In questi deserti senza strade. Lettere alla madre

Maurizio Stefanini

di Arthur Rimbaud, Aragno, 258 + XXXI pp., 20 euro

"Non posso più, bagnato da quei languori, onde, / Filare nella scia di chi porta cotone, / Né fendere l’orgoglio dei pavesi e dei labari, / Né vogar sotto gli occhi orrendi dei pontoni”, aveva proclamato nel 1871 l’appena diciassettenne Arthur Rimbaud nel “Battello ebbro”: suo capolavoro e allo stesso tempo inquietante profezia su una personalità attratta dalle esperienze estreme fino all’autodistruzione. “Ho smesso di scrivere, perché non ho più niente da dire, e forse non ho avuto mai niente da dire in realtà. Il mondo è troppo vecchio e non c’è niente di nuovo. E’ stato detto tutto. Sta’ tranquillo riuscirò a tacere bene. Sarò il maestro del silenzio”, diceva ancora Rimbaud interpretato da Leonardo DiCaprio nel 1995, per spiegare a Paul Verlaine la decisione di abbandonare la letteratura a neanche vent’anni. In realtà, Rimbaud non smise di scrivere. E forse non smise neanche di essere il “Battello ebbro”. Metafora chiaramente ispirata ai libri di Jules Verne, in fondo la storia dell’imbarcazione che dopo l’uccisione del suo equipaggio da parte degli indiani va alla deriva verso paesaggi sempre più esotici e vertiginosi era una fantasia. Cessata la vita di poeta bohémien tra Parigi, Bruxelles e Londra, invece di mettere la testa a partito, Rimbaud se ne andò prima a Cipro e in Egitto, e poi viaggiò tra Aden e l’Etiopia, a fare il capocantiere, l’agente commerciale di caffè e il trafficante d’armi.

 

Certo, è marcato il contrasto tra i paesi esotici in cui finalmente è andato a vivere e il tono dimesso di una vita che pure in capo al mondo è in fondo da impiegato. Sempre alle prese con l’ottusità del capoufficio e le stortura della burocrazia postale. Malgrado i difficili rapporti con la madre Vitalie Cuif, contadina economa e senza orizzonti, l’“ex poeta” la riempie di missive in cui si lamenta ma in cui descrive anche il mondo in cui è capitato. Soprattutto, la bombarda di richieste. Vuole sapere se effettivamente non lo stanno cercando per fare il militare, vuole fare investimenti, chiede che gli mandino manuali e strumenti tecnici di tutti i tipi. Non solo vuole imparare le lingue ma l’idraulica, il comando di navi a vapore, l’architettura navale, la mineralogia, l’arte del muratore, la falegnameria, la vetreria, l’arte di fabbricare candele, quella di scavare pozzi… Un po’ sembra l’americano alla corte di Re Artù di Mark Twain, aspirante missionario della tecnologia in terre ferme al Medioevo. Un po’ sogna evidentemente di diventare un famoso esploratore. Insomma, il “Battello ebbro” non ha smesso di viaggiare nel modo più vorticoso: semplicemente, vuole farlo in modo più pratico.
Ogni tanto, è vero, pensa che potrebbe tornare per farsi una famiglia, avere un figlio. “Io rimpiango l’Europa dai parapetti antichi!”, aveva confessato a un certo punto pure il “Battello ebbro”. Ma la poesia aveva infine constatato una lacerazione tra bisogno di ritorno e l’impossibilità di farlo. “Ma basta, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti. / Ogni luna mi è atroce ed ogni sole amaro: / L’acre amore mi gonfia di stordenti torpori. / Oh, la mia chiglia scoppi! Ch’io vada in fondo al mare!”. Dopo avere in molte lettere spiegato come chi si adatta all’Africa non riesce poi più a vivere in Europa, dopo che gli affari sono andati male, una banale ferita degenererà in tumore, e Rimbaud tornerà a casa solo per avere una gamba amputata e poi morire, a soli 37 anni. L’ultima lettera è quella della sorella Isabelle, che spiega alla madre come è riuscita a farlo confessare e ricevere i Sacramenti. “Colui che sta morendo accanto a me non è più un povero infelice reietto, è un giusto, un santo, un martire, un eletto!”.

 

IN QUESTI DESERTI SENZA STRADE. LETTERE ALLA MADRE
Arthur Rimbaud
Aragno, 258 + XXXI pp., 20 euro

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