Sei chiodi storti

Giorgia Mecca

Dario Cresto-Dina
66thand2nd, 147 pp., 17 euro

Il tennis è lo sport più difficile, lo sport dei pazzi e degli uomini soli. E’ cattivo, non esiste il pareggio, sai quando entri in campo ma non quando ne uscirai”. Nicola Pietrangeli conserva ancora dentro il suo portafoglio una fotografia invecchiata, scattata nel 1976: cinque ragazzi sorridenti sollevano l’insalatiera d’argento, simbolo della Coppa Davis. Fu una vittoria storica, uno scandalo che l’Italia intera preferì dimenticare subito. Finalmente, dopo 40 anni, Dario Cresto Dina sceglie di ricordare e di raccontare la storia dell’unica Davis che l’Italia è riuscita a vincere. Dopo aver vinto la semifinale contro l’imbattibile Australia, gli Azzurri avrebbero dovuto giocare la finale a Santiago del Cile, in casa del dittatore Augusto Pinochet. Ma come si fa a giocare a tennis in mezzo al sangue?, si chiedevano in molti. Nacquero polemiche infinite, comitati per il boicottaggio, intervennero Eugenio Scalfari, Domenico Modugno e gli Inti Illimani: quella finale era una vergogna per la democrazia. Pietrangeli, che sapeva cosa significa perdere la Davis, disse che gli avrebbero dovuto togliere il passaporto per impedirgli di andare a Santiago. Alla fine Corrado Barazzutti,  Paolo Bertolucci, Adriano Panatta e Tonino Zugarelli, accompagnati da capitan Pietrangeli, riuscirono a partire. Al di là degli editoriali infuocati e al temporeggiare democristiano (“le sinistre strillano? Si calmeranno presto”, commentava ironicamente Franco Evangelisti), il libro preferisce raccontare la storia di quattro ragazzi giovani e belli che conoscevano il mondo solo attraverso un rettangolo di terra rossa.  “Fascisti”, gridavano loro, quando questi ultimi volevano solo giocare a tennis. Sono loro stessi a ripercorrere la leggenda negata. Zugarelli era considerato la riserva di una squadra fortissima, Panatta non gli rivolgeva nemmeno la parola; quell’anno vinse per due volte contro gli inglesi sull’erba di Wimbledon. Cominciò a giocare non per passione, ma per necessità: “I giocatori in maglione della borghesia romana lasciavano buone mance ai raccattapalle per farsi perdonare di averli trattati come servi”. Non ha mai pianto per il tennis. “Se qualcuno mi domandava che cosa avrei voluto fare da grande non sapevo rispondere. Non avevo tempo né soldi per i sogni. Nel mio rione o ti legavi ad un pallone oppure andavi a rubare”. Bertolucci la sera prima del doppio contro l’Australia non riusciva a dormire per il dolore. Maledetta spalla. Un’iniezione di novocaina gli avrebbe fatto sparire il dolore per un paio d’ore, al massimo tre. “Dobbiamo fare in fretta”, sussurrò preoccupato al compagno prima di scendere in campo. Quel doppio, Bertolucci lo vinse da solo dopo meno di un’ora e mezza, giocando il miglior tennis della sua vita. Barazzutti nel 1976 perse una sola partita di Davis, al Foro italico contro l’australiano John Alexander. In quel pomeriggio romano non riesce a trattenere la rabbia. “non frantuma l’ennesima racchetta perché in quella partita non gliene rimangono più”. E Panatta?  Adriano Panatta aveva nove anni quando suo padre Assenzio, storico custode del circolo di tennis Parioli, gli disse di non averlo potuto iscrivere alla scuola di nuoto. “Ti ho iscritto ai corsi di tennis”. Il bambino fece spallucce e rispose vabbè, senza scomporsi. Quell’anno aveva già vinto gli Internazionali di Roma e il Roland Garros. Arrivò a Santiago esausto, aveva la febbre, il tennis gli faceva venire la nausea. Solo vincere lo rendeva felice, ma la felicità è un sentimento scricchiolante, fragilissimo. Da dove arriva? E soprattutto, quanto rimane? Secondo Panatta la felicità non dura più di sessanta secondi. A quarant’anni di distanza, Nicola Pietrangeli se la conserva ancora stretta in una fotografia invecchiata nel portafoglio.

 

SEI CHIODI STORTI
Dario Cresto-Dina
66thand2nd, 147 pp., 17 euro

acquista ora

Di più su questi argomenti: