Matteo Renzi (foto LaPresse)

Lettere al direttore

Il referendum e un dibattito liberale su come usare il consenso

Chi ha scritto a Claudio Cerasa il 2 dicembre

Al direttore - Giovani più poveri dei loro nonni. Eh, dillo a Lapo.
Giuseppe De Filippi

Al direttore - Letta la paginata di foglianti in servizio permanente effettivo che annovera finalmente Marianna Rizzini tra “le genti del bel paese là dove ‘l sì suona” (Dante), mi permetta, considerandomi fogliante riservista, e pur restando il voto segreto, di svelarle il mio. Voterò Sì per tanti motivi. Uno mi dà particolare soddisfazione più di altri. In caso di vittoria del Sì la Costituzione più abbellita del mondo diventerà finalmente anche un po’ mia. Azionisti e sinistri vari l’hanno sequestrata per decenni autoerigendosi a difensori della sua purezza e intoccabilità e nominandosi unici eredi dei “partigiani che l’hanno scritta con il loro sangue”. Come se il sangue del cattolico Bisagno, primo partigiano d’Italia (guardatevi il bel documentario che andrà in onda questa sera su RaiStoria alle 21), non scorresse un po’ anche nelle mie vene. Come se io non amassi la libertà, la democrazia, non avessi senso dello stato solo perché mi trovavo stretto nella gabbia che costoro hanno costruito nelle scuole, nelle università, nell’editoria, nella cultura con la loro interpretazione spirituale della Carta spesso dimentica della sua lettera. Ecco, il 5 dicembre sapremo se in Italia è caduto un altro tabù culturale, un po’ come successe il 10 novembre 2001 con l’Usa Day in piazza del Popolo a Roma e ancor più il 15 aprile 2002 con l’Israele Day per le vie del Ghetto. Per noi foglianti di riserva (e credo per molti italiani) anche questo vale un Sì.
Ubaldo Casotto

 

Al direttore - E’ stata “la volta buona” per l’aumento dei salari all’interno della Pubblica amministrazione. Il governo Renzi partiva da una posizione di grande vantaggio: si presentava con una valigetta piena di quattrini. Poteva essere “la volta buona” per fare un accordo che andasse a vantaggio non solo dei lavoratori, ma anche dei clienti della Pubblica amministrazione. Per esempio ottenendo in cambio una certa flessibilità per cambiamenti di ruolo e mansione, o differenziando gli aumenti sulla base della performance. Invece l’intesa è tale da essersi conquistata il plauso di Susanna Camusso, che sarebbe stata ben felice di uno strappo in prossimità del referendum. Prima il governo fa una riforma della Pubblica amministrazione che esclude apertamente risparmi economico-finanziari, dicendo che non è quella la sede opportuna. Poi fa un accordo che non lega gli aumenti salariali a recuperi di efficienza. Due indizi fanno una prova. Forse, se è vero che il problema dei problemi in Italia è la produttività, non bisogna aspettarsi che provi ad adoperarsi per risolverlo un governo che non tenta neppure dove potrebbe e dovrebbe, cioè nel perimetro della Pa. Per carità, siamo abbastanza adulti da sapere che per il politico scaltro il consenso è una palla da tenere continuamente in gioco. Speriamo il politico scaltro sia abbastanza adulto da non sovrastimare il ruolo della gratitudine, nelle vicende elettorali.
Alberto Mingardi

 

Caro Mingardi. Tutto giusto, con un ma. Se utilizzare strumenti che aiutano a conquistare consenso è un mezzo per arrivare a un fine, prima di imbronciarsi ci penserei. Gli ottanta euro hanno contribuito a creare un consenso che ha permesso a Renzi di vincere le europee e di abolire l’articolo 18. Se l’accordo sui salari degli statali avrà l’effetto di aiutare il Sì il 4 dicembre e di aprire successivamente le porte alla riforma della contrattazione aziendale ben venga, e viva Machiavelli.

 

Al direttore - Il Sì è rock, il No è lento.
Michele Magno

Al direttore - Il 4 dicembre si vota sulla Costituzione. Vero, ma sarebbe riduttivo sostenere che si vota “solo” sulla Costituzione. La realtà è che si vota sull’Italia. Non su quella che vediamo oggi ma su quella che vogliamo per i prossimi decenni. Nel 1947 l’Italia era uscita in ginocchio dalla guerra. Produzione agricola distrutta: 125 milioni di viti e 5 milioni di olivi in fumo. Patrimonio industriale compromesso: impossibile trovare carbone, petrolio e ferro. L’Assemblea costituente osservava questa Italia sofferente ma nello scrivere la Costituzione teneva a mente quella più forte e libera che voleva costruire. La storia dei decenni che seguono ci dice che quegli uomini e quelle donne fecero un ottimo lavoro. Ma l’Italia di oggi è diversa da quella del 1947 e ha altre priorità: non è la ricostruzione ma la digitalizzazione, non i viadotti ma la banda larga, la disoccupazione giovanile, la competizione internazionale, le startup e l’Industria 4.0. E per costruire l’Italia di domani servono nuove regole che permettano di rispondere al meglio a queste nuove, e altrettanto essenziali, necessità. Chi scrive pensa che l’Italia di domani abbia estremo bisogno di semplificazione e velocità per stare dietro ai mercati che non fanno sconti a nessuno. Di ridurre i quattro anni e mezzo che, a forza di continui blocchi amministrativi, ci vogliono in media per finire un’opera pubblica. Di dimezzare i 1.500 ricorsi alla Consulta fra stato e regioni riportando materie cruciali sotto la competenza statale esclusiva. Come l’energia, dove lo stato deve mettere d’accordo la Francia con la Germania e non la Calabria con la Sicilia: ci sono voluti 10 anni e 80 autorizzazioni per completare il collegamento elettrico fra Reggio Calabria e Messina che farà risparmiare 600 milioni nella bolletta degli italiani. In questi 10 anni di stallo la Cina è diventata il primo pil del mondo.  L’Italia di domani ha necessità di un governo che duri 5 anni perché i piani industriali sono una policy che viene messa in pratica solo sul lungo termine. L’Italia di domani ha il dovere di combattere con più forza la corruzione ramificata ovunque: se legifera una sola Camera non solo si riducono i 563 giorni che ci vogliono ad approvare una legge ma soprattutto se ne migliora la qualità, stroncando il continuo rimpallo che moltiplica articoli e commi rendendo alla fine la norma incomprensibile, inapplicabile e terreno fertile per chi vuole aggirare le regole. L’Italia di domani, soprattutto, ha urgenza di crescere: perché in 15 anni una performance peggiore del nostro pil ce l’ha avuta solo lo Zimbabwe. E se non cresce il pil, cresce il debito. E si riducono le opportunità per le generazioni che verranno dopo di noi. Ci sono voluti 30 anni di dibattito, 731 giorni di confronto parlamentare e 6 mila votazioni per arrivare a un testo condiviso. Quando Confindustria ha scelto di votare Sì l’ha fatto non pensando alle “cause”, o più prosaicamente a logiche di colore politico che non interessano, perché la riforma varrà indipendentemente da quale sarà il partito in carica domani. Ha fatto la sua scelta pensando, invece, proprio agli effetti: i miglioramenti che può determinare per l’economia italiana. Di cui potranno beneficiare sia le imprese sia i lavoratori. Il 4 dicembre si sceglie sull’Italia che vogliamo per i prossimi anni. Il 5 dicembre, però, ci sarà anche un paese che avrà ancora bisogno di lavoro, di tasse, di servizi pubblici, di investimenti, di imprenditori. Di andare avanti sulle riforme economiche e sociali, dopo quelle costituzionali. La speranza è che, con la coscienza di aver scelto per i prossimi decenni, sapremo anche tenere vivo “lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la responsabilità” che nel 1947 ci ha chiesto chi la Costituzione l’ha scritta e ce l’ha lasciata, perché la facessimo vivere.
Marco Gay, presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria

Sì.

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