I locali in cui si iniziò a bere il caffè servirono come un foro secolarizzato in cui avvenivano conversazioni tra cittadini di ogni estrazione sociale

Ma innovare stanca

Marco Valerio Lo Prete

Dal caffè agli Ogm: sei secoli di resistenza alle novità tecnologiche spiegati dal professor Juma

Il 21 giugno del 1511, dopo un incontro a porte chiuse con gli ulema della Mecca e un paio di scienziati persiani, il governatore Kha’ir Beg al-Mi’Mar decise che c’erano tutte le ragioni di questo mondo per mettere al bando una pericolosa sostanza che da secoli era utilizzata in Etiopia e che solo di recente i commercianti sufi dello Yemen avevano pensato di mettere in circolazione: il caffè. La qahwa, come era chiamata allora la bevanda, fu proibita, mentre i semi da cui era tratta rimasero legali: i luoghi pubblici in cui si beveva vennero chiusi, i semi macinati furono bruciati in mezzo alla strada, i bevitori picchiati dalle forze dell’ordine. Due anni dopo, però, il governatore Kha’ir Beg al-Mi’Mar fu deposto per qualche problemino di corruzione e allora il sultano del Cairo, cui il governatore della Mecca era formalmente sottoposto, decise di riammettere la bevanda nera: non lo convinceva la condanna religiosa della marqaha, cioè del senso di euforia generato dal caffè, non foss’altro perché lui ne era un avido consumatore. Iniziò così la travagliata diffusione del caffè: dall’Africa al medio oriente per poi arrivare in Europa. Portato per la prima volta a Costantinopoli nel 1555 da due commercianti siriani, divenne popolarissimo già nel 1570 visto che nell’Impero ottomano si contavano allora circa 600 locali dove era possibile consumarlo, poi però fu messo di nuovo al bando prima della fine del secolo perché una setta islamica ortodossa aveva rilevato un’eccessiva somiglianza tra i semi da cui tutto nasceva e i carboni spenti, e aveva ricordato alle autorità politiche che tutto ciò che era carbonizzato, secondo Maometto, non poteva essere consumato dall’essere umano.

 

 

Intervista con lo studioso americano di Harvard che ha appena scritto “L’innovazione e i suoi nemici”

Calestous Juma, professore di Pratica dello Sviluppo internazionale all’Università di Harvard, non è il primo a studiare le alterne fortune della caffeina, ma sicuramente il più convinto a voler inquadrare le vicende della bevanda come quelle di “una delle più antiche innovazioni trasformative del pianeta”. Il Foglio ha incontrato Juma nelle scorse settimane, nel celebre ateneo dell’Ivy League a Boston, e ha parlato con lui del suo ultimo libro pubblicato per Oxford University Press: “Innovation and Its Enemies. Why People Resist New Technologies”. Nel quale l’autore ha osservato tra le altre cose che nel mondo islamico – e non soltanto lì – le misure proibizioniste nei confronti del caffè “erano stabilite tendenzialmente dopo l’arrivo al potere di un nuovo governante, e servivano a raggiungere un evidente obiettivo ideologico: la rivendicazione dell’autorità morale e divina di un leader attraverso l’esibizione del fervore religioso”. Oltre a ciò, il consumo del caffè creò un indotto economico che si dovette ingegnare per ottimizzare la produzione e che finì per fare concorrenza ad altre bevande solitamente associate allo svago. Infine, secondo Juma, “la proibizione rispondeva anche ad altre esigenze, come quella di reprimere sfide potenziali all’ordine sociale costituito. I locali in cui si iniziò a bere il caffè servirono infatti come un foro secolarizzato in cui avvenivano conversazioni tra cittadini di ogni estrazione sociale, e in questo senso il caffè costituì una innovazione culturale. Prima esistevano soltanto le bettole dove si beveva alcol, che non avevano una gran reputazione, i bagni riservati alle classi più agiate e le moschee nelle quali gli scambi di opinioni potevano avvenire giusto immediatamente prima o immediatamente dopo la preghiera”. Con il caffè, si cambia. Honoré de Balzac scrisse non a caso che “quando il caffè giunge nello stomaco le idee avanzano come battaglioni di un grande esercito, i ricordi arrivano a passo di carica, i pensieri geniali e subitanei si precipitano nella mischia come tiratori scelti”. Così si spiegano gli oltre due secoli di chiusure e messe al bando. Nel 1600 si assiste a una svolta, quando Papa Clemente VIII, a sorpresa, dice che la bevanda di Satana è così deliziosa che sarebbe un peccato lasciarla ai soli “infedeli”: “Aggireremo Satana battezzando questa bevanda e rendendola davvero cristiana”. Non fu la fine di ogni opposizione, ma quasi.

 


Calestous Juma (foto via harvard.edu)
Calestous Juma (foto via harvard.edu)

Da tutto ciò si evince, secondo Juma, che le forme di rifiuto di ogni innovazione tecnologica possono nascere e radicarsi non appena si scoprono “le più ampie implicazioni che qualcosa di nuovo ha per la società”. Si scopre pure che la demonizzazione di un’innovazione può essere motivata pubblicamente in un modo (attraverso la religione, nel caso del caffè) ma poi spiegata effettivamente in un altro modo (il timore della concorrenza economica e dell’instabilità politico-sociale che il caffè poteva favorire). Ecco perché, secondo il professore di Harvard, occorre analizzare anche “i fattori non economici” nel momento in cui si studiano “le controversie pubbliche sulle nuove tecnologie e sul senso di incertezza che esse possono generare rispetto all’ordine sociale e culturale costituito”.

L’ostilità verso il caffè, tra predicatori fondamentalisti, concorrenza spiazzata e paura dei locali “anti pace sociale”

Juma, che in questi giorni si è appena visto assegnare il premio annuale Breakthrough Paradigm Award per i suoi studi sulla comprensione del futuro, non nasconde di ispirarsi alle intuizioni di Joseph Schumpeter a proposito dell’impatto che libero mercato e innovazione hanno sulla società. L’italiano Sergio Ricossa, parlando dell’economista vissuto tra il 1883 e il 1950, scrisse che egli aveva ricordato che “l’incivilimento ha i suoi eroi e le sue vittime innocenti”. Infatti nella celebre formula della “distruzione creatrice”, coniata dallo studioso austriaco-americano, c’è più di una espressione geniale e ad effetto. Nel suo “Teoria dello sviluppo economico” (1912), Schumpeter si soffermò sul “dolore generato dalla perdita” che segue al superamento di tecniche o attività obsolete e che funge in qualche modo da “incentivo all’attività”; “ma quelle persone che sono coinvolte in prima persona nel dramma, così come quelli che gli sono vicini, hanno un diverso punto di vista – scriveva – Essi non possono tapparsi le orecchie di fronte alle urla di coloro che stanno per essere schiacciati nel momento in cui le ruote di una nuova èra gli passano sopra”. Per non dire delle riflessioni più mature in cui Schumpeter immaginava, di lì a breve, che un’opposizione all’incedere del libero mercato potesse svilupparsi anche a partire dalle élite più fortunate. “Tuttavia Schumpeter riteneva essenzialmente che la resistenza a ogni forma di innovazione fosse più forte nelle società meno sviluppate – dice Juma al Foglio – Egli pensava che le società che vivono più vicine alla ‘soglia della sopravvivenza’ tendono a essere investite dagli effetti negativi di un’innovazione e dunque più probabilmente si opporranno. Anche un’innovazione modesta, in comunità di questo tipo, potrebbe generare benefici enormi per i primi che ci arrivano, generando invece forme di ansia sociale in tutti gli altri”. Juma a questo proposito cita l’esempio della Rivoluzione verde nel settore agricolo degli anni 50 e 60, diffusamente ostacolata in un primo momento proprio nelle aree che più ne avrebbero beneficiato, come l’America latina o l’Asia, oppure il caso degli Organismi geneticamente modificati oggi. Continua il professore: “Il fatto fondamentale, cioè che tale resistenza all’innovazione è motivata dalla paura di una potenziale perdita, si applica a tutti i livelli della società. L’opposizione al caffè nell’Impero ottomano, ma poi in Francia, in Germania e in Svezia, era guidata dalle classi agiate e condotta dagli stessi leader politici apicali di quei paesi. E questo perché da una parte le conseguenze economiche della diffusione della nuova bevanda sarebbero state sostenute da coloro che facevano affari in settori affermati e concorrenti, dall’altra perché i legami tra le società private nel ruolo di incumbent e il potere politico timoroso delle conseguenze sociali possono rafforzare le forme di resistenza all’innovazione. Qualcosa di simile a quanto successe secoli fa in Europa con il caffè si è ripetuto con la margarina negli Stati Uniti del Ventesimo secolo. Quindi l’idea che mi sono fatto è che la resistenza all’innovazione non sia appannaggio delle società meno sviluppate: l’opposizione è influenzata dalla percezione delle potenziali perdite cui ciascuno di noi va incontro e non dal livello dello sviluppo economico raggiunto”.

A conferma di ciò, Juma riflette sul trattamento riservato agli Organismi geneticamente modificati (Ogm) negli stessi paesi sviluppati. La propaganda anti Ogm è agguerrita, oramai assume toni fideistici e perfino coreografie semi religiose. Il Wall Street Journal qualche settimana fa ha intervistato Billy Talen, un guru che celebra messe laiche anti Ogm, chiedendogli di commentare la probabile acquisizione della società americana di biotecnologie Monsanto da parte del colosso tedesco del settore farmaceutico Bayer. Talen, autore di canzoni dai titoli sobri come “Monsanto è il diavolo”, con annesso seguito di fedeli anti Ogm, ha fatto capire di essere preoccupato dal cambiamento del suo soggetto preferito. Come si chiamerà infatti la nuova società frutto della fusione? Sarà ancora possibile ribattezzarla “MonSatana”? Nel dubbio, il simil-santone ha già composto un altro brano, intitolato “The Merger Song”, “La canzone della fusione”, con rime del tipo: “Are we planting aspirin this spring?/ What does Monsanto-Bayer bring?”. Se ampi settori della società civile cadono vittime di forme d’isteria simili, sostiene Juma, ciò lo si deve anche al fatto che “l’incertezza ha fatto da cornice al dibattito sugli Ogm, amplificando i rischi futuri dei raccolti geneticamente modificati. Le stesse regolamentazioni, in fondo, sono basate sulla probabilità di un danno che gli Ogm avrebbero potuto causare, non sulle prove di un qualche danno. La ‘possibilità’ di un danno, nel tempo, è diventata nel discorso pubblico la ‘probabilità’ di un danno che gli Ogm possono arrecare”. Lo studioso di Harvard, ricostruendo le origini della diffidenza europea verso le biotecnologie applicate all’agricoltura, ricorda per esempio il ruolo preminente che ha sempre avuto la chimica da questa parte dell’Atlantico, con un sistema di produzione formatosi per la maggior parte attorno all’utilizzo di pesticidi. L’Unione europea, poi, con la sua generosa Politica agricola comune, non ha fatto altro che cristallizzare tale assetto produttivo anche da un punto di vista politico. La minaccia della concorrenza esercitata dai prodotti agricoli statunitensi nel momento in cui il libero mercato rinasceva nei paesi dell’Europa centro orientale fece il resto nel rafforzare un certo pregiudizio. Oggi Juma, se possibile, è diventato ancora più pessimista: “Ormai il contrasto di fondo tra Stati Uniti ed Europa in questo campo è più mitologico che altro”. Nel senso che una certa opposizione di carattere spesso irrazionale è cresciuta pure in America. Il caso italiano, comunque, continua a spiccare anche agli occhi di Juma, considerato che nel nostro paese perfino la ricerca pubblica sugli Ogm, quella che teoricamente servirebbe a valutarne pro o contro, è proibita: “Una volta che certi rigidi atteggiamenti nei confronti di alcune tecnologie si sono consolidati, è difficile mutarli. Servono generazioni, dunque penso che passerà del tempo prima che gli italiani accettino le tecnologie genetiche o l’energia nucleare – dice il professore di Harvard – Le tecnologie dovrebbero subìre cambiamenti radicali per tenere conto delle principali fonti di preoccupazione. Dovrebbero fornire pure benefici più immediatamente visibili delle alternative concorrenti. E’ in questo modo che la refrigerazione meccanica, alla lunga, ha conquistato il pubblico e superato la diffidenza iniziale dovuta ai pericoli di incendio legati ai frigoriferi. In maniera simile, la margarina è divenuta sempre più popolare grazie alle migliorie apportate al prodotto e ai prezzi bassi. Credo che nuove tecniche come l’editing del genoma potranno fornire al grande pubblico delle opportunità per ripensare la propria opposizione di un tempo. Pur ricordando – osserva ironico Juma – che qualsiasi tecnologia che sembrerà mettere in pericolo i sussidi ottenuti attraverso la Politica agricola comune continuerà a essere osteggiata sempre e comunque”.

La necessità di una “innovazione inclusiva” per spiazzare i demagoghi che spacciano falso pessimismo

Quali saranno i prossimi bastioni della resistenza all’innovazione nel pianeta? Il professore di Harvard non manca di citare gli attuali atteggiamenti di chiusura nel mondo islamico: “Il mio punto di vista, però, è che i leader della regione abbiano capito i contraccolpi negativi di tale chiusura e stiano iniziando a incoraggiare la ricerca scientifica. Certo, lo fanno contrapponendosi a molti leader religiosi conservatori che temono di vedere erodersi il proprio potere. In fondo, siamo alla riproposizione di quanto accaduto ai tempi dell’Impero Ottomano: in quella fase, possiamo contare ben quattro secoli di strenua opposizione alla possibilità di stampare il Corano. Soltanto quando la maggior parte dei leader si rese conto che non aveva necessariamente bisogno del vecchio sistema per mantenere la propria influenza sulla società, allora la stampa del testo sacro fu consentita. Penso che lo stesso riaccadrà di nuovo in medio oriente”. Secondo Juma, sistemi istituzionali e sociali non al passo del rapido sviluppo scientifico e tecnologico tendono a creare “forme di diseguaglianza” non sempre misurate dal solo reddito, oltre che “una sensazione di privazione” in alcune fasce della popolazione. Anche così si spiega una strisciante attitudine pessimista che percorre tanta parte del pianeta e che, ragiona il professore, è in contrasto con lo stato tutt’altro che catastrofico del mondo: reddito medio in aumento, vita media che si allunga, numero di poveri in calo, sicurezza che cresce, eccetera. “Ma senza accorgimenti per una ‘innovazione inclusiva’ da parte dei sistemi politici e innanzitutto dei loro leader – conclude Juma – crescerà il numero di opportunisti e demagoghi che cercheranno di aumentare il proprio potere facendosi scudo di questa vulgata pessimista”.

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