La giustizia dei rumori

Giuseppe Sottile

Il giudice Falcone cercava la giustizia delle verità, molti dei suoi “eredi” invece…

Da un lato c’è la giustizia delle verità; verità nude, secche, ossificate dal tempo e dalla pazienza, provate, dibattute, e poi fissate in sentenze pronunciate a nome del popolo italiano ed emesse al di là di ogni ragionevole dubbio. Dall’altro lato c’è la giustizia dei rumori, delle chiacchiere, delle urla e delle piazze; la giustizia dei teoremi e dei processi amministrati non dal rigore dei codici ma dai titoli dei giornali.

 

Da un lato c’è Giovanni Falcone, il giudice antimafia straziato il 23 maggio di venticinque anni fa nell’attentato di Capaci. Dall’altro lato ci sono molti dei magistrati che sono venuti dopo, quelli che puntualmente lo ricordano e lo citano, quelli che confidenzialmente preferiscono chiamarlo Giovanni e che sul suo sacrificio hanno costruito una retorica buona per tutti gli azzardi e tutte le petulanze.

 

Cominciamo dal 1989, quando la piazza dell’antimafia dura e pura – la piazza dove troneggiavano il sindaco Leoluca Orlando e il gesuita Ennio Pintacuda – chiedeva a gran voce di impiccare al cappio della gogna l’eurodeputato Salvo Lