Emmanuel Macron (foto LaPresse)

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Essere riformisti va bene, essere trasformisti un po' meno

Mario Sechi

Le contraddizioni di Macron sulle 35 ore dimostrano una cosa: né destra né sinistra può essere una scelta di saggio pragmatismo, essere flip flop è un problema politico

 

San Modesto.

 

Confusione. Matteo Renzi è andato in California e la trasferta americana si è trasformata in un boomerang quando ha affermato di esser andato a cercare nella Silicon Valley “idee anti-populisti”. Nella Silicon Valley. A San Francisco, tra i tech commuters di Google, Apple, Microsoft, le cantine dei vinificatori a cinque stelle della Napa Valley, le ville fantastilionarie di Malibu e Carmel. Confusione. Non è una consolazione, ma Renzi non è l’unico ad esser confuso tra i leader in progress con il download automatico. Prendete Emmanuel Macron, il fenomeno della sinistra elegante che andrà all’Eliseo (forse) per cause di forza maggiore. Il sostegno del centrista Bayrou aggiungerà qualche punto alla sua corsa e lo proietterà al secondo turno, egli dunque è en marche! ma verso dove è davvero difficile da capire. Stamattina il Figaro ha provato a mettere insieme le dichiarazioni fatte dal Baby Rothschild e ne è venuto fuori un frullato di contraddizioni difficile da battere. Qualche esempio, giusto per alimentare la labirintite:

 

 

Qual è il Macron vero sulle 35 ore? Quello del 9 novembre o quello dell’11 dicembre? Mistero. Come per tutti i misteri, conta la fede. Certo, le 35 ore sono un bel dilemma da sempre, folgorarono anche la politica italiana (non se ne fece niente, come da tradizione) ma il fenomeno Zelig-Macron si manifesta su tutti i punti chiave del suo programma. Confusione. Essere riformisti va bene, essere trasformisti un po’ meno. Né destra né sinistra può essere una scelta di saggio pragmatismo, essere flip flop è un problema politico. Il fregolismo si diffonde come un Trojan, in Germania Martin Schulz ha fatto fare un balzo spettacolare alla Spd cambiando i connotati (per ora a parole) della politica che fu di Mister Gas Gerhard Schröder. La mossa funziona (dodici punti recuperati in quattro settimane) ma conduce a esiti inediti per la politica tedesca e qualche riflessione per la psichedelica sinistra italiana: per la prima volta il governo della Germania potrebbe essere formato da una coalizione rosso-rosso-verde. Con chi? Un mix da bandiera rossa con Spd, Die Linke e Verdi. Il fatto non sfugge al Financial Times che dedica un articolo alla figura carismatica della Linke, Sahra Wagenknecht, una donna di cui sentiremo parlare nei prossimi mesi. Il ritratto è perfetto per essere adottato presto dalla sinistra all’impepata di cozze che si sta attovagliando dopo la scissione del Pd. La Wagenknecht ha una irrefrenabile tendenza a filosofare, legge Kant (Critica della Ragion Pura, cribbio), ha tratti esotici, è un po’ tedesca e un po’ iraniana, e si presenta come l’alternativa heavy metal a Gordon Gekko con un libro intitolato “Ricchezza senza avidità”. Ci sono tutti gli elementi per essere citata da Rossi e D’Alema come un faro del progresso nei prossimi talk. La strana campagna elettorale tedesca va tenuta d’occhio proprio in questa chiave: Schulz sposta il partito a sinistra demolendo le riforme liberali di Schröder, la Wagenkecht vede la possibilità di un governo tutto left, a questo punto si entra in fase Lubrano e la domanda sorge spontanea: ma non è che la scissione bersaniana paradossalmente salverà Renzi? “Ci incontreremo di nuovo”, ha assicurato Bersani. Nei giorni scorsi Enrico Mentana su La7 ha mandato in onda un sondaggio di Emg dove il Pd perdeva ma non troppo, la sinistra guadagnava quel che basta e la somma dava un pacchetto di voti sul quale costruire un governo di centrosinistra. Scenario non impossibile, coerente con un sistema elettorale proporzionale, ma realizzabile solo con una campagna pancia a terra e non con i viaggi nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Tanti auguri.

 

Il congresso e il segretario. Ma Renzi ce la fa a agganciare il primo stadio del razzo democratico, la segreteria? Fino all’altro ieri non c’erano dubbi, ma con la candidatura di Orlando e Emiliano le cose filano meno lisce. Per andare dritto al trono Renzi deve sfondare quota cinquanta alle primarie. Prima domanda: con tre candidati il mazzo di carte lo smezza Renzi o finisce che non tocca quota cinquanta e si va alla conta con i delegati eletti nell’assemblea del partito? Emiliano non ha per il momento una sua corrente ma si sta dando da fare per costruire un network nelle varie regioni, Orlando può contare su una struttura già presente, ha l’appoggio di Zingaretti nel Lazio, Cuperlo e un pezzo dei giovani turchi potrebbero stare dalla sua parte, il gruppo di Franceschini sta con Renzi ma dopo la scissione ha perso la sua missione di equilibrista tra la maggioranza renziana e i frondisti e si è posto nella classica posizione del suo capo, aspetta e vedi. Cosa? Se Renzi non viene eletto al primo colpo e si va al ballottaggio dei primi due candidati in assemblea, lo scenario si fa mobile. Una convergenza tra i voti di Orlando e Emiliano e uno smottamento di qualche frangia dei franceschiniani sarebbe la sconfitta di Renzi. Scenario impossibile? No, difficile, Renzi ha il controllo della macchina organizzativa e ha stretto i tempi. I suoi avversari non hanno sabbia nella clessidra, dovranno spremersi parecchio. Sarà una battaglia all’ultimo sangue. Con schizzi sui giornali da qui al voto finale.

 

Quali schizzi? Gong, pugili sul ring. Titolo del Fatto Quotidiano: “Lotti raccomandò a Emiliano l’amico d’affari di papà Renzi”. E’ così? Emiliano conferma. E’ un colpo al neo candidato alla segreteria? O fa più male al giro renziano? Lo sapremo presto, la storia ha tutta l’aria di essere pronta per andare in onda a puntate.

 

24 febbraio. Muore a Roma Alberto Sordi. Fu il più efficace interprete del carattere degli italiani.

 

 

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