Perché l'anti totalitarismo si misura con la vicinanza a Israele

Al direttore - Ora una legge omogenea tra Trentino e Alto Adige.

Giuseppe De Filippi

 

Al direttore - Sacrosanto il suo rilievo su ciò che dimentichiamo dopo ogni attentato dell’Isis, compresa Teheran: la radice religiosa islamica del terrore. La spontanea solidarietà con le vittime iraniane e un pregiudizio pavloviano verso Trump e le sue mosse in medio oriente, non devono farci dimenticare che, purtroppo, l’Iran, oggi vittima, è però la causa prima dell’incendio e della guerra civile intra-islamica. E ciò, anche, per gli errori Usa pre-Trump: aver consentito il controllo sciita dell’Iraq;  aver impaurito le monarchie sunnite con appeasement atomico verso Teheran; aver assistito impotenti all’asse dell’Iran con la Russia e la Siria; aver tollerato la minaccia incendiaria all’Arabia Saudita (e a Israele). Sarebbe cieco dimenticarsene nel momento della solidarietà anti Isis. Il regime khomeinista resta il fattore chiave della destabilizzazione in medio oriente. La solidarietà non diventi un colpo di spugna sul problema.

Umberto Minopoli

 

C'è un modo semplice per giudicare le radici fondamentaliste dell’Islam. Da una parte c'è chi considera Israele un modello di civiltà da tutelare. Dall’altra parte c’è chi considera Israele un modello di civiltà da annientare. Ci si può girare attorno quanto si vuole ma alla fine è su questo punto che cade il bluff dell'islam moderato. E di solito chi ha difficoltà a difendere fino in fondo Israele ha difficoltà anche a riconoscere un regime democratico da uno totalitario.

 

Al direttore - Quello delle relazioni industriali è un sistema che procede lentamente ma che, diversamente da quello politico, sovente incontra soluzioni che arrivano da un ambiente, a volte quello chimico altre quello meccanico, che genera dei forti e virtuosi effetti sull’intero complesso di impresa e lavoro. E’ il caso del rinnovato contratto metalmeccanico, occasione non solo di innovazioni ma anche di una frattura ricomposta. La vicenda viene sapientemente raccontata da Giuseppe Sabella nel suo nuovo lavoro “ Rivoluzione Metalmeccanica – dal caso Fiat al rinnovo unitario del contratto nazionale”  (Guerini e Associati) e i contributi in postfazione di Marco Bentivogli (Segretario Generale di Fim-Cisl) e di Fabio Storchi (Presidente di Federmeccanica) rendono l’idea della puntualità di questo lavoro. Sabella ricostruisce la vicenda partendo dal caso Fiat, perché il cambio di passo delle relazioni industriali comincia lì. Ma, giustamente, l’autore spiega quanto il caso Fiat sia figlio dell’accordo interconfederale del 2009, quando si volle legare in modo forte le retribuzioni alla produttività delle imprese, garantendo la copertura dell’inflazione, cosa poi perfino superata nel 2014 dalla deflazione e, quindi, da retribuzioni effettive addirittura più alte rispetto agli accordi. L’intesa del 2009 fu firmata da Confindustria e dalle sole Cisl e Uil, non dalla Cgil. Si trattava del primo accordo interconfederale non unitario. Ricordo molto bene quei momenti perché all’epoca ero Segretario Generale della Cisl. Il rinnovo metalmeccanico fa oggi molta chiarezza sul rapporto tra i due livelli contrattuali e sul ruolo della contrattazione di secondo livello. Nel titolo del libro di Sabella c’è un po’ di enfasi, ma è questa una grossa possibilità di cambiamento per il lavoro nel nostro paese, tanto che la detassazione del salario di produttività è stata resa strutturale. La strada è giusta e, ancora una volta, non è la politica a indicarla ma sono le Parti sociali.

Raffaele Bonanni

 

Al direttore - L’onorevole Sibilia, dei 5 stelle, è poco più di un ragazzino, coi suoi trent’anni. Dunque possiamo essere comprensivi e perdonarlo: per pensare e scrivere il decreto sull’obbligatorietà fino a 16 anni di 12 vaccini per accedere al nido, alle materne e alla scuola dell’obbligo è sicuro che la ministra Lorenzin non ha ricevuto alcun Rolex da alcuno.

Roberto Volpi

 

Un paese che ogni giorno deve commentare le parole di un Sibilia o un Di Maio è un paese che più che la verità si merita la Troika.

 

Al direttore - Contrariamente a quanto affermato nell’articolo “La business community cinese senza rappresentanza”, pubblicato l’8 giugno nell’inserto GranMilano de Il Foglio, gli imprenditori cinesi, e in generale di origine straniera, trovano rappresentanza nell’ambito di Confartigianato e siedono negli organi direttivi delle Associazioni territoriali della nostra Confederazione. Un esempio, proprio per rimanere nei dintorni di Milano? Francesco Wu, imprenditore  cinese di seconda generazione, residente a Legnano, il quale fa parte del Consiglio Direttivo di Confartigianato Alto Milanese. Francesco Wu è uno dei 50 imprenditori cinesi che ‘contano’ nel nostro Paese ed è un prezioso esempio di integrazione, di impegno associativo e imprenditoriale. Laureato in Ingegneria elettronica al Politecnico di Milano, dopo aver lavorato in Cina per aziende italiane, ha scelto di vivere e svolgere un’attività imprenditoriale nel nostro Paese. Come a Francesco Wu, Confartigianato, in tutta Italia, offre rappresentanza e servizi ai cittadini stranieri che hanno scelto la strada di fare impresa. Sono quasi 20.000 le imprese artigiane operanti nel nostro Paese, guidate da titolari di origine straniera, associate alla nostra Confederazione. Siamo convinti che l’avvio di un’attività imprenditoriale costituisca uno strumento di integrazione sociale ed economica, un argine ai fenomeni di devianza e contribuisca a favorire l’accettazione del modello di vita e delle regole del Paese ospitante.

Cesare Fumagalli, Segretario Generale di Confartigianato

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