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Trump, Putin e il nuovo triplo gioco ottomano

Mario Sechi

Qualche settimana fa l’Handelsblatt ha pubblicato un'illustrazione. Il titolo è “L’anno dell’autocrate”, nel sommario c’è un avviso: “E il 2016 è solo l’inizio” di questa storia. Sì, decisamente tutta un’altra storia

Santi Basilio Magno e Gregorio Nazianzeno, vescovi e dottori della Chiesa

 

Trump, Putin, Erdogan. Il 2017 sarà l’inizio di un nuovo secolo americano, la riedizione di un nuovo triplo gioco ottomano, un’altra partita del risiko zarista della Russia. Sono i fatti che la storia ha squadernato davanti a noi tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017. Basta unire con pazienza i puntini. Qualche settimana fa l’Handelsblatt ha pubblicato questa illustrazione. Il titolo è “L’anno dell’autocrate”, nel sommario c’è un avviso: “E il 2016 è solo l’inizio” di questa storia. Sì, decisamente tutta un’altra storia.

Ora prendiamo le notizie (ci sono anche le fake news e vedremo di chi sono) delle ultime 72 ore e scomponiamo l’illustrazione in capitoli di una storia comune. Seguite il titolare di List.

La strage di Istanbul e Erdogan. Isis ha rivendicato il massacro dell’altro ieri a Istanbul. La Turchia brucia. Dopo il golpe fallito di luglio, Erdogan e il suo clan hanno fatto scattare un contro golpe che da allora non si è fermato e ha condotto a un cambio totale della linea di politica estera di Ankara. Tutto ha origine la notte del 15 luglio: “Stretto tra l’islamismo imperante, le divisioni crescenti dell’Esercito e la difficile convivenza della sua politica bizantina con la Nato e la collaborazione con l’Unione europea, Erdogan ha finito per essere vittima di se stesso. Mentre scriviamo, non sappiamo quali saranno gli esiti del colpo di Stato in corso in Turchia, ma una cosa è certa: Erdogan è un leader che ha fallito. E’ una terribile lezione per gli Stati Uniti e l’Unione europea quella che arriva in queste ore. Washington ha avuto con la Turchia un atteggiamento bifronte, mai chiaro fino in fondo. Ha concesso a Erdogan lo spazio per tiranneggiare con i curdi e fare il gioco dello Stato Islamico, lo ha usato contro la Russia di Putin, ma alla fine della fiera Obama si ritrova con un membro della Nato sotto colpo di Stato. Un capolavoro”. Il ritardo con cui gli Stati Uniti condannarono il golpe, per Erdogan vale come un’impronta digitale sull’argenteria. La storia a quel punto rotola a valle e consegna a Putin un alleato che serve per vincere in Siria e ridisegnare la mappa del Medio Oriente. Sventato il golpe, Erdogan fa partire il suo contro golpe, due giorni dopo (19 luglio) il quadro è chiarissimo: “L’Europa impegnata a sanzionare Putin, scrivere a Varsavia le irrealistiche regole di una nuova Guerra Fredda, si ritrova un partner della Nato che minaccia, chiude lo spazio aereo di una base alleata, Incirlik, accusa gli Stati Uniti di aver ordito il golpe, chiede l’estradizione dalla Pennsylvania dell’uomo che considera il burattinaio politico del colpo di stato fallito, Fethullah Gulen, arresta i soldati in massa, licenzia i funzionari pubblici, blocca i loro passaporti, ammanetta e allontana i giudici. Il golpe è fallito, il contro-golpe è riuscito”. Cinque mesi dopo, nonostante la grande purga, quello che non è ancora riuscito a Erdogan è il controllo del territorio e delle fazioni terroristiche. Foreign Affairs alla fine del 2015 fece notare come il problema della Turchia è (anche) l’inaffidabilità della sua struttura di Intelligence. La situazione si è aggravata con il giro di vite del regime e gli arresti di massa dei suoi funzionari migliori. A Erdogan serve la fedeltà assoluta, non la sicurezza del paese. Non si fida degli Stati Uniti, non crede nell’Europa, Putin gli garantisce (per ora) il potere e il controllo dei confini. Resta un paese che fa parte della Nato e qui Trump potrebbe giocare a biliardo con la Russia per favorire un nuovo clima di distensione. E’ il triplo gioco Ottomano.

La crisi delle spie. A tre settimane dalla sua uscita dalla Casa Bianca il presidente Barack Obama annuncia al mondo di aver sgominato una banda di spioni del Kgb (qui siamo all’antica, preferiamo la sigla old style). La faccenda è presentata in maniera teatrale – alla Obama – pronta ad essere infornata in rotativa e impadellata sulle parabole come un thriller di Martin Cruz Smith (Gorky Park, 1981, ne parliamo dopo). Il presidente americano annuncia: “Saranno espulse 35 spie russe”. Bum. I bollettini delle tv si infiammano. La Cnn (ribattezzata durante la campagna presidenziale Clinton News Network) sfodera poderosi servizi sulla presenza della temibile cellula post-sovietica, annuncia la chiusura di un club di barbe finte nel Maryland, minaccia una cyberguerra senza confini e l’Armageddon online. Bene. A questo punto i cronisti si stanno fregando le mani e a Washington si attendono un ruggito dalla tigre del Cremlino. La Cnn se la beve tutta, partecipa allegramente al giochino e fa uscire la notizia sull’imminente chiusura della scuola anglo-americana a Mosca. Fake news boys. Ecco il comunicato del direttore della scuola su Facebook:

Passano alcune ore e sul palcoscenico della storia entra in scena la coppia Lavrov-Putin con un numero che funziona sempre: bad cop, good cop. Serghei chiede a gran voce l’espulsione di altrettanti diplomatici, Putin risponde che non se ne fa niente e auguri buone feste alla famiglia Obama. E’ una mossa micidiale di Putin. Smash. Gioco. Partita. Incontro. Dalla Casa Bianca emerge un silenzio da stato confusionale, gli strateghi di Obama si aspettavano il classico tit-for-tat, un pan per focaccia di espulsioni e invece si ritrovano a fare i conti con lo sprofondo nel ridicolo, un’arma di distruzione di massa potentissima. Foreign Policy, rivista che non ama certo Putin, stampa la parola “masterstroke”, colpo da maestro, e fa un’analisi impietosa dell’errore di Obama: “Con il trascorrere del giorno, appariva chiaro che il Cremlino stava preparando una risposta più sofisticata”. Un modo elegante per dire che alla Casa Bianca non avevano capito un fico secco. Risposta sul sito web del Cremlino: non seguiamo la “kitchen diplomacy” di Obama, “non ci sarà nessuna espulsione”, “tutti i figli dei diplomatici sono invitati alla festa per il nuovo anno al Cremlino”, “tanti auguri di nuovo anno al Presidente Obama e alla sua famiglia”. Al titolare di List viene in mente Dan Peterson quando commentava la schiacciata sotto canestro di Abdul-Jabbar dei Los Angeles Lakers: “Mamma, butta pasta”.

Nel frattempo, Donald Trump indossa il cappellino da Tweeter in Chief e mette a segno il calcio piazzato nella porta di un Obama con la difesa allo sbando:

Il Washington Post intanto ha scatenato i suoi segugi e ha scovato un’infiltrazione degli hacker russi nella rete elettrica americana. Big News. Ecco il titolo del WP:

E’ così? No. Si tratta di un malware scoperto su un singolo laptop non connesso alla rete della Burlington Electric Department. Il titolo del WP, dopo molte revisioni del pezzo senza nessuna nota editoriale, alla fine cambia così e c’è anche la nota che rettifica quanto riportato “incorrectly”:

Da penetrated a hacked. Big News? Fake news. La storia del fantomatico attacco dei russi - e delle capriole del WP per uscirne alla meno peggio - viene ricostruita su Forbes da Kalev Leetaru, nominato da Foreign Policy nel 2013 come uno dei 100 top global thinkers: “Perfino la correzione del Post non riporta i fatti come sono realmente accaduti”. Doppia fake news. Buon anno.

2 gennaio. Nel 1980 Jimmy Carter mette la parola “fine” alla politica di distensione con l’Unione Sovietica inaugurata dall’amministrazione Nixon. E’ la risposta degli Stati Uniti all’invasione sovietica dell’Afghnistan nel dicembre del 1979. Trentasei anni dopo la storia va così: i russi hanno perso Kabul, gli Stati Uniti non hanno mai vinto in Afghanistan.