Una scena di Suburra - La serie

L'orgia va

Mariarosa Mancuso

“Suburra - La serie” e quel sentore di déjà-vu, tra intrighi, stato, criminalità e chiesa

Che si fa dopo l’orgia? La frase arbasinesca – come a dire: esiste gente tanto viziata che nel groviglio di corpi sbadiglia – viene in mente guardando “Suburra - La serie” (10 episodi dal 6 ottobre, registi Michele Placido, Andrea Molaioli, Giuseppe Capotondi, prima produzione italiana su Netflix). Era già venuta in mente guardando l’altra “Suburra”, il film di Sergio Sollima uscito nel 2015. Scena d’apertura che vince non si cambia, un’orgetta avevamo e un’orgia abbiamo. Politico con due fanciulle strafatto che rischia la pellaccia (oltre alla carriera) allora. Alto prelato che si tuffa in un’ammucchiata ora. Notiamo di passaggio che su Netflix non esiste “un vietato ai minori”, le censure sono quelle imposte dai governi non democratici.

 

 

L’orgia va, come vanno – e continuano ad andare, da qui una leggera sensazione di déjà vu fornita dai primi due episodi – gli intrighi tra lo stato, la criminalità organizzata, la chiesa. Il film faceva un conto alla rovescia dei sette giorni mancanti all’Apocalisse. La serie – un prequel, si dice in gergo – racconta fattacci accaduti prima del film. Ma è tutto un gioco di anticipi & posticipi (resta inteso che gli spettatori del film con Pierfrancesco Favino già sanno chi trionfa e chi muore ammazzato).

 

Sappiamo dal primo episodio che di lì a venti giorni le dimissioni del sindaco saranno esecutive. Nel poco tempo a disposizione bisogna trafficare per spartirsi venti acri di terreno edificabile. Poi il primo episodio – aperto dalla scena dell’orgia – subito torna indietro e spiega come siamo arrivati fin lì. Lo stesso fa il secondo episodio: come se alla materia un po’ scaduta – ai nostri occhi perlomeno, il pubblico non sembra volere altro che criminalità organizzata e alleata con i poteri forti – servisse una forma più sofisticata per attrarre lo spettatore.

 

Tra qualche mugugno – sempre meno in verità, a Cannes c’erano “Twin Peaks” (il ritorno, a 27 anni dall’originale) e “Top of the Lake - Il mistero del lago” di Jane Campion (la seconda stagione, con Nicole Kidman invecchiata) – i festival cinematografici fanno spazio alle serie. Alla Mostra di Venezia oltre a “Suburra” c’era “Wormwood”, il docu-drama (un misto di interviste e scene ricostruite, anche questo targato Netflix) di Erroll Morris. “Il re dei documentaristi”, scrive il Guardian dimenticando Friedrich Wiseman, che sempre a Venezia aveva in concorso “Ex Libris”, tre ore sulla Public Library di New York.

 

 

“Wormwood” vuol dire “assenzio”, la serie racconta il suicidio di Frank Olson, lo scienziato che nel 1953 precipitò dalla finestra del suo albergo di New York. Il caso fu archiviato come suicidio, l’ostinazione del figlio ha condotto la famiglia a citare in giudizio il governo degli Stati Uniti.

 

Viene fuori un altro capitolo nella storia americana dell’acido lisergico. Sapevamo che Cary Grant lo aveva preso sotto controllo psichiatrico, e aveva fatto pace con il proprio romanzo familiare. Sapevamo che per un certo tempo era stato legale, e che Timothy Leary ne caricò un bel po’ a bordo di un pullman colorato, e partì da San Francisco nella Summer of Love del 1967 facendo proseliti. Non sapevamo che l’acido lisergico fosse stato usato per esperimenti militari – alla ricerca del soldato perfetto e instancabile, come nella saga intitolata a Jason Bourne. Senza avvertirlo, per fare un esperimento, nel drink di Frank Olson avevano messo una pasticca. Non finì esattamente come i sapientoni del governo avevano immaginato.