La televisione e l'islam ai tempi del Ramadan

Mariarosa Mancuso

Per molti produttori il periodo di digiuno dei musulmani è “un Super Bowl che dura trenta giorni”. Ecco perché

Arabia Saudita, tra cento anni. Un padre di famiglia, vestito di carta argentata come usa nei film di fantascienza, annuncia alla figlia: “Ho grandi novità per te”. “Ora le donne possono guidare?”, chiede lei speranzosa. “No, no” – risponde il genitore – “ora le macchine si guidano da sole”. Lo scambio di battute era in “Selfie”, serie di trenta puntate trasmessa l’anno scorso su Mbc, televisione satellitare saudita (la proprietà è riconducibile con qualche grado di parentela alla famiglia reale).

 

Sono 150 milioni di abbonati da conquistare, sparsi nel mondo che parla arabo. E il prime time assoluto corrisponde al Ramadan: una media di sei ore, anche sette, passate davanti alla tv (non si può bere e non si può mangiare dall’alba al tramonto, unica alternativa sarebbe la meditazione o la preghiera). “Un Super Bowl che dura trenta giorni”, ha spiegato un dirigente di Mbc al New York Times, facendo riferimento all’appuntamento più seguito nella televisione americana.

 

L’anno scorso la serie più chiacchierata era appunto “Selfie”, comica a dispetto della trama: un padre cerca il figlio arruolato nell’Isis, non per complimentarsi con lui ma per ucciderlo. Quest’anno si intitola “Black Crows”, ha preso il via lo scorso 26 maggio racconta una brigata di guerriere dell’Isis. Sono loro i corvi neri, armate di Kalashnikov, con i calzoni della mimetica sotto il niqab, sulla fronte la bandiera dello Stato islamico.

 

Fanno paura solo a guardarle, ed è questa l’intenzione. Raccontare le storie delle donne e dei bambini iracheni e siriani reclutati a forza dal Califfato: lavaggio del cervello, fanatismo, violenza per motivi futili come uno smalto per unghie o la visione di un film, stupri, sgozzamenti, attentati (il catalogo è tristemente noto). Niente a che vedere con la ricca offerta del Ramadan televisivo d’evasione: feuilleton, polpettoni storici, sit-com famigliari, spie e poliziotti.

 

Trattasi di esperimento – scrive Foreign Policy in un articolo intitolato “Can Good Television Beat the Islamic State?” – condotto con la collaborazione degli americani. Bravi showrunner sono andati in Arabia Saudita, fornendo il know how perché la serie risulti avvincente per gli spettatori, non una lezioncina sui pericoli dell’Isis. Il plotone delle guerriere in palandrana è variamente composto, prendendo a modello i film sulla Seconda guerra mondiale e sul Vietnam: una lo fa per soldi, una per gusto dell’avventura (la delusione sarà atroce), una per sfuggire alla giustizia, dopo aver ucciso il marito che la tradiva.

 

La narrazione dell’Isis – che le regole di Hollywood le conosce e le rispetta, unico cedimento all’occidente, e del resto per reclutare i giovanotti i soli versetti del Corano non bastano – va combattuta con gli stessi mezzi. Lo sostiene Ali Jaber, direttore libanese di Mbc: già sta lavorando alla versione in lingua inglese della serie. Narrazione contro narrazione, e speriamo che i buoni abbiano sceneggiature migliori.

 

Par girare “Black Crows” sono serviti 10 milioni di dollari, buona parte spesi in sicurezza. Per ricostruire pezzi di Isis in un villaggio sulle montagne libanesi bisogna mettere sotto protezione il set e gli attori (famosi e provenienti da tutto il mondo arabo). In un articolo su Libération dedicato alla serie, una nonna del Cairo dice che non la guarderà: “Ne parleranno tutti, ma io dopo un giorno di digiuno non voglio vedere né barbuti né attentati”. Per il suo Ramadan televisivo, sceglie “Au La La Land”, produzione egiziana e per sfondo un’isola esotica.

Di più su questi argomenti: