Chekhov museum. Sakhalin

La voce di un'umanità dimenticata

Annalena Benini

Quando Cechov si immerse tra gli ultimi della terra, a Sachalin, per raccontare le più intollerabili sofferenze che possa sopportare l’uomo

Sachalin è il luogo delle più intollerabili sofferenze che possa sopportare l’uomo, libero o prigioniero che sia… Dai libri che ho letto e sto leggendo è chiaro che abbiamo fatto marcire in prigione milioni di uomini, li abbiamo fatti marcire invano, senza criterio, barbaramente; abbiamo obbligato la gente a percorrere migliaia di verste al freddo, in catene, l’abbiamo contagiata con la sifilide, l’abbiamo corrotta, abbiamo moltiplicato i delinquenti… No, vi assicuro, Sachalin è utile, e l’unica cosa di cui rammaricarsi è che ci vada io, e non un altro, più competente e più capace di destare l’interesse della società. Io, invece, ci vado per delle sciocchezze.

Anton Cechov, lettera all’editore, 1890

    

    

All’alba di una mattina di ottobre, grigia, fredda, buia sull’isola di Sachalin, undici uomini devono essere giustiziati con l’impiccagione. Ma due di loro si erano avvelenati, erano già morti. La procedura è lunga, scrive Cechov: bisogna mettere a ciascuno un lenzuolo, condurlo al patibolo, far baciare la croce. I condannati non riescono mai ad andare incontro alla morte coraggiosamente, e hanno facce gialle, hanno bevuto vodka ma la vodka non basta. Una volta un condannato era già avvolto nel lenzuolo quando gli dissero che era stato graziato. Dovette assistere all’impiccagione dei compagni, ricevere cento frustrate e finire incatenato a una carriola. Ma adesso, questi nove pendono come una ghirlanda. Staccandoli dalla forca, i medici ne trovano uno ancora vivo. “Un caso fortuito, investito però di un significato particolare: non solo la prigione, che conosce i segreti di tutti i delitti commessi dai suoi membri, ma anche il boia e i suoi aiutanti sapevano che l’impiccato rimasto in vita non era colpevole del delitto per cui era stato condannato”. Lo impiccarono per la seconda volta, raccontò a Cechov il capo circondario, “poi, per un mese intero, non riuscii a dormire”. Scrive Cechov che tutte le pene corporali rendono più rozzi e crudeli non solo i detenuti che le subiscono, ma anche coloro che le infliggono o che vi assistono. “Alcuni si abituano così in fretta alla frusta e alle verghe e diventano talmente grossolani da provare perfino piacere nel veder lavorare il boia. Di un direttore si dice che fischiettasse mentre presenziava alle esecuzioni, un altro, invece, un vecchio, sibilava con rabbia al detenuto: ‘Cos’hai da gridare, che Dio ti fulmini? Forza, non è nulla! E tu dagliele più forte! Tartassalo!’”. Cechov rimase nove mesi, nel 1890, a trent’anni, nell’isola di Sachalin, in Siberia, dove gli zar avevano creato la Katorga, spaventosa colonia penale verso cui la Russia era totalmente indifferente. Ci arrivò d’estate, dopo un viaggio di settantotto giorni iniziato in un maggio gelido, proprio come ci arriva un detenuto, o un esiliato, e parlò con tutti, osservò tutto, vide la miseria, la corruzione, anche il tentativo di riderci sopra. Scrisse una cosa talmente sorprendente, sfuggente a ogni genere letterario, che Tolstoj gli rimproverò, ad esempio, di non avere reso sufficiente omaggio alla grandiosità del paesaggio siberiano. Realizzò, qualcosa di più di un reportage narrativo fedelissimo e accurato sotto forma di diario, e leggere queste pagine adesso, nella nuova edizione Adelphi a cura della slavista Valentina Parisi, che ha scritto anche una fondamentale postfazione, fa pensare a un’assunzione di responsabilità. Cechov dà voce a un’umanità dimenticata, eliminata, reietta, a uomini che ripetono sempre: “Quando ero in libertà”, riferendosi a un tempo mitico, e lo fa non per accusare i carcerieri, ma ogni essere umano indifferente. Lui come sempre denigra e sminuisce se stesso e dice: sono un ucrainaccio e ho già cominciato a impigrire, ma si immerge fra gli ultimi della terra con quel malinconico e ironico distacco da sé, parte per dare un senso alla sua vita lì dove la vita è più insensata, e lo fa da solo, da scrittore, ma soprattutto da uomo.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.