La chimica della bellezza

Giuseppe Fantasia

Piersandro Pallavicini
Feltrinelli, 280 pp., 17 euro

Sin da piccolo, Massimo Galbiati, oggi chimico, non è mai stato come tutti gli altri: nato e cresciuto ad Abbiategrasso – “altrimenti detto Biagràss o solo Bià” – non ha mai avuto un buon rapporto con quel paesino al confine della provincia di Milano e a pochi passi dal Ticino. Voleva scappare da tutto e da tutti, dalle risaie come dai campi di granoturco “piatti e giustapposti all’infinito”, dall’afa come dalla nebbia onnipresente, dalle paste della domenica come dal cinema Rex il sabato, frequentato dai compagni “tutti uguali con i Ray-Ban”. Non si è mai sentito un provinciale e adesso – dopo gli studi alla Normale, un lavoro stabile e un nuovo approccio alla vita – meno che mai e tutt’al più può accettare di essere definito “un gentleman di campagna ritirato dalla competizione”. Al suo fianco, quando non è al chiuso del suo laboratorio, ci sono la figlia Valentina e la moglie Annina, conosciuta per caso una domenica all’Idroscalo, l’unica ad averlo conquistato grazie a una risposta proprio sulla chimica, e scusate se è poco. Sono in tanti a credere che gli scienziati siano un po’ sfigati, maldestri, poco pratici a muoversi fuori dal loro mondo di ioni e di molecole, oltre che noiosi, tetri e insensibili al fascino del lusso come incapaci di godersi la vita. A ben guardare, però, quella di Galbiati, sembra tutto il contrario. Lo conosciamo a bordo di una Jaguar E-Type di gran lusso (non è sua) in compagnia di Virginio de Raitner – suo collega di centoquattro anni – vincitore del Nobel per la Chimica – che mantiene lo studio in Dipartimento nonostante sia da trent’anni in pensione e che non viaggia mai senza il dispettoso bassotto Pirloux, che a differenza sua non è fotofobico ma fonofobico (in certi casi, è la consonante a fare la differenza). Ha una moglie anche lui che chiama “la mummia”, la donna con cui forma una coppia “fragile come cristalli di mica”, una signora di novantadue anni che “veste solo Cadavérique, Paris” e che russa “come un xilofono imbolsito”, come “un theremin col voltaggio sbagliato”. Li aspetta in quell’hotel a Locarno dove si terrà un convegno con i più grandi scienziati del mondo, tanti chimici “che meriterebbero il premio (Nobel, ndr) e ancora non l’hanno ricevuto”, scrive Pallavicini, autore di questo libro coinvolgente nonché docente di Chimica all’Università di Pavia, citando tra i partecipanti anche Sauvage, Stoddar e Feringa, che poi il premio lo hanno ricevuto davvero proprio qualche settimana fa. Sono loro – Pallavicini incluso – gli scienziati, coloro che vivono “una vita di privilegio senza sovrastrutture o dèi da temere a cui affidare richieste mai soddisfatte”, perché credono “nella capacità di poter modificare il mondo, di allungare la vita, di viverla con meno fatica in contrapposizione all’impossibilità di resistervi”. Sanno che possono fare qualcosa per convertire un po’ di energia in ordine e diminuire di qualche unità “la maledetta entropia”, cioè quel disordine di un sistema “che in Italia si vede benissimo e si percepisce ogni giorno”, quello che porterà il nostro mondo “a finire in un’ingloriosa bolla di confusione e gas surriscaldati”. La chimica è sospinta da una scienza che sta scomparendo, quella della ricerca pura guidata dalla bellezza della conoscenza, dalla meraviglia della scoperta, dall’eleganza delle molecole pensate e delle soluzioni trovate per prepararlE, “una bellezza che cura e lenisce il dolore” e che può essere ovunque: in un film come in un’opera d’arte, ma anche “in una sintesi inimmaginabile progettata da un genio e realizzata nel suo laboratorio”. L’ironia di Pallavicini è spiazzante e a dir poco ipnotica, provare per credere, perché questo libro crea dipendenza.

 

LA CHIMICA DELLA BELLEZZA
Piersandro Pallavicini
Feltrinelli, 280 pp., 17 euro

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