La grande A

Simonetta Sciandivasci

Giulia Caminito
Giunti, 288 pp., 14 euro

All’inizio, Giada è la Giadina, una bambina così minuta che sembra impossibile farla sopravvivere alla zia, arcigna e scocciata dalla sua adozione forzata; alle bombe della guerra (la Seconda); alla maestra che la prende a bacchettate se scappa quando suonano le sirene; alle femmine della sua famiglia che, torve, l’accusano d’esser figlia d’una scriteriata. “Mamma mia, dammi cento lire che in Africa voglio andar”, canta Giadina, poiché laggiù c’è la sua mamma, che tutti chiamano Adi, da Adele. La “sovversiva” che dei tanti milanesi che le facevano la corte se n’era infischiata e aveva finito con lo sposare Pietro da Catania, scarpaio, tenergli i conti, farci tre figli (Giada era arrivata per ultima) e piantarlo poi in asso non appena aveva capito che sarebbe morta se fosse rimasta dietro al bancone di un negozio di calzature. Così, aveva sistemato i figli e se n’era andata ad Assab, in Eritrea, per guidare il camion e gestire un bar, senza mai mancare di mandare i soldi per cibo, libri e vestiti ai suoi bambini. Sempre con i pantaloni e le sigarette senza filtro, le sue francesi. “La mamma torna”, dicono a Giadina, che resta viva per raggiungerla e non per aspettarla. La guerra poi finisce e lei, figlia di sua madre fin nel midollo com’è, vuole la grande A e il deserto, le gazzelle, gli arabi, i pantaloni, non certo l’Italia tutta da rifare e piena di zie stronze e spilorce. A un certo punto, poi, Adi torna e non suona il campanello: si fa trovare in cucina, con un cappello di pelliccia e in bocca una sigaretta e una domanda (dove sono i miei soldi?). Si riprende Giadina e la porta via: niente coccole, molto profumo. Arrivano ad Assab, si mettono al lavoro, mandano avanti il bar, tengono a bada i maschi. Giadina diventa Giada. Impara a parlare l’italiano sciolto nell’arabo, a conservare il ghiaccio, a sciacquarsi l’henné nel mar Rosso, a proteggersi dai diavoletti. Impara a imparare da sua madre, non più miraggio e finalmente concreta, ma sempre inarrivabile, ruvida, metà Claudia Cardinale e metà Marlene Dietrich. Ricongiunge il sogno all’obiettivo e se ne smarca: cresce. Indipendente. S’innamora di Giacomo: secondo Adi è troppo presto, ma proibirglielo non può. Si sposa. Fa un bambino. Giacomo scappa. Lei resta a fare la mamma e la maritata senza marito, con intorno i pettegolezzi e accanto Adi che le ricorda che degli uomini non c’è da fidarsi, per loro non bisogna mai neppure togliersi un vizio, né ammansire un difetto. Poi arrivano i soldi, il boom economico si espande dall’Italia, Giacomo torna e Giada sa come fargliela pagare senza vendicarsi: mostrandogli cosa s’è perso. Adi resta burrascosa ma accetta quel ritorno, sa che sua figlia l’accomoderà a suo vantaggio. Poi la storia torna a essere una grande S e a incombere, manovrando i loro destini: in Africa soffia l’indipendentismo, si respira la guerra civile, gli italiani tornano in Italia e s’adattano a fare gli stranieri a casa loro. Torna anche Adi, sceglie la campagna. E Giada, dopo non molto, la segue, perché “se c’è una cosa certa, a questo mondo, è mia madre”. Giada e Adi sono esistite davvero: Giulia Caminito, autrice di questo “La Grande A” le ha trovate nelle storie di famiglia che, per cinque anni, una volta al mese, s’è fatta raccontare da sua nonna. Due donne che si sono date da vivere, mai complici e sempre solidali, complementari e mai amiche, che però non servono a intessere una storia “al femminile”. “La Grande A” è un libro ricco, impegnativo e poetico. La cosa più importante che fa è raccontare come nasce un sogno e quale talento serve per far sì che realizzarlo non lo trasformi in compromesso. La storia di come si può crescere bene, quando la vita è impervia e l’amore non è una protezione, ma un “rischiatutto”.

 

LA GRANDE A
Giulia Caminito
Giunti, 288 pp., 14 euro


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