Ascoltare i racconti dei conducenti di Uber, o di Lyft (come la macchina nella foto, a San Francisco): sono sempre piccoli apologhi del sogno americano su quattro ruote, perché nessun autista è solo u

Tech and the City

Il tassinaro di Uber

Michele Masneri

Sulle strade della California, tra Alberto Sordi e Bret Easton Ellis. Molta conversazione, guida così così

Questa non è una marchetta (purtroppo; più le società sono sharing e meno soldi hanno da spendere; neanche in buoni-sconto, cattivi). E però, vivendo da un mese esatto nel Primo mondo, mondo californiano 2.0, che ha abolito i tassì, che progetta il treno-capsula da Los Angeles a New York e presto l’auto autonoma, e intanto si muove solo con Uber, ci si è resi conto che l’autista dell’auto di piazza interconnessa, detto anche l’uberista, è un punto di riferimento, una figura imprescindibile nella vita quotidiana. I “dialoghi di Uber” sarebbe dunque una bellissima rubrica, perché è uno spaccato di mondo, una visione della vita molto americana. Naturalmente Uber è l’antonomasia, potrebbe essere anche Lyft, la sua compagnia concorrente, più piccola e in crescita (partecipata da General Motors e dal principe Al-Waleed). C’è un account uber_tales su Twitter che raccoglie le esperienze (non si sa se vere o mitomaniacali) di un uberista losangelino, e dunque sono racconti tipo: ragazzina che va a fare lo sbiancamento vaginale; passeggera che urla al telefono “solo perché sono magra non vuol dire che non abbia sentimenti!”, “ragazzo gay invitato a matrimonio etero solo perché, sostiene, sperano che porti un regalo costoso. Lui si presenta senza”, e così via, tra il “Tassinaro” di Alberto Sordi e il solito Bret Easton Ellis. Però anche noi si è preso, alla sera, a trascriverli, i racconti di Uber, con nome dell’uberista, perché sono sempre dei piccoli apologhi del sogno americano su quattro ruote. Nessun autista è solo un autista, infatti, ognuno ha un suo progetto di vita che dipende dalla latitudine. 3 Novembre, dall’aeroporto di Los Angeles a casa.

Autista, Jeff, un signore sulla sessantina, che fa sia Uber che Lyft (molti lo fanno, e hanno le loro preferenze). “Mi chiamano la Leggenda”, dice, lui è “top driver” di Lyft, ha dei punteggi bestiali (Uber, come Airbnb, si regge sulla fiducia e sulla recensione reciproca). “Vuoi un gomma da masticare? Un cavetto?” (mi dà ha una presa multipla, con doppia ricarica per iPhone e Samsung. Genio). “Preferisci news o musica?”. News. “Awesome”, fantastico. Dopo qualche minuto di silenzio, discretamente, chiede: “Wanna talk?”. Capisco perché lo chiamano la Leggenda. “Ma non è tutto, sai. Io scandisco sempre bene le parole al telefono”, dice, e infatti uno dei problemi dell’uberismo è che se chiami l’autista o ti chiama lui, perché non ti vede al punto preciso dove avete appuntamento, la chiamata passa per una specie di centralone, e senti come chiamare in Nuova Zelanda. “Io scandisco accuratamente”, dice la Leggenda. La Leggenda ha anche delle idee, naturalmente. “Ho detto a quelli di Lyft la mia idea, una app che quando prenoti la macchina il tuo iPhone comincia a emettere luce rosa lampeggiante, così ti si distingue per strada e capisco subito chi sei”. Geniale, Legend. “Non mi hanno mai risposto”. Naturalmemte la Leggenda non fa solo questo lavoro, fa il rappresentante di metalli (ne ha nel cofano, magnesio e tungsteno, dice). Dice che è bello lavorare senza un boss, ma il boss vero è sua moglie. Ha anche una app che si chiama Zello, che gracchia, ed è un walkie talkie a tutti gli effetti ma si mette sull’iPhone, per tenersi in contatto coi colleghi. Ancora a Los Angeles, uberista Ploom, sui 50, ha studiato architettura, è nato in Tailandia e vissuto a Chicago, Parigi. Viene a prendermi in quella specie di mega centro commerciale dove osano le aquile che è il Getty Center. Dice che Richard Meyer non l’ha mai convinto, siamo d’accordo che è più un architetto di ville, si capisce dalle ottime finiture signorili delle porte, degli ascensori, dei pilastrini candidi: al ritorno mi fa vedere delle ville dello stesso architetto. E’ stato in Italia molte volte, dice: ho avuto una ragazza italiana. Di dove? Non la conoscerai, una piccola città del nord, molto ricca, dice: “B-RE-S-HA-, lake Garda”. Ecco.

