Jean BéraudDettaglio del dipinto di Jean Beraud's “La Conversation”

Amori bestiali

Umberto Silva

Léon Daudet, Proust e il sublime Schwob. Tra narcisismo eccelso e dediche macabre

Chi oggi sta sdraiato sul lettino, un lettino lontano nel tempo ma prezioso? Marcel Schwob, l’autore di quelle Vite immaginarie ove si possono incontrare Empedocle e Paolo Uccello, quel Marcel che sui lettini di fine Ottocento amava stendersi al fuoco voluttuoso? Leggere Schwob è una meraviglia, ma è di un suo amico che oggi c’interessa, un amico piuttosto feroce che parlava di Schwob come di “un ebreo di temperamento anarchico, che credeva di avere in orrore la sua razza, fino al giorno che essa lo prese per le viscere con l’affare Dreyfus”. Quell’amico si chiama Léon Daudet, figlio di Alphonse, colui che ci regalò l’incantevole Tartarin. Mario Andrea Rigoni ha in questi giorni scritto intorno a un libro di Léon Daudet, Ricordi letterari, edito dalla Scuola di Pitagora, e quel che si manifesta in quelle pagine è assai interessante anche per il nostro presente, letterario e politico. Che tipo era Léon Daudet, che amava la Belle Epoque, al contempo cercando di distruggerla? Un antisemita sfegatato e attivissimo per tutta la vita, tranne convertirsi alla fine dei propri giorni, quando imperversava l’inferno del nazismo. Se Léon fosse sopravvissuto, sarebbe stato punito, e autopunito, assai più che da una morte, certo più di quel che lo fu Louis-Ferdinand Céline, un folle genio del bene e del male che alla fine della Seconda guerra mondiale si limitò a stringere le spalle.

  

Parecchi tra gli innumerevoli libri di Daudet meritano una lettura, Léon merita molto meno. Eppure si prese un bel riconoscimento, forse il più desiderabile. Addentriamoci nell’incontro sentimental-letterario più misterioso dell’Epoca Bella, quello tra un ebreo che gloriosamente si batté per il capitano Alfred Dreyfus e Léon Daudet che quel capitano insultò. L’ebreo è Marcel Proust, che fin in punto di morte, nel 1922, mai smise, lui, il leggerissimo profondissimo Signore della scrittura e della vita, di difendere il martoriato ebreo Dreyfus e nel contempo di elogiare Léon, uomo corpulento e sanguigno, allegro e virulento, ottimo scrittore e aspirante assassino. Perché il delicato Marcel Proust – assai più simile all’altrettanto delicato Marcel Schwob, entrambi morti troppo presto, troppo cari agli dei – s’invaghì follemente di un Léon intelligente e coltissimo ma per esecrabili motivi anche spregevole? Cosa permise a Proust di scrivere una macabra dedica del tipo: “A Léon Daudet, l’incomparabile amico, in segno di gratitudine e ammirazione”. E non scrisse su un bigliettino che il tempo forse avrebbe cancellato, ma addirittura dedicando al corrosivo superuomo “Le coté de Guermantes”, il terzo volume della Recherche. Si possono fare delle ipotesi.

 

Se Schwob cantava le supreme virtù delle monelle, Proust era ben dentro la società, quella più alta ma anche più degradata, e lui è il ragazzo dagli occhi che tutto vedono. Vede il barone di Charlus degradarsi non tanto per le sue legittime smanie erotiche, quanto per l’ostentato disprezzo di nobile feudale nei confronti degli ebrei, con i quali si affanna a litigare. “L’opposizione antidreifusista, da puramente politica prima, ora è diventata sociale”, Proust chiarisce a tutti e a se stesso; e certo non si abbassa davanti ai nobili, nessuno come lui li deride. Ma allora, con Léon? L’ammirazione per la bestia lo fa stravedere? Proust amava il fascista Léon, lo amava al punto da fare il servile, al punto da irritare l’amatissimo musicista Reynaldo Hahn, anch’egli ebreo e omosessuale, che al grande amico scriveva: “Ti strangolerei”? Siamo nel gennaio dei 1921, perché Proust si abbassa così davanti a Léon? Gli piace quella sua bestialità, ma perché non cerca di convertirlo? Proust che converte non è male, come comicità. Non lo fa, piuttosto inonda di rose madame Daudet, omaggio di monsieur Proust a monsieur Léon… Marcel. Tripli giochi, il narcisismo proustiano è eccelso.

  

Donandogli se stesso, Proust ha donato in realtà a Léon Daudet qualcosa di falso ma anche di vero, qualcosa di cui un giorno Daudet il fascista si sarebbe pentito, e avrebbe inteso la grandezza e ironia di Proust. Marcel ha donato un tesoretto al cieco che solo in fin di vita avrebbe colto l’altrui genio e la propria follia. Capita anche dalle nostre parti qualcosa di simile? Chissà, forse c’è un qualche piccolo Proust che sa cordialmente annuire o sorridere all’altrui violenza. Un giorno si potrà cogliere la sottile grandezza e l’occasione che costui ci dona.

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