Una statua di Sigmund Freud (foto LaPresse)

L'illusione del sogno

Umberto Silva

Dal genio di Freud a Gatsby, il senso d’immortalità davanti al terrore del mondo che cambiava

Omaggio a Sigmund Freud e a un suo pensieroso gioiello, Lutto e Melanconia, capolavoro di cent’anni fa, il 1917, una lontananza immensa eppure sempre vicinissima. Anche allora c’erano stragi ovunque e orribili, anche se il campo di battaglia era un altro, non le sabbie del deserto ma le cittadine più belle dell’Europa e i campi e i boschi. Seppure assai meno infestati che quelli di un tempo, gli europei oggi tremano, in preda al terrore, quel terrore che allora era assai meno terrorizzante; uomini e donne pronti a qualsiasi lotta. Anche troppo. Freud trasecolò vedendo con quanto ardore i soldati lasciavano le fidanzate per andare a morire cantando.

 

Sigmund La Nuit. E’ scesa la sera e mi avvicino alla libreria dove stanno i neri volumi della vecchia edizione Boringhieri. L’argentea polvere del tempo li riveste, illumina quei giganti con cui s’inaugurò il Novecento e il pensiero umano incontrò una superba svolta, pur nell’inferno che regnava. Avvicinarmi a quei libri comporta entrare una volta di più nel sogno, così come immagino sia entrato il giovane Freud nei giorni dei can-can charcottiani alla Salpêtrière, quando Madame Isteria gli faceva l’occhiolino. Altri tempi, si era nella Belle Epoque, la volontà di vivere scorreva lungo i fiumi dorati che Renoir immortalava. Immortalità freudiana, appunto; scorrendo le pagine dell’Interpretazione dei sogni tocca chiedermi se sono sveglio, se davvero Freud esiste o è tutto un sogno, se le memorabili parole che ci ha lasciato in dono sono reali o il frutto di un mio lungo sonno, sicché tra un po’ mi sveglierò. Dove? Seduto alla scrivania o in un campo profughi in mezzo a ragazzini che piangono? Siamo sempre lì, e sempre là, nella gioia e nel dolore che presiedono le nostre vite.

 

Il ventiquattro luglio del 1895 il dottor Freud in elegante abito da sera riceve gli ospiti. Irma e Freud danzano lambendo ciascuno l’altrui desiderio, rimosso, sicché venga alla luce il figlio, la parola del sogno. Del sogno, solo nel sogno si può scrivere, il sogno è la lingua dell’inconscio. Anna O., L’Uomo dei topi, L’Uomo dei lupi, il Piccolo Hans… casi clinici nei quali Freud leggeva un romanzo tanto più enigmatico quanto più familiare, e i grandi scrittori e poeti della sua epoca si stupivano di una scienza che si coniugava con l’arte.E non era forse Sigmund Freud il personaggio da lui stesso più psicoanalizzato? Non solo Freud. Pare un gran brutto sogno quello di Josef K. che si risveglia con sconosciuti che s’aggirano nella sua casa. Pare, ma il sogno non è mai brutto, anche quando si presenta sotto le spoglie dell’incubo, una donna sgozzata, un palazzo che brucia, passanti accoltellati… Eppure qualcosa di reale sempre il sogno dona: se stesso; toccherà al parlante la gloriosa difficoltà di gustarne l’enigma. Che se facilmente si approdasse alla significazione, unica e dogmatica, attenti, è una trappola! Lo stesso cupo cappellano della cattedrale di Praga rende noto a Josef K. come nei secoli molti interpretarono la Parabola, con esiti sempre differenti. Ogni tentativo di uniformità fallisce, a ciascuno il suo sogno, a ciascuno la sua interpretazione. Nel dire, il sogno è già interpretato dal parlante, ci svela Freud, pacatamente. Freud, Kafka ma anche Shakespeare. Ogni qualvolta Amleto mi parla, cado in un misterico torpore che invece di sopprimere l’ascolto lo porta alle stelle, macabro ma così vivo sogno di Danimarca. Non è il sogno un qualcosa che dormendo avviene, bensì quel che si racconta a noi stessi, all’amico, allo psic, sogno che a ogni narrazione acquista nuove parole e significati e sfumature. 1917, s’incontrano a Louisville i primi sogni di Gatsby non ancora Grande e di Daisy, la cui gonna svolazzava al vento; si rincontreranno ancora, nel sogno di Fitzgerald.

 

“Ho sognato che abbracciavo mamma, ho sognato che papà moriva, ho sognato di correre, e cadeva una stella, ho sognato San Pietro, crollava …”. Anche quando pare concluso, sepolto in un dimenticatoio, il sogno è sempre vivo, un Wunderblock, un notes magico che mai si cancella, un palinsesto in cui incessantemente quel che accade si scrive e si riscrive. “Chi non ha segni ha sogni”, sentenziava Umberto Eco, ma rovescerei la sentenza in “chi non ha sogni ha segni” che indicano un qua e un là, e tanti li seguono, i segni, li omaggiano, s’inchinano all’algoritmo, la strada è segnata, troveranno il tesoro. Mah. Troveranno piuttosto lo scacco della ragione che troppo ragionevole si vuole, incapperanno nell’impietoso tornaconto, adoreranno il ghigno della segnaletica. Dispereranno, finché una folata di sogni li porterà lontano da sé, e dai segni di morte. Sicché mi permetto di dedicare un sogno alle ultime mai ultime parole di quella dolce ragazza che bruciava a Londra: “Grazie di tutto mamma, papà, amici. Vado in Paradiso”.

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