioni, anche quelle subordinate se sono in mano a depositanti con più di 100 mila euro.

Il rompicapo di Padoan è bypassare questo vincolo, esattamente il punto sul quale si sono blocate le trattative già nel luglio scorso, quando poi è stata tirata in ballo JP Morgan insieme a Mediobanca per garantire un prestito ponte di 5 miliardi propedeutico all’aumento di capitale. Dopo la disastrosa sconfitta al referendum e in pieno vuoto di governo, nessuno avrà il coraggio politico di obbligare i piccoli obbligazionisti a diventare azionisti. Dunque, s’è fatta strada una parola salvifica: indennizzo. Insomma, le perdite subite dagli obbligazionisti senesi verranno pagate da tutti i contribuenti italiani. A questo punto, la scelta dei risparmiatori è stata più che logica: tenersi i loro pezzi di carta e girarli poi a Padoan o a chi sarà al suo posto. Semplice. Lo stato banchiere cacciato dalla porta venticinque anni orsono, quando s’imponeva la marcia trionfale del mercato, rientra dalla finestra e prima o poi occuperà tutte le stanze. Altro che intervento “precauzionale”. Perché a Siena sì e non anche a Genova dove la Cassa di Risparmio si trova in simili ambasce (senza contare che sta molto a cuore a Beppe Grillo che oggi ha un posto di maggio rilievo nel consiglio di Italia spa)? E le quattro banchette del Centro Italia? Adesso che Maria Elena Boschi è caduta, tutti saranno pronti a nazionalizzare Banca Etruria e a indennizzare l’indennizzabile. Paga Pantalone, la commedia dell’arte è roba nostra.

Intanto i banchieri sono la categoria sociale più odiata e meno stimata, mentre s’allunga l’elenco dei nomi eccellenti finiti nei faldoni dei tribunali: Giovanni Bazoli, Victor Messiah e altri 39 per la banca Ubi, Fabrizio Viola e Profumo oltre a Mussari e Vigna per Mps, 29 alla banca di Forlì, tre consiglieri di Banca Intesa tra i quali l’attuale presidente Gian Maria Gros Pietro, babbo Boschi e l’intero consiglio di amministrazione per Banca Etruria, e via via indagando, accusando, incriminando, una lista più folta del catalogo di Leporello. Come mai si è arrivati a questo punto? Lo abbiamo chieso a un banchiere protagonista per più di un decennio, che preferisce non dire il suo nome perché ha un ruolo nei salvataggi in corso. Prima passa in rassegna tutte le cause congiunturali (il crac finanziario del 2008, la lunga recessione che ha deteriorato i crediti, le nuove regole europee) e strutturali (il cambiamento del modello bancario, internet, la fine dello sportello e del vecchio bancario), poi conclude: “Detto tutto ciò, è chiaro che questa crisi è la conseguenza di una governance inadeguata”. Mala gestio docet. “Non solo – aggiunge – è anche frutto di una scarsa cultura, di una incapacità di analizzare il merito di credito e valutarne la qualità”. Prendiamo il caso del Monte dei Paschi che ha la percentuale più alta di prestiti deteriorati. Su circa 47 miliardi, circa tre dipendono dai grandi clienti; sette sono legati al sistema Siena che il Monte ha alimentato e foraggiato (dalla squadra di basket al Palio). E gli altri? Stiamo parlando di 37 miliardi concessi a clienti non in grado di restituirli. “Le banche – diceva Raffaele Mattioli che ha allevato Cuccia – sono collocate ai crocicchi dell’economia, ma non come briganti in agguato, bensì come i vigili che regolano il traffico”. Erano i tempi di una borghesia che aveva saputo ripescare l’Italietta dal fascismo e dalla guerra. Nostalgia, nostalgia canaglia (ci perdonino Al Bano e Romina). Roba da vecchi o da perdenti. Vero. Ma dove sono gli uomini nuovi, i vincitori, i giovani leoni?