I giudici del processo Mafia Capitale (foto LaPresse)

I nuovi giustizialisti

Giuseppe Sottile

Pretendono giustizia, ma quando la giustizia arriva bastonano i giudici che la pensano diversamente

Saltellano da un convegno all’altro, non perdono né un dibattito né un confronto, girano senza sosta per le redazioni dei giornali e non c’è intervista o talk-show in cui non affermino che questa malandata Italia ha solo bisogno di verità e giustizia. Ma poi, quando la giustizia finalmente arriva, eccoli lì a sputacchiare sulle sentenze, a denigrare giudici e collegi giudicanti, a mettere in dubbio la legittimità di ogni verdetto che sia maledettamente difforme dalle loro aspettative. Sono i giustizialisti di nuovo conio, quelli che non smettono di bacchettare la politica in nome degli interessi superiori della giustizia ma che puntualmente bastonano ogni tribunale o corte di appello che, dopo avere attentamente esaminato prove e testimonianze, arrivi a conclusioni diverse da quelle ipotizzate dalle procure o, peggio ancora, da quel vivacissimo circo mediatico che le procure ormai si portano costantemente dietro.

 

Prendiamo quello che è successo con Mafia Capitale, la maxi inchiesta approntata dai pubblici ministeri di Roma per colpire e affossare le cosche che, secondo la loro tesi, ammorbavano la vita politica e amministrativa del Campidoglio. Un’inchiesta mastodontica e non solo per il numero di imputati che ha trascinato davanti a un tribunale, ma anche per le attese, le solidarietà e le mobilitazioni politiche che un’accusa così pesante ha finito per raggrumare attorno ai magistrati: si sono spesi scrittori e giornalisti, non sono mancate le fiction televisive né le suburre né i romanzi criminali. Ma quando è arrivata la sentenza che pure ha sparso a piene mani condanne per corruzione ma ha categoricamente escluso l’aggravante mafiosa, i giustizialisti di pronta indignazione sono esplosi in coro dicendo che i giudici del tribunale non hanno capito un bel niente perché a Roma la mafia, quella mafia che i pm hanno descritto così bene, c’è, e chi non la vede o è cieco o è in cattiva fede. Sono insorti i fedelissimi di Beppe Grillo; è intervenuto Roberto Saviano, sommo scrittore di camorra; hanno puntualizzato le proprie idee editorialisti e opinionisti; ha detto la sua il procuratore capo Giuseppe Pignatone e pure il capo della polizia Franco Gabrielli: tutti lì a lamentarsi perché la mafia che doveva esserci non c’è stata; tutti a strapparsi le vesti perché Roma, pur così piena di corruttori e lazzaroni, di cravattari e speculatori, non ha un boss stragista al pari di Totò Riina né picciotti sanguinari alla stregua di Giovanni Brusca – quello che azionò il telecomando per massacrare sull’autostrada di Capaci il giudice Giovanni Falcone – o di quegli altri corleonesi che per bloccare le rivelazioni di un pentito non hanno avuto scrupoli a sciogliere il figlio di 12 anni nell’acido muriatico. Tutto si poteva immaginare, nell’Italia dei zibaldoni e dei ribaltoni, tranne che i giustizialisti manifestassero – lo annota oggi su Panorama il direttore Giorgio Mulè – “una malsana voglia di mafia”. Ma tant’è.

 

Questo non significa, ovviamente, che le sentenze non si possano o non si debbano criticare; ci mancherebbe altro. Ma la giustizia, così tanto invocata dai giustizialisti, è fatta di sentenze; e le sentenze sono scritte da giudici autonomi e indipendenti sulla base delle prove che gli uffici dell’accusa sono riusciti a produrre e comunque dopo un ampio e approfondito confronto in aula tra accusa e difesa. Se si afferma il principio che le sentenze emesse in nome del popolo italiano possano essere invece il frutto di chissà quali manovre o di chissà quali superficialità, allora bisognerà mettere nel conto che siamo di fronte al crollo di una istituzione. E’ questo il risultato finale a cui mira la ridotta giustizialista che in questi giorni tiene banco su certi giornali e nelle stanze più estreme di poche ma bene individuate procure?

 

A fianco di una intellighenzia che mostra insofferenza verso un tribunale che, valutati i fatti e i riscontri, decide di ridurre Mafia Capitale a una sorta di Mazzetta Capitale c’è poi un particolare filone del giustizialismo che, pur di affermare le ragioni di una propria campagna politica, non esita a demolire persino la legittimità della Cassazione, quella che in gergo giudiziario si ama definire la Suprema Corte, cioè la punta più alta dell’equilibrio e della sapienza giuridica. E’ successo, tanto per restare alla cronaca delle ultime ore, che i supremi giudici di piazza Cavour hanno fatto serenamente a pezzi l’inchiesta avviata dal pm napoletano John Woodcock sulla presunta corruzione alla Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione. E l’hanno fatto con motivazioni pesanti, pesantissime: sostenendo che ci sono state non poche forzature nelle intercettazioni e che alla base dell’indagine c’era più fumo che arrosto. In un paese ordinato, e che abbia soprattutto rispetto per l’ordinamento giudiziario, un pronunciamento così severo da parte della Suprema Corte avrebbe dovuto sollevare un giudizio altrettanto severo sul pm titolare dell’inchiesta. Invece i giustizialisti da combattimento, forse perché mossi dal proprio interesse politico, hanno preferito sporcare con una coltre di sospetto l’autorevolezza della Cassazione. Avete letto il titolo del Fatto quotidiano? “Gara di solidarietà. Csm, procuratore e Cassazione: tutti in soccorso di papà Tiziano”. Dove il Tiziano è notoriamente il padre dell’ex premier Matteo Renzi, oggi segretario del Pd.

 

Ma se un tribunale non vede la mafia che c’è; e la Suprema Corte svende il proprio prestigio per soccorrere il padre di un potente, quale fiducia potranno ancora avere nella giustizia i cittadini italiani? Se mai ne fosse rimasta un po’ di quella fiducia, la ridotta del giustizialismo non manca occasione per annientarla.

  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.