Lei si chiama Nadia Sinibaldi, sono ancora amici su Facebook, anzi la salutiamo. Lui ogni volta che veniva a Bresha era molto stupito perché i suoceri imbottigliavano il loro vino nel garage di casa e pensa sia un’usanza italiana. Come musica mette un misto di anni Ottanta e di opera italiana. Ma il più rappresentativo è Josh, auto una Prius argento, Josh è mulatto, fichissimo, vestito benissimo, pantaloni kaki e una camicia di jeans, dice che lui chiaramente è qui per dei provini e mi fa tutto un discorso sulle elezioni, che gli è sembrato giusto votare per Hillary, e che è giusto esercitare un diritto che non dobbiamo dare per scontato, mi parla della sua religione, si è convertito all’ebraismo, gli dico che dovrebbe fare politica perché è molto convincente, mi sparo per fare colpo la vecchia massima di Andy Warhol, “politics is show business for ugly people”, lui mi parla di ebraismo con un discorso molto colto, e poi alla fine mi dice: “Ma voi a Roma che religione avete?”, serio. A San Francisco, invece, tutto diverso, la città che ha sostituito i Suv con le biciclette a scatto fisso, ovviamente l’uberista oltre che riflessivo è anche startupparo. “Spesso ti capita che l’autista ti dia un biglietto da visita con la sua idea”, mi dice Luigi Congedo, napoletano di stanza qui a San Francisco, una rapida carriera nel venture capital (“i venture capitalist sono l’equivalente dei produttori a Los Angeles, sono il mestiere più ambito, e tanti fanno finta di esserlo”). Il giornale online Quartz consiglia proprio di mettersi a fare gli uberisti per fare networking. Racconta la storia di un signor Jason Coleman, che ora ha messo su Yarden.com, startup che si prende in gestione il tuo giardino e lo trasforma in orto, e tu decidi se mangiarti la verdura o venderla; ma questo non è importante: conta piuttosto che lo startupparo-giardiniere invece di andare ai vari pitch e hackaton consiglia di guidare almeno 40 ore la settimana, lui così facendo (con Lyft) ha messo su la sua ultima azienda perché parlando coi suoi trasportati ha conosciuto e irretito: un banchiere, un investitore, un community manager, tre disegnatori di software, due giornalisti che hanno già scritto famelici la storia (oltre a un sacco di futuri clienti).

Diventare uberista per caso è ottimo soprattutto se non hai molti contatti, e in una guerra dei talenti a caccia di attenzione minima di finanziatori, raccontare la tua startup al passeggero (che, statisticamente, ha ottime possibilità di essere uno del settore, se sta a San Francisco o è un venture capitalist o startupparo o comunque milionario, i poveri li hanno eliminati) funziona. E ci guadagni pure. In tutto questo il caro vecchio taxi giallo non è defunto, anzi: un giorno, disperati perché la app non funziona (ci si sente davvero perduti), a Los Angeles se ne prende uno, si cerca il numero di un 3570 losangelino, e pare di fare una cosa davvero vintage tipo mandare un fax, poi arriva, che emozione – tutto ha un delizioso sapore d’epoca come in un film di Wes Anderson – si scoprono anche dei vantaggi che si erano dimenticati. Il tassista – pazzesco – addirittura conosce le strade. Il tassista che ci porta all’aeroporto ci fa fare infatti una scorciatoia, “sono 25 anni che lavoro qui”, ed effettivamente evitiamo il traffico. Il giorno di Thanksgiving nel traffico che intanto tutti postano come meme e gif sui propri twitter noi siamo lì dentro, aiuto, mentre si aspetta di veder spuntare l’agente Poncharello dei Chips che qui pattugliavano anni fa. Il tassista analogico accosta un collega e chiede – a voce, senza app – se sa se c’è traffico fino al terminal 4, e noi non si perde il volo, certo pagando una cifra mostruosa (altro vantaggio vintage, invece, il séparé. Dopo tante conversazioni con gli uberisti, uno agogna il silenzio e l’anonimato, come un albergo dopo una vita in Airbnb: la sharing economy è stupenda, certo, ma devi sempre avere a che fare con la gente). Il problema con Uber e i suoi derivati, dopo un mese di utilizzo intensivo lo possiamo dire, è che infatti l’autista spesso non ha la minima idea di dove ti sta portando. Quasi sempre viene da fuori città, scorrazza trasportando clienti, e poi se ne torna nei sobborghi. “Siete pazzi a stare quaggiù con questo traffico”, mi dice Chris, stupendo vecchio signore su una Bmw serie 5 nuova, che sembra Bud Spencer con un maglioncino di cachemire azzurro, mi raccatta a West Hollywood, “non vedo l’ora di tornare nella mia Pasadena”.

Oppure: andando allo Staples Center a vedere i Lakers, si dice all’uberista se per favore può lasciarci a un’uscita invece che a un’altra, nello specifico dove c’è una scritta Standard. “Ah, hotel Standard” chiede, pronto a digitare sul suo iPhone. “No, sa, c’è una scritta, me l’hanno detto, mi aspettano”. Vuoto nel suo sguardo. Allora si dice: è un’uscita dello Staples Center. “Ah, Staples”, e ridigita, ignaro, con lo sguardo fisso. L’uberista, infatti, incarnando il sogno americano, non solo non sa veramente guidare (come del resto il parrucchiere che in realtà sta studiando per entrare a Harvard e non sa usare le forbici, o il pescivendolo hipster che non sa da che parte si pulisce il totano perché in realtà sta facendo questa cosa per mantenersi all’Actors Studio), ma questo non è importante perché neanche tanti tassisti lo sanno fare. L’uberista proprio non sa dove sta andando: e a quel punto, al cronista nativo analogico di provenienza sudeuropea vengono in mente due cose: una, che in realtà l’auto che si guida da sola, cioè senza pilota, cioè il big business a cui stanno lavorando tutti da Google a Apple a Audi a chiunque, è già qui, perché l’uberista medio oggi potrebbe essere tranquillamente un robot, neanche tanto avanzato, per girare uno sterzo e premere un pedale quando il suo iPhone glielo dice. Seconda conseguenza, che succede se salta internet? Se Putin volesse fare degli scherzi e trollare i Gps, si vedrebbero mandrie di Uber andare nella direzione sbagliata.

Con Pool – l’uberismo collettivo, il driver passa a prendere te e poi anche qualcun altro, spendi veramente poco, ci metti un po’ di più – si creano poi nuove questioni anche di etichetta: dovendo condividere uno spazio chiuso con uno o più sconosciuti, come ci si comporterà? Innanzitutto, oltre al doveroso saluto all’uberista (la cordialità è parte dell’esperienza uberistica) si dovrà salutare il passeggero? E nel caso – è capitato – di passeggero hipster con grosso alano che ti lecca le mani occupando tutto il divano, quale sarà il comportamento da tenere? Anche la condivisione della corsa: si andò a vedere i risultati elettorali in una specie di festa dell’unità, si tornò sderenati in tre, ci si sdebitò poi il giorno dopo pro quota con la signorina che aveva uberizzato anzi lyftato. Conseguenza dell’uber-poolismo, ormai sui mezzi pubblici ci vanno solo i poracci veri: la metro che porta da San Francisco in Silicon Valley ha un’utenza squisitamente homeless, con afrori che in confronto la linea A romana sembra brandizzata Diptyque. Poi, il senso di colpa; intanto, si capisce che anche la leggendaria gentilezza dell’uberista nasce dall’esigenza della buona recensione: dunque “how was your day” e frasi di appoggio identiche a quelle della cameriera al ristorante, in un sistema che punta al tip, alla mancia (ma la mancia all’uberista non si potrebbe dare, anche se gli fai portare dieci valigie, o fare praticamente il trasloco, mentre al lyftista sì). La recensione, per chi ha avuto un’infanzia bresciana cattocomunista, è tema dei più spinosi. A San Francisco, una domenica pomeriggio, arriva Jeff, ha 80 anni, su una Volkswagen Jetta nera di 20, interni color panna, lui ha il cappello, guida a dieci all’ora, e fa per tre volte il giro dell’isolato e ci mette un’ora a portarci downtown, non legge bene l’iPhone. Sembra il papà di Homer Simpson. Che fare? La nostra parte socialdemocratica europea ci imporrebbe di dargli comunque le cinque stelle; la parte neoliberista di stroncarlo. Diamo quattro stelle. La stella singola, che comporterà un richiamo, forse la revoca, forse in era trumpista l’espulsione a vita, la dà un amico un giorno che a Los Angeles facciamo una gita a Melrose e siamo tre maschi con una femmina carina che va davanti, e il conducente forse avendo accesso a role models vetusti, fa il mollicone, le dice come mai con tre maschi, le chiede come mai non ha un fidanzato, e noi dietro stiamo attenti che non parta anche di mano morta. Siamo d’accordo che se si sente troppo minacciata dirà la parola “pizza”. Non ce n’è bisogno e però l’esperienza è imbarazzante per tutti e l’amico dietro, alla fine, colui che aveva prenotato l’Uber, inflessibile, decide: una stella. Non si sa cosa sarà successo all’uberista sessista.

Invece, sempre a Los Angeles, post colonialismi con un uberista indiano: non arriva al posto giusto, ci chiama e non si capisce niente, dice d’essere in un posto ma non c’è, dopo mezzora di trattative alla fine lo si raggiunge camminando a dieci isolati, e lui: “You should be drunk!”, dice con accento da Apu (sempre Simpson), ci dà pure degli ubriachi, e al nostro vaffa dice che farà rapporto e ci farà passare pure dei guai (noi, intanto, buttiamo il politically correct e pensiamo: addavenì Trump). Del resto, ci dice un altro uberista, “è risaputo, a Los Angeles Uber funziona male”, forse ci sono troppe macchine e troppo traffico e alla fine la macchina arriva sempre all’indirizzo sbagliato, sul retro del palazzo, sulla parte sbagliata dell’incrocio, ma lui spiega –“beh, a San Francisco è facile, lì hanno inventato sia Uber sia le mappe di Google Maps”, e in effetti stare nell’epicentro di tutto forse darà dei vantaggi competitivi. Ma intanto si vedono in giro, eccole, le macchine senza conducente di Uber, con una specie di periscopio sul tetto, che esplorano le strade, lente, di notte, come sommergibili o pesci predatori preistorici; è solo questione di tempo, e anche l’uberista in carne e ossa sarà solo un ricordo lontano.

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