Wasabi (foto di Carlos Garcia via Flickr)

Wasabi, la pianta dei miracoli

Giulia Pompili

Siamo andati ad assaggiare nel suo santuario la salsa verde più costosa e ricercata del Giappone. Possiamo dirvelo: non c’entra niente col vostro sushi

"Per voi occidentali è difficile da mandare giù”. E in effetti si può essere di aperte vedute, si può aver girato il mondo e vissuto esperienze culturali anche molto lontane dalla rassicurante culla della civiltà europea. Si può aver assaggiato di tutto, nella vita, perfino il piccantissimo kimchi coreano, e pure la bomba calabrese, ma niente ha a che fare con l’esperienza fisica di chi si trovi a mangiare il wasabi. La misteriosa salsa verde che accompagna spesso i piatti della cucina giapponese è una specie di granata che esplode, con effetto ritardato di qualche secondo, nel cavo orale di chiunque non sia fisicamente adatto a mandarla giù. Già annusarlo può dar fastidio, ma inghiottirlo è anche peggio: improvvisamente la sostanza verde pervade la gola fino ai polmoni, fa spalancare gli occhi che iniziano a lacrimare copiosamente, il dolore può diventare insopportabile, implacabile. Solo nella fiction può accadere che l’attore Jean Reno (nel film del 2001 diretto da Gérard Krawczyk) si sieda in un ristorante di Tokyo e inizi a mangiare per intero un piattino di wasabi, mentre il suo commensale per poco non sviene (la scena è così epica che dà il nome al film, “Wasabi, la petite moutarde qui monte au nez”, quasi simbolo della distanza tra occidente e oriente). Nel periodo d’oro della cucina giapponese, ristoranti più o meno titolati aprono ovunque, e sushi e sashimi – tra i piatti più famosi della cultura nipponica – sono quasi sempre accompagnati dalla mostarda verde. Sul menù la chiamano wasabi, ma a parte rari casi, è sempre un’imitazione: quando va bene è un composto ottenuto da rafano, senape, coloranti. A parte il sapore (molto più aspro, meno dolce), l’impostore lo riconoscete facilmente perché nei negozi di forniture esotiche viene venduto dentro tubetti simili a quelli del dentifricio per meno di dieci euro. E invece il vero wasabi costa caro: è tra le piante più difficili del mondo da coltivare.

  

  

Azumino è una città di centomila abitanti che si apre nella valle tra le cosiddette Alpi giapponesi, le montagne Hida, nella prefettura di Nagano. Un migliaio di anni fa, una popolazione chiamata Azumi, originaria del nord del Kyushu (la terza isola più grande del Giappone, all’estremo sud) si spostò verso nord, iniziando a popolare le montagne dell’area di Nagano. Gli azumi erano gente di mare, legata alle tradizioni della costa, e non sono ancora chiari i motivi per cui finirono per stabilirsi in quella precisa area geografica, nonostante sia ancora oggi tra le più belle e spirituali di tutto il Giappone. Del resto, l’intera prefettura di Nagano ha una storia che, come spesso accade nelle vicende giapponesi, unisce la tradizione alla spiritualità e al business più moderno. A chiamare quelle montagne “Alpi giapponesi”, per esempio, fu William Gowland, ingegnere minerario e archeologo che lavorò per molti anni al servizio di Sua Maestà nel paese del Sol levante. Gowland, appassionato di alpinismo, nel 1878 fu il primo straniero a scalare il monte Yari, 3.180 metri sul livello del mare, un massiccio che si trova a sud della catena delle Hida. La passione degli occidentali per quelle montagne giapponesi esplose poi nel 1998, quando i Giochi olimpici invernali vennero ospitati dal Giappone proprio nella prefettura di Nagano. A una sessantina di chilometri a est di Azumino c’è Karuizawa, la popolare città ai piedi del monte Asama che è meta di villeggiatura per benestanti sin dall’Ottocento, il luogo in cui l’attuale coppia imperiale si incontrò e si innamorò durante una partita di tennis.

 


wasabifoto di Quinn Dombrowski via Flickr


  

Grazie al clima, alla geografia, ai segreti della coltura tramandati di generazione in generazione, Azumino oggi è la capitale del wasabi. L’azienda agricola Daio è la più famosa e la più antica del Giappone, e produce ogni anno il 10 per cento del wasabi consumato nel paese. E’ aperta tutto l’anno alle visite di curiosi e appassionati, e qui di turisti stranieri se ne vedono pochi: tantissimi, invece, sono quelli giapponesi, che vengono a passeggiare nell’incantevole scenario in cui si estendono i quindici ettari di coltivazioni. Fondata nel 1915, ancora oggi la Daio ha un solo segreto per produrre il wasabi originale: “Il segreto è l’acqua”, dice al Foglio Shigetoshi Hama, responsabile del controllo produzione della Daio, “qui scende direttamente dai ghiacciai delle Alpi: 120 mila tonnellate di acqua purissima, ogni giorno. E la pianta del wasabi cresce solo se l’acqua ha una temperatura costante di 13 gradi centigradi”. Shigetoshi Hama è un ex giornalista freelance. Ci racconta di essere tornato qui, nella valle tra le montagne più belle del Giappone, per l’amore di una donna e per l’amore per questo luogo, che in effetti ha qualcosa di magico. Un centinaio di metri oltre l’ingresso, da un ponte, è possibile vedere due corsi d’acqua dove scorrono due tipi di acque diverse, e un mulino. Non è un mulino qualsiasi: qui nel 1990 Akira Kurosawa girò l’ultimo episodio di “Dreams”, “Il villaggio dei mulini”. Ed è facilmente riconoscibile la scena del corteo funebre, con il celebre attore giapponese Chisu Ryu che balla allontanandosi sulla riva. Sull’altro lato del fiume, un po’ isolato, immerso nel rosso intenso degli aceri giapponesi d’autunno, c’è perfino un piccolo santuario scintoista. E’ dedicato ai viaggiatori e ai pellegrini, e dopo aver fatto un giro sull’acqua grazie ai gommoni messi a disposizione dall’azienda agricola per una decina di euro, ci si può raccogliere in preghiera alla maniera scinto, oltrepassando la piccola porta (torii), inchinandosi, battendo le mani e suonando la campana.

 

Appena raccolta, la Wasabia japonica si presenta come un tubero, una specie di rafano (fanno parte, in effetti, della stessa famiglia delle brassicaceae). La Wasabia japonica è il nome scientifico del sawa wasabi, l’unico originale, insomma quello vero. Dopo la raccolta, la parte chiamata rizoma, che sembra una radice ma non lo è, si apre e si passa su una grattugia. A seconda di quanto intenso si vuole il wasabi, cambierà anche la forza con cui si grattano insieme le sue venature. Ma della pianta si mangia anche il gambo, le foglie, i fiori. Come tutto nella tradizione giapponese, è una questione di equilibrio. Per crescere, una pianta di wasabi impiega da uno a tre anni, ci spiega Shigetoshi Hama. E’ un tempo lunghissimo per un’azienda agricola che ha una produzione complessiva di quattrocentomila piante l’anno. E’ anche per questo che alla Daio, ogni giorno, soltanto una ventina di agricoltori specializzati zappano, controllano, vangano alla maniera tradizionale, con strumenti perfezionati apposta per non rovinare le radici del wasabi. Tutto viene fatto a mano per tradizione (a differenza delle colture ormai intensive di riso) ma anche perché la delicatissima pianta costa, e se un raccolto va male, bisogna buttare tutto e aspettare almeno un anno e mezzo. Shigetoshi passeggia per gli ettari di coltivazione come fosse l’orticello di casa, vestito con stivali di gomma e un dress code all black, che ricorda quello del fondatore dell’azienda agricola. “Non sono un ninja”, ci dice, anche se gli strumenti che tiene addosso possono apparire piuttosto misteriosi: “Questo è un termometro, per tenere sotto controllo la temperatura dell’acqua, e questo un coltello, non mi serve nient’altro”. Fa freddo, ma è un bene, dice Shigetoshi: “La maggior parte delle colture deve essere all’ombra, troppo sole fa male al wasabi”.

 

Il carattere cinese per la parola “wasabi” si trova per la prima volta sul “Honzo Wamyo”, un’enciclopedia medica datata 918 d.C. scritta da Fukane Sukehito. In origine la pianta si chiamava “yamaaoi”, da yama, che significa montagna. Per altri la parola originale era sawaaoi, da sawa, che ricorda la sua natura di pianta che cresce attorno ai corsi d’acqua. Le leggende intorno al wasabi, in ogni caso, risalgono alla notte dei tempi in Giappone. Se ne parla nei poemi epici come l’Heike monogatari e nella tradizione buddista giapponese. Si racconta perfino di un campo di wasabi voluto intorno al suo tempio da Kukai, o Kobo-Daishi, uno dei monaci buddisti più importanti del Giappone morto nell’835. Nel periodo Asuka (550-700) la Wasabia japonica si usava anche come deodorante, e si hanno notizie delle prime coltivazioni intensive di wasabi durante il periodo Edo, grazie anche alla grande passione dello shogun Tokugawa Ieyasu per la pianta. Se alla Daio si coltiva il wasabi più genuino, per via della purezza dell’acqua che viene dai ghiacciai, e su coltivazioni a terra, l’80 per cento del fabbisogno del paese viene dalla prefettura di Shizuoka, meno di duecento chilometri più a sud di Nagano. Siamo a Utogi, vicino ai piedi del monte Fuji, e la maggior parte delle colture, qui, nacque dopo il trasferimento nella città di Shizuoka da parte di Tokugawa Ieyasu. Il wasabi in questa area si coltiva per terrazzamenti.

Shigetoshi Hama, ex giornalista, è responsabile del controllo produzione dell’azienda agricola
Daio di Azumino, nella prefettura di Nagano (foto di Giulia Pompili)

In un primo momento la pianta fu usata soprattutto come medicinale, poi come condimento in cucina. Si credeva avesse delle proprietà disinfettanti, ed è per questo che veniva accompagnata al pesce crudo come sushi e sashimi. Poi, in epoca più moderna, gli scienziati hanno iniziato a interessarsi alla tradizione del wasabi per scoprire se ci fosse qualcosa di vero nell’uso medico della pianta. Ed è curioso che le scoperte più importanti sul wasabi vengano dall’Italia. Pierangelo Geppetti, direttore del Centro per le Cefalee primarie dell’ospedale universitario Careggi e docente di Farmacologia clinica dell’università di Firenze, ha coordinato uno studio, poi pubblicato nel 2008 dalla rivista scientifica Proceedings of the national academy of sciences (Pnas), sul “recettore del wasabi”. Il prof. Geppetti si occupa di dolore, e studiare la chimica è fondamentale in questo settore: “Per esempio la capsaicina che si trova nel peperoncino stimola il canale TRPV1, ed è la responsabile di quel senso di caldo che avvertiamo quando mangiamo qualcosa di piccante. Oppure la molecola del mentolo che provoca il senso di fresco quando si mangia una caramella”, spiega Geppetti. “Il wasabi contiene una enorme quantità di isotiocianato di allile, che se adoperato costantemente attiva il canale TRPA1, che è molto importante per la trasmissione del dolore di tipo neuropatico, nell’emicrania. Il wasabi ci è stato fondamentale per capire come avvengono molti fenomeni di trasmissione del dolore. E’ così che funzionano tanti farmaci o composti erboristici, si compongono a seconda dell’azione che modula la funzione del canale”. E’ complicato, naturalmente, parlare di chimica, ma il principio in due parole è questo qui: il giusto equilibrio di wasabi in una dieta può aumentare la soglia del dolore di chi lo mangia grazie allo stimolo del canale TRPA1: “E’ chiaro che anche mangiando molto wasabi non si potrà mai raggiungere il livello di un antidolorifico, e troppa salsa verde sul pesce dà un effetto sgradevole al corpo, ma è importante sapere che il wasabi, come pure il peperoncino, è del tutto metabolizzato dal fegato”. Quindi la sensazione di dolore che pervade gola e occhi lacrimanti è una specie di scherzo neurologico, non c’è nulla di dannoso. Il wasabi è un po’ come il Tanacetum parthenium, il partenolide che i greci usavano contro il mal di testa e che in minima parte stimola lo stesso canale e funziona come un bloccante antagonista: “Molte piante stimolano lo stesso canale del wasabi: la cinnamaldeide della cannella, l’allicina dell’aglio”, dice Geppetti, ma solo il Wasabi japonica ha quella concentrazione di principio attivo così alta. Per Geppetti “non si può disconoscere la medicina tradizionale, bisogna studiarla con attenzione, e trovare in essa i veri contenuti scientifici. Ma soprattutto evitare di cadere nell’effetto placebo, una cosa molto facile nella terapia del dolore”.

 



Wasabi fresco al mercato di Tsukiji (foto di hfordsa via Flickr)


 

All’azienda agricola Daio, dopo aver passato un ponticello e prima di avviarsi verso l’uscita, si passa per un’area ben più commerciale, dove tre pezzi appena raccolti vengono venduti a mille yen, poco più di otto euro. Qui il wasabi si usa per vendere qualunque cosa: c’è un banchetto per assaggiare il gelato a base di tè e salsina verde, c’è il banchetto con i noodle al wasabi, la birra al wasabi, le crocchette al wasabi, nel negozio si vende un misto di spezie e sostanze aromatiche a base di wasabi la cui ricetta è stata inventata proprio qui. E poi gadget, pupazzetti, tubetti portachiavi. Tutto a base di wasabi. L’importante è che sia quello vero.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.