Sul guardare

Francesco Musolino

John Berger
Il Saggiatore, 266 pp., 19 euro

Giornalista, scrittore, fotografo ma soprattutto un grande pensatore contemporaneo, capace di farci riflettere e dirottare la nostra attenzione sui cortocircuiti della società occidentale. John Berger è scomparso il 2 gennaio di quest’anno e per celebrarne la vasta opera – nel 1972 con il romanzo G. vinse il Booker Prize – la casa editrice Il Saggiatore ha appena ripubblicato il suo volume di scritti più celebri e innovativi, Sul guardare, in una nuova traduzione firmata dall’amica di lungo corso Maria Nadotti. Diviso in tre parti, Berger analizza il peso che la pittura e la fotografia hanno avuto sulla nostra relazione, tanto con l’oggetto – la tela, lo scatto – che con il prossimo; del resto proprio il rapporto con gli altri è sempre stato uno dei perni delle sue riflessioni. Al pari di Susan Sontag e Roland Barthes, il critico d’arte inglese John Berger è stato uno dei pochi autori capaci di non essere mai banali discettando di fotografia e di come questa abbia influito, modificato e sconvolto non solo la nostra stessa percezione del mondo ma persino il suo ricordo. Se non esiste una foto, quel preciso momento non è mai avvenuto, destinato a soccombere alla stregua di un mero déjà-vu, inghiottito dall’oblio del quotidiano. “Il declino della religione coincide con l’ascesa della fotografia”, provoca Berger in Usi della fotografia (scritto nel 1978) e prosegue: “lo spettacolo crea un eterno presente di aspettative immediate ma – soprattutto – con la perdita della memoria abbiamo perso anche la capacità di giudizio”. Berger conviene così con la tesi della Sontag, “la società capitalistica esige un continuo consumo delle immagini per svagarci, anestetizzarci”. Ma esiste una soluzione ovvero la necessità di “rimettere una foto nel contesto dell’esperienza sociale, rispettando le leggi della memoria”, rimettendo l’uomo al centro della scena, stimolando il confronto con il tempo. Abituato a ragionare su questi temi, non sorprende che Berger avesse voluto isolarsi in un paesino dell’Alta Savoia, Quincy, dove ha vissuto a partire dagli anni 70, osservando il mondo da un punto di vista distaccato ma continuando sempre a essere al centro della scena intellettuale. Una scelta motivata anche dalla volontà di rifiutare un rapporto degenerato con la natura e gli animali che ritroviamo nel celebre scritto del 1977 che apre la raccolta, Perché guardiamo gli animali? Qui Berger riflette su come l’abbandono delle campagne a favore delle città abbia progressivamente eliminato un sano contatto giornaliero con gli animali, inficiando il rapporto di reciproca collaborazione (l’aratura dei campi, la raccolta del latte e delle uova, la necessità di pascolare il gregge) a favore della nascita del mercato dei pets, riducendo così gli animali a un mero oggetto di compagnia, dando vita a un floridissimo mercato per nutrire e agghindare i nostri cani e gatti, come fossero bambole da salotto, privandoli di qualsiasi istinto predatorio naturale, sterilizzandoli per eliminarne l’ultimo barlume d’indipendenza. In tal modo la nostra idea di natura selvaggia viene esclusivamente appagata dai libri fotografici (oggi soprattutto dai documentari messi in onda su canali satellitari) che guardiamo in panciolle in salotto e il massimo contatto con il lato selvaggio che ci concediamo in questa deriva antropocentrica è una visita allo zoo. “Osserviamo le bestie che, dietro le sbarre, ricambiano svogliatamente. Paghiamo un biglietto – conclude Berger – per cercare un pallido contatto con quella natura selvaggia che abbiamo scelto di chiudere fuori dalla nostra vita.

 

SUL GUARDARE
John Berger
Il Saggiatore, 266 pp., 19 euro

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