Mika, il cantante benedetto

Marianna Rizzini

Ritratto del pifferaio magico che ipnotizza bambini e adulti con le sue melodie, conduce il “nuovo varietà”, dice la cosa giusta al momento buono e giusto. E scala gli ascolti televisivi

“Provo a essere come Grace Kelly / ma tutti i suoi sguardi erano troppo tristi / quindi provo a essere un po’ come Freddie / la mia identità è impazzita…” (“Grace Kelly”, Mika, 2007)

 

C’era una volta il Pifferaio magico, quello della fiaba nera che non piace ai bambini: ragazzo segaligno che spunta dal libro di storie della buonanotte, apparentemente innocuo fino a quando non si capisce l’antifona. Ma a quel punto è troppo tardi per non andare avanti a leggere la storia del musicista che con il suono del flauto allontana i ratti che impensieriscono il borgomastro (alle prese con problemi da Roma 2016, pantegane e monnezza) e che però, non ascoltato, si porta via anche tutti i bambini, ipnotizzandoli con le sue melodie e facendoli scomparire verso il nulla, oltre le porte della città. Ma oggi, di fronte agli ascolti televisivi milionari di “Stasera casa Mika”, trasmissione condotta in prima serata su Rai 2 dal cantante anglo-libanese Michael Penniman (il Mika della casa), trentatreenne poliglotta vissuto tra Beirut, Parigi, Londra e l’Italia, già star del pop, già autore di dischi di platino, già giudice dal volto umano di “X Factor”, è come se la leggenda del Pifferaio vivesse un suo momento di gloria e stravolgimento in positivo: ovunque ti volti c’è il Mika che piace ai bambini e agli adulti democratici e riflessivi. Mika intervistato, Mika lodato, Mika che dice la cosa giusta al momento buono e giusto (matrimoni gay, disoccupazione, perdita delle speranze giovanili, guerre, Dario Fo, Donald Trump). Mika che fa cose in linea con il suo romanzo di formazione apolide e va con l’Onu nei campi profughi siriani in Libano, e poi canta e balla canzoni colorate e di zucchero filato, ma anche malinconiche e crudeli e pur sempre edificanti (“Big girl, you are beautiful” ha consolato schiere di ragazzine in sovrappeso come mai ha potuto fare “La donna cannone” di Francesco De Gregori). E però intanto Mika mostra anche un lato dolente di ex studente incompreso dalla professoressa megera, ragazzo perduto che si riscatta con la musica e grazie alla famiglia, e nonostante la dislessia aggravata dal trauma scolastico. E quel Mika redento va avanti, diventa famoso, macina classifiche, famoso in Sudamerica come una Laura Pausini senza retaggi da profonda Emilia rossa, e mette giacche floreali con farfalle appuntate, e non sbaglia un colore e un ritmo, anche quando la ballata si fa triste. “Se non fosse un cantante sarebbe un conduttore”, dicevano anni fa: eccolo.

 


Mika per la sua nuova trasmissione Stasera CasaMika, in onda su Rai 2 (foto LaPresse)


 

Amico di tutti, ma non insincero, diceva di se stesso Mika nelle interviste, quando, ai tempi di “X Factor”, si soffermava sulla necessità di dire sempre dritta in faccia la verità ai ragazzini che volevano sfondare nello spettacolo, uno dei mondi più brutti che esistano, diceva il Mika Pifferaio-salvatore, un mondo brutto “come quello della politica”. E nella mente dell’ascoltatore si produceva l’effetto magico: sentirsi dire, senza alcuna discesa negli inferi del populismo, quello che pensano gli indignati moderati, miti, ragionevoli, quelli che non urlerebbero mai in piazza che i politici e i manager sono un “potere forte”, come farebbe Beppe Grillo, ma che comunque guardano a politici e manager come ai figuranti di un Eldorado malato, disfunzionale, e si sentono protetti quando a dirlo è uno che è dentro al sistema ma anche no. Tanto per cominciare perché fa tutto in famiglia, con la madre un po’ manager un po’ stylist, la sorella illustratrice e la carovana di parenti che arrivano da ogni dove, tutti sul minivan come in “Little Miss Sunshine”, il film che raccontava l’odissea americana della piccola Olive e del suo pazzo nonno, con contorno di madri e padri altrettanto pazzi, verso la partecipazione dissacrante a un concorso di bellezza per bambine.

Fan di Dario Fo, ma anche epigono di Freddie Mercury. Istituzionale sui “diritti” come un presidente della Camera

 

 

Tiene accuratamente lontana da sé la politica, Mika, anche se spesso parla come un presidente della Camera in carica: rifugiati, diritti, ingiustizie sociali. Non a caso piace al cantante ecumenico Jovanotti (e viceversa), e non a caso Maurizio Crozza, anni fa, diceva che Matteo Renzi puntava a diventare “non come Obama, ma come Mika” – che intanto, da neo-conduttore, ha raggiunto il 14 per cento di share la sera della prima puntata e oltre il 10 la seconda. Sono ascoltatori e non elettori, ma la battuta ogni tanto gliela fanno: “Eh, se ti candidassi!”, e lui dice per carità neanche per idea, e si schermisce come solo può farlo chi ha già vinto, a livello di popolarità, molto più di una poltrona. E infatti Mika presenta il suo programma con il vezzo di chi non vuole andare oltre il palco, e però c’è già andato: “… Che cos’hanno gli italiani da imparare sul loro paese e su loro stessi?”, dice, “… non lo so, io non ho questa voglia pedagogica. Non voglio insegnare le cose alla gente. Non mi interessa per niente. Io guardo l’Italia, interagisco con la cultura italiana anche parlando di cose serie, senza cercare di spiegare o giustificare, solo raccontando attraverso i miei occhi e la mia cultura”.

 



 

Qual è il segreto di Mika?, si domandano semiologi, critici musicali e critici televisivi, di fronte al fenomeno della pop star che piace a chi ascolta playlist rasserenanti da inizio vacanza estiva ma anche al pubblico di Fabio Fazio (che a “Che tempo che fa”, nel 2015, faceva parlare Mika di che cosa voglia dire cambiare vita nel giro di tre anni, e un Mika dubbioso era spuntato dal Mika di successo seduto sulla poltroncina. “A un certo punto del cammino mi sono sentito perso, isolato, ossessionato dal lavoro”, diceva il cantante, intento a proteggere se stesso, chiuso al mondo. E allora, dopo gli anni rutilanti del boom, per riprendersi e festeggiare i trent’anni, Mika aveva organizzato un viaggio in Italia per tutta la famiglia: il fratello, le tre sorelle, la nonna, le zie, le infermiere della nonna, e poi ovviamente il suo compagno (Mika non è d’accordo con chi critica “l’imborghesimento gay”) e la mamma-manager che un giorno, alla tv francese, seduta accanto a Mika, aveva raccontato di quanto il figlio le fosse sembrato “artista” nell’animo a pochissimi anni di età, quando si divertiva a spostare e rispostare suppellettili, e lei si ritrovava ogni sera una casa diversa. E il Mika del salotto di Fazio appariva in perfetta continuità con quello che a Radio Dimensione Suono diceva di voler “raccontare storie di vita vera”, e di voler fare come Serge Gainsbourg: mischiare “lo scuro con la luce” e “lo zucchero con il salato”, e coccolare l’idea di finire in uno strano “Inferno” creativo (“il Paradiso è già qui”, è il mantra di Mika), dove incontrare tutte le grandi menti della letteratura e della storia, da George Orwell a Gengis Khan. E però non è un Inferno maledetto, quello di Mika, che del cantante maledetto non ha nulla, neanche nel suo video meno festoso e neanche mentre canta “Billy Brown”, epopea triste dell’uomo ordinario che, dopo aver sposato la donna dello schermo e fatto due figli, scopre di essere omosessuale ma non riesce a reggere la pressione.

 

La grande famiglia alla “Little Miss Sunshine”, la madre manager, la professoressa megera, la scoperta della musica

Mika è comunque e sempre “cantante benedetto”, nel senso dell’aderenza a un immaginario di “impegno” non rivoluzionario ma costante, un impegno che può avere come compagni ideali (su Twitter) Jovanotti ma anche Fedez, che con il cantante-conduttore ha composto “Beautiful disaster”, con strofe-ossimoro di rabbia e consolazione: “… Me lo ripeto in testa giusto per non dormire / Resta sveglio perché il meglio deve ancora svanire / per poi sognare un altro modo per potersi rialzare / Come la pioggia che cade senza mai farsi male / Da dove siete usciti dice una voce incerta / Non lo so ma siamo entrati da una ferita aperta / Le cicatrici dicono di starcene fra i deboli / Parliamo col linguaggio dei segni indelebili…”. D’altronde Mika la sua cicatrice la racconta tutte le volte che parla di come ha deciso di abbracciare la musica. Erano i primi anni Novanta, la famiglia già da un lustro era scappata da Beirut per riparare in Francia, e il piccolo Michael Penniman, lungi dall’immaginare un futuro da popstar, affrontava il suddetto trauma da prof. cattiva. L’incontro con la più terribile delle insegnanti che aveva fatto scattare nei suoi genitori l’istinto da madre e padre “non-tigre”: basta, togliamolo dalla scuola per un anno, non è lui a non essere adatto a questo ambiente, è l’ambiente che lo inchioda a un se stesso bloccato, tanto che non parla e non legge più (Mika ha più volte detto che la sua dislessia è peggiorata dopo le angherie scolastiche). Cominciava così l’altro viaggio: giornate liberatorie ma pesanti, tra il parco e lo studio matto e disperatissimo di spartiti, ritmi, intonazione, respirazione e melodia, sotto la guida di una cantante lirica esigente ma capace di estrarre il meglio dal ragazzino ancora troppo scosso per credere in se stesso. E siccome quell’anno maieutico portò dritto alla Royal Albert Hall, e a un lavoro retribuito nonostante la giovane età, Michael detto Mika cominciò a pensare che la sua scuola fosse il palcoscenico. Seguirono anni di lirica e composizione compulsiva di canzoni non ancora lanciabili sul mercato, poi evolutesi nei brani di successo che segnano il passaggio all’identità di Mika “cittadino del mondo e musicista” che con la madre manager “litiga molto” e con la sorella illustratrice “discute parecchio”, perché il Mika-buono, dice Mika, diventa perfezionista e poco simpatico, anche se nessuno potrebbe mai immaginarlo, dopo averlo visto in azione, a “X Factor”, come giudice paterno e ilare, lontano abissi dagli incupimenti bisbetici alla Morgan.

 



  

Sempre edificante come in “Big girl”, la canzone che consola ragazzine in sovrappeso come mai poté farlo “La donna cannone”

“La trasmissione di Mika è il nuovo varietà, commistione di antica e nuova tv”, hanno scritto i fan del cantante in veste di conduttore, forse vedendo, in nuce, la suddetta anima nazional-popolare da “buono&giusto”, tenuta in seconda fila eppure incapace di restarci. Capita infatti che un Mika improvvisamente istituzionale parli di quando ha cantato “in paesi dove era vietato portare certi temi… ma la musica arriva al cuore di tutti, è un messaggio universale” o si faccia incarnazione dello spirito del tempo (sullo sfondo della legge Cirinnà), come nell’intervista a Vanity Fair di qualche mese fa: “Non sono d’accordo con chi sostiene che ormai solo i gay vogliono sposarsi”, è stata la dichiarazione di intenti. “E’ molto pericoloso denigrare la normalità”, diceva Mika, “non stiamo parlando di diventare tutti uguali, stiamo parlando di garantire la libertà di scelta, di proteggere le persone dalle discriminazioni, di dare a tutti gli stessi strumenti per poter riuscire nella vita”. E se una volta “la comunità gay era più creativa perché emarginata”, bisogna “ricordarsi che l’obiettivo di tutte quelle espressioni artistiche, musicali, letterarie era arrivare all’uguaglianza. Non si è lottato per la normalità, ma per gli stessi diritti. Ci sono posti nel mondo dove uomini e donne vengono linciati, persino uccisi, perché omosessuali. Dire che la normalizzazione dell’omosessualità ha reso i gay meno creativi sarebbe come dire che la lotta per l’eguaglianza fra i sessi ha reso le donne meno interessanti”. Altro scenario (festival di Giffoni 2016), ed ecco che il Mika istuzionale esprimeva preoccupazione per le elezioni americane: “Trump?… Bruttissima figura… inizialmente faceva ridere, adesso non più. Io sono dalla parte di chi gli ha vietato di utilizzare le proprie canzoni per supportare i suoi discorsi…”. Né, in giorni di Brexit, il cantante tardava a twittare il suo disappunto: “Orgoglioso di essere in Europa anche se il mio paese la sta lasciando”.

  



 

E il segreto di Mika, allora, sembra comporsi dei tasselli di correttezza politica e trasgressione tenute nella cornice dell’estrosità apolide e della grande famiglia per cui Mika volentieri cucina, anche sotto gli occhi dei documentaristi francesi che quest’inverno hanno girato il lungo reportage “Les mondes de Mika” (e nella “Masterchef” casalinga il cantante si mostra ai fornelli o accanto a pareti dipinte come quadri di Gauguin). Ed è sempre lui quello che dice ai giovani aspiranti cantanti che “il futuro non va vissuto con angoscia” e che “bisogna dare valore a quel che è presente: cadere e fallire non deve essere una paura, bisogna temere l’essere mediocri”. E il filo rosso da “cantante benedetto” non si spezza: fan di Dario Fo, ma anche aspirante epigono di Freddie Mercury.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.