Emmanuel Macron (foto LaPresse)

Fatti, commenti, appuntamenti del giorno presi dal taccuino di Mario Sechi

Parigi, Italia: Macron unisce, Renzi divide

Mario Sechi

Il voto in Francia è il passaggio chiave di questa stagione della politica sul Vecchio Continente, e sull'Italia in particolare

 

San Nicola di Flüe.

 

I sinistrati. I sondaggi sono quello che sono: dicevano che la Brexit era impossibile; assicuravano che Trump non sarebbe arrivato neppure alla nomination alle primarie dei repubblicani; davano Geert Wilders in testa in Olanda e via così, da un epic fail all’altro. Il titolare di List non li prende mai per buoni da un paio d’anni, i sondaggi, ma nello stesso tempo vanno letti, pesati, confrontati con altre tendenze e fenomeni e rumors sociali. Il sondaggio di Ipsos pubblicato oggi dal Corriere della Sera sullo scenario politico non sfugge questo metodo di analisi. Il primo dato chiave è il crollo del Partito democratico: dal 30,1 per cento del 16 febbraio al 26,8 del 17 marzo. E’ possibile? Sì, il Pd è un partito entrato in una spirale di crisi e per ora non si vede una via d’uscita perché il suo dramma esistenziale è quello del suo unico leader possibile e impossibile, Renzi. Non c’è solo un effetto della scissione, dell’inchiesta Consip e del voto al Senato su Minzolini. C’è altro. Cosa? I lettori di List conoscono il punto, ma è bene ribadirlo: il Pd oggi è una forza incapace di allargarsi e aggregare. Allargarsi significa conquistare il cuore e la mente di nuovi elettori; aggregare significa essere federatore, costruttore di alleanze. Il Pd renziano dopo la scissione appare una formazione disposta come una testuggine romana che porta lo stemma araldico di una contrada toscana, è in difesa, diffida della diversità – e dell’autonomia di pensiero – tratta “lo straniero” come un soggetto ostile. E’ un paradosso che sia proprio Renzi a farlo, accusato di essere egli stesso uno “straniero” nel Pd. A questa chiusura di clan si aggiunge la confusione sul con chi fare le alleanze: nel Pd sono ancora fermi al dilemma se costruire un centro-sinistra con il centro, con il trattino o senza trattino e senza il centro. Siamo al sinistra-sinistra in pieno sbandamento e contro-senso: agevolata la scissione, si cerca consenso dove si è usata la falce e contemporaneamente si mantiene ambiguamente una relazione con un centro talmente pulviscolare da avere la faccia di Alfano come leader. Francesco Cossiga li avrebbe fulminati per sempre con una delle sue taglienti cossigherie. Ma siamo su un altro pianeta. Gli elettori percepiscono che non c’è nessuna discontinuità tra il Renzi di prima e dopo il referendum e quella partita dunque per loro resta aperta. Chi ha votato contro Renzi il 5 dicembre, lo farà ancora più convinto. Chi lo ha appoggiato sperando in un progetto riformista, dopo aver visto il governo Gentiloni capitolare – su ordine di Renzi - davanti alla Cgil e cancellare i voucher, non lo farà più.

 

I grilli. L’altro dato di sistema, sempre più consolidato, è il primato dei Cinque stelle. Il partito di Grillo cresce ancora e secondo Ipsos oggi ha 5 punti di vantaggio (32,3 per cento) sul Pd. Sono tanti, ma anche qui siamo nel campo del possibile. Perché? Il punto chiave è noto ai lettori di List: il Movimento 5 stelle è impermeabile agli scandali grandi e piccoli che lo hanno colpito, Roma è una barzelletta amministrativa, ma i suoi peccati sono considerati veniali, le sue contraddizioni superabili – e superate – proprio grazie al suo totalitarismo online e offline, l’arruolamento delle truppe digitali è la risposta funzionale alle difficoltà crescenti del sistema democratico. Decide la rete. Decide Grillo. Ma qualcuno decide, l’intendenza segue e il popolo approva fino a diventare cavalleria corazzata dell’iniziativa politica online. I Cinque stelle sono una risposta – giusta o sbagliata – allo smarrimento dell’uomo contemporaneo, l’irrazionale trova un suo scopo finale, un punto di caduta e ascesa nel progetto politico di Grillo. Il titolare di List consiglia vivamente di guardare lo spettacolo del comico genovese per vedere il procedimento di fusione tra il performer (e capo del partito) e il suo pubblico, l’apice di questa totale assimilazione arriva quando Grillo fa mangiare un grillo a uno spettatore. Il corpo di Grillo. Amen.

 

I destri. Il centrodestra è potenzialmente maggioranza, ma diviso non va da nessuna parte e anche in questo campo si presenta il problema di Renzi: la capacità di aggregare. Berlusconi fu il grande federatore dei moderati degli anni Novanta e proseguì questa sua azione fino a quando nella Lega la leadership fu di Umberto Bossi. Il Senatur era solo in apparenza un ruspante uomo delle valli, in realtà era un politico fine, dotato un enorme intuito (individuò la questione settentrionale e il problema socio-economico dell’esclusione del ceto produttivo del nord dai centri di potere), il suo pragmatismo trovava un punto di equilibrio con l’ideologia brianzola del self made man, Berlusconi. Quel mondo è finito. Matteo Salvini è un altro tipo di animale politico: è giovane, non ha fretta e necessità di andare al governo, può concedersi il lusso di attendere, ha numeri che ne consolidano il potere interno perché c’è disponibilità di candidature e seggi per il domani, ha un paio di presidenti di Regione che governano bene (dentro e non fuori dall’Euro), un consigliere politico – Giancarlo Giorgetti – lucido e dotato di un salutare low profile, una base di elettori giovani sconosciuta agli altri partiti tradizionali, un rapporto solido con Giorgia Meloni che copre lo spazio politico della destra nazionale. A Berlusconi per vincere le elezioni non può bastare contenere questa energia, deve ricondurla a un progetto unitario che per il momento non c’è e difficilmente può passare solo attraverso la cessione della premiership. Il centrodestra è oggi un problema di leadership.

 

Quota 40. In questo scenario, la quota iperspaziale del 40 per cento sembra preclusa a qualsiasi partito. Sembra. Perché se la crisi del Pd proseguirà (perderà le amministrative) e il centrodestra non giungerà una sintesi unitaria, ci sarà una inevitabile un’implosione del sistema politico e il partito di Grillo potrà avvicinarsi all’impossibile fino a renderlo possibile. La crisi degli altri lo alimenta, la sua demonizzazione lo aiuta, la retorica senza contenuti lo fa apparire una scelta radicale ma necessaria per trovare un nuovo inizio in un paese sfibrato, scontento, arrabbiato. Così l’epoca del disincanto si risolve con l’incanto della massa.

 

***

 

Le Grand Débat. Un pezzo del disegno italiano passa per Parigi, alcuni tratti del futuro emergeranno in Francia con il voto per l’Eliseo. Un’affermazione di Le Pen al secondo turno appare impossibile, Macron può contare sull’effetto aggregante dell’Union sacrée, quello che per ora non si vede in Italia. Renzi, nonostante gli sforzi retorici e gli slogan clonati (il suo “in cammino” è esattamente quello del candidato francese, En marche!), non è Macron: il primo divide, il secondo sembra unire e francamente il giovane ex ministro francese rispetto al suo rinnovato clone italiano dimostra di sapere di cosa parla, senza nessuna esibizione di testosterone politico. Ieri il primo dibattito televisivo tra i candidati ha messo in luce le capacità di combattente di Macron, i commentatori lo hanno dato come vincente e c’è un effetto scenografico che ha rafforzato questa idea più teatrale che politica: Macron era piazzato al centro della scena televisiva, posizione dalla quale – come fa notare Le Figaro – è stato per lui più agevole salire di volta in volta sulle spalle degli altri candidati. Le Pen è apparsa più timida rispetto alle sue prestazioni standard, più dimessa rispetto al tono del suo spot elettorale di donna che salva la Francia, il suo “remettre la France en ordre” si è disperso tra gli attacchi concentrici di tutti gli altri candidati. Su France24 i momenti migliori del dibattito. Primo turno il 23 aprile, secondo turno il 7 maggio. C’è altro? Parecchio.

 

La scena per Macron. Libération pubblica un’analisi interessante di un confronto televisivo – inedito per la politica francese – dove emerge la strategia di Macron: cristallizzare l’attuale scenario elettorale e poi affondare il colpo nel finale. Ci riuscirà? Non lo sappiamo, la Francia non è l’Olanda, non è un paese sminuzzato in minoranze, la destra è al governo in molti centri urbani, è una presenza consolidata, la sinistra si è frantumata, Macron ha occupato lo spazio lasciato libero dalla crisi dei socialisti e forse questo sarà più che sufficiente a condurlo vittorioso all’Eliseo.

 

Parigi, Italia. La Francia è un incandescente laboratorio politico che mostra i suoi alambicchi all’Europa. Un buon risultato di Le Pen – buono, non un’impossibile vittoria – sarebbe importante per la corsa cingolata di Salvini, un’affermazione netta di Macron darebbe a Renzi un argomento per il suo non facile rientro sulla scena. E’ così importante la Francia? Sì, è il passaggio chiave di questa stagione della politica sul Vecchio Continente. Come diceva Victor Hugo: “Senza la Francia, il mondo sarebbe solo”.

 

Giornali italiani. Nessun grande giornale italiano ha in prima pagina un titolo degno di questo nome dedicato al dibattito televisivo sulle elezioni francesi. Solo il Corriere (della Sera) ha un francobollo appiccicato in prima e con quello se ne va anche il primo caffè del giorno. Altri titoli? I quotidiani di destra (Libero, La Verità, il Giornale) sono orsetti che hanno annusato il miele e aprono compatti sulla lieta novella del cognato di Fini, Tulliani, che in quel di Dubai sfugge a un ordine d’arresto; quelli in progress – secondo caffè, bisogna stare vigili sulle pagine degli intelligenti a prescindere – si dividono su argomenti vari. Repubblica torna sul bonus bebè che non c’è: “Bonus mamma, regole confuse. Ora è scontro tra Inps e ministero”; la Stampa apre sull’argomento più letto a Cuneo: “Trump-Russia, si muove l’Fbi” e naturalmente aggiunge qualcosa che a Vercelli va fortissimo in edicola: “Gabetti, arte, banche, politica. Così Rockefeller vedeva il mondo”, perbacco. Il Messaggero chiama un caffè ar vetro da Ginetto e il titolo è da Alice nel paese delle meraviglie: “Alitalia, senza accordo chiude”. Sor Ginetto ha un dubbio: “Dotto’ ma noi già pijamo Raiannair, è lloucoste”. Sor Ginetto ne sa più di Gubitosi. Chiusa la pratica in edicola, passiamo ad altro.

 

Trump e le spie. La guerra di Washington continua secondo il copione. Il capo dell’Fbi ha detto che c’è un’inchiesta sulle interferenze della Russia nelle elezioni presidenziali. What a surprise, è da mesi che i giornali scrivono sul tema e le notizie venivano dispensate per far deragliare la campagna presidenziale di Trump. Naturalmente non c’è nessuna fuga di notizie dell’intelligence, tutti immacolati. Carl Bernstein, autore dello scoop sul Watergate, nutre qualche fondato dubbio:

  

 

La dose di ipocrisia presente in questa storia di spie, fughe di notizie e svarioni presidenziali è da cavallo. Di solito, i cavalli dopati scoppiano prima di arrivare al traguardo.

 

21 marzo. Nel 1980 il presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter annuncia il boicottaggio dei Giochi olimpici a Mosca dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan.

 

 

 

 

Di più su questi argomenti: