Bambine di una comunità mennonita in Missouri (foto Wikicommons)

Avere sedici anni nella "setta più sfigata a cui si possa appartenere"

Annalena Benini

Passare l'adolescenza in una comunità mennonita, sognare la fuga e per sempre il ritorno. Dolore e tenerezza nel romanzo indimenticabile di Miriam Toews

L’altro giorno mentre mettevo in un cassetto i fazzoletti di mio padre freschi di bucato, ho trovato il passaporto di mia madre. Avrei preferito di no. Ai fini della mia storia, dovrebbe averlo con sé. Mi sono seduta sul letto e ho sfogliato le pagine vuote. Niente bolli. Niente località esotiche. Niente orecchie o sbavature per gli innumerevoli viaggi. Solo i dati e la foto di mia madre in bianco e nero. Se la mettessero in un manuale di psicologia sul significato delle espressioni facciali avrebbe come didascalia: Dal soggetto di evince un impudico, straziante senso di speranza.

Miriam Toews, “Un complicato atto d'amore” (Marcos y Marcos)


  

Dieci anni fa ho letto per la prima volta questo romanzo, che è stato appena ripubblicato da Marcos Y Marcos con la traduzione di Monica Pareschi. Ogni volta che, poi, ho letto la storia di una ragazzina che soffre cercando di essere felice, ho ripensato a Nomi di “Un complicato atto d’amore”. Ogni volta che ho incontrato la vita in una comunità intransigente che considera la televisione e il divertimento qualcosa da vietare, ho pensato ai mennoniti e alle loro regole, al divieto di andare al cinema, e ai modi per aggirare il divieto. E il fatto che sia vero, che Miriam Toews, importante scrittrice canadese, sia cresciuta davvero in una comunità mennonita patriarcale e fuori dal tempo, e sia fuggita a Montrèal a diciott’anni, e scrivere sia stata la sua ribellione, ma scrivere con umorismo, dolcezza, struggimento, compassione e vitalità, ha reso questo romanzo indimenticabile.

 

“Noi siamo mennoniti. Per quel che ne so, è la setta più sfigata a cui si possa appartenere a sedici anni (…) Il concetto è che dobbiamo agognare la morte col sorriso sulle labbara e nel frattempo, fino a quel benedetto giorno, la nostra vita deve essere un facsimile della morte o come minimo dell’agonia. Un sondaggio mennonita potrebbe comprendere domande tipo: preferirebbe vivere o morire di una morte crudele? Se rispondi: vivere, vedrai che il mennonita che fa il sondaggio sbatte lui il telefono in faccia a te”. Nomi ha sedici anni ed è pazza d’amore per la sua famiglia. Per sua madre, che andava incontro alla vita a braccia aperte e sbatteva selvaggiamente gli asciugamani prima ri ripiegarli, suo padre silenzioso che non sapeva quasi mai cosa dirle ma la amava da morire, la sorella ribelle con una maglietta con su scritto: “Jesus?”, e lei che sperava che questa felicità non finisse mai. Quando la madre scompare, dopo essere stata scomunicata, espulsa dalla comunità mennonita, Nomi fa un elenco dei ricordi belli. Nomi che si ritrova sola con un padre annientato del dolore, e adesso di tutta la libertà del mondo non sa che farsene. Sua madre in macchina andava troppo forte e parcheggiando si avvicinava sempre più al muro o alla barriera che aveva davanti finché andava a sbatterci col cofano. Diceva che a Montreal si parcheggia così. Non era mai stata a Montreal ma le piaceva dire Montreal ogni volta che poteva; e così tutto, i parcheggi, i tagli di capelli, i tramezzini per lei erano sempre in stile Montreal. Durante l’inverno scaldava il letto a sua figlia infilandocisi dentro per venti minuti mentre lei faceva il bagno del sabato sera. Scendeva di continuo nel seminterrato perché sul temperino elettrico c’era scritto Boston. Cantava gli inni a voce spiegata e metteva tutti in imbarazzo. Tutto questo in un mondo piccolo in cui i biglietti di Natale venivano scritti più o meno così: da un abisso di peccato e contrizione, zio Raymond.

 

Nomi si rade i capelli a zero, si sdraia lungo la statale ventitré, toglie la maglietta a Travis per baciarlo lentamente, giù alle cave, e fare l’amore in riva al fiume ascoltando Lou Reed e James Taylor, si ribella totalmente ai mennoniti ma si ribella con una nostalgia straziante per la sua famiglia. Con il ricordo continuo di quello che sono stati, quando stavano insieme, cerchio d’acciaio con i dischi nascosti nel seminterrato, e tutte le minuscole trasgressioni che trasformano una casa in un luogo avventuroso, in un momento eccezionale anche dentro i recinti. Era possibile trovare tutto allegro anche se folle, quando si stava insieme. Ma un giorno la sorella maggiore, Tash, ha detto: mi sembra di impazzire, cazzo. Non ne posso più. E’ tutto falso. E sua madre, invece di dire: brucerai all’inferno, ha risposto: sì, lo so, tesoro, lo so, e ha iniziato a piangere. “Sono quasi sicura che è stato lì che ha cominciato a farmi male la faccia di notte. Come se all’improvviso la testa mi si fosse riempita di idee e suggestioni che non era in grado di contenere. O forse stavo solo soffocando”.

 

In questo libro c’è un grande dolore, ma è un dolore pervaso di esplorazione e di tenerezza. Quella che arriva molto tempo dopo, sotto forma di ricordi, e anche di gratitudine: se siamo scappati, è merito del recinto che ci ha dato la forza, per contrarietà, di andare via e diventare qualcos’altro. Ma non si è mai davvero qualcos’altro. C’è sempre ancora l’impulso di tornare, e di chiamare casa il posto dove è iniziato tutto, dove si è sognato, per la prima volta, di fuggire.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.