Foto LaPresse/Reuters

Cannes revolution

Mariarosa Mancuso

Il Festival del cinema francese si apre con la solita guerra contro i nuovi media. Lynch a parte

La prima scaramuccia nella guerra che oppone Cannes ai nuovi media si ebbe nel 2010. La serie “Carlos” diretta da Olivier Assayas fu tolta dal concorso, dove si trovava al momento della conferenza stampa, e fu collocata fuori concorso. Il regista era prestigioso, negli anni giovanili aveva fatto il critico per i Cahiers du Cinéma. Ma la parola serialità e ancor più la parola televisione erano bestemmie alle orecchie dei cultori del cinema come Arte (e dunque Punizione). Finì così: venne premiato con la Palma d’oro un thailandese che pochi critici avevano visto da svegli. Gli altri lodavano “Carlos”, e di lì a pochi giorni svisceravano il finale di “Lost”.

    

La guerra è dichiarata ufficialmente per l’edizione 2018. Quando in concorso saranno ammessi solo film con una distribuzione nelle sale francesi. Se fosse in vigore ora, né “The Meyerowitz Stories” di Noah Baumbach né “Okja”di Bong Joon-Ho potrebbero concorrere per la Palma d’oro. Entrambi sono targati Netflix, che li vuole immediatamente rendere disponibili sulla propria piattaforma (per chi ancora guarda la tv in soggiorno, telecomando alla mano da litigarsi in famiglia, l’abbonamento mensile costa quanto un biglietto del cine). E quindi niente uscita in sala. Non perché Netflix sia una perfida multinazionale che interrompe le nostre emozioni. Per una specie di comma 22: la legge francese prevede che i film usciti in sala possano andare su una piattaforma in abbonamento solo 36 mesi dopo.

   

Tre anni dovrebbero pazientare i poveri abbonati – un’eternità, mentre il cinema sta cambiando alla velocità del fulmine, con i cinesi che erano massa di pubblico e ora hanno montagne di soldi da investire nella produzione – se Netflix si azzardasse a far vedere “Okja” o “The Meyerowitz Stories” anche in un solo cinema fuori Festival di Cannes. Chi glielo fa fare? E chi glielo farà fare, quando verrà il momento di distribuire il prossimo film di Martin Scorsese, “The Irishman”, con Robert De Niro e Al Pacino? (Sembra che abbiano sborsato 100 milioni di dollari, quando nessun altro lo voleva produrre, dovranno pur rientrare).

     

O davvero il festival di Cannes avrà il coraggio di chiudere la porta in faccia a Martin Scorsese? Molti sono gli escamotage, oltre al concorso c’è il fuori concorso che rappattuma le gaffes (è sempre stato così, anche prima di Netflix). Ma si annunciano anni burrascosi. Del resto, una polemichetta c’era stata anche alla Mostra di Venezia per “Beasts of No Nation” di Cary Fukunaga: è giusto premiarlo se poi non fa guadagnare gli esercenti? A Cannes i distributori avevano nel 2002 avuto da ridire anche sulla proiezione digitale di “L’arca russa”, diretto da Alexander Sokurov: è giusto dargli spazio se poi non tutte le sale possono proiettarlo? Trattandosi di lungo piano sequenza dentro il Museo dell’Ermitage, con cenni di storia e letteratura russa, la polemica era pretestuosa: c’era comunque pochissima gente disposta a vedere il film.

    

Mentre la polemica infuria, attendiamo sulla Croisette David Lynch e il nuovo “Twin Peaks”. Ma non era una serie tv? Certo che lo era (ed era anche la dimostrazione che il regista ingabbiato dalla serialità e dalla committenza dava il meglio di sé). Arriva accompagnata dalla fanfara, il 25 maggio. Con quattro giorni di ritardo sugli americani, che l’hanno vista il 21, e tre giorni di ritardo sui francesi e gli italiani: Sky Atlantic promette l’originale non doppiato alle tre di notte del 22 maggio. Neanche le anteprime festivaliere sono più quelle di un tempo.

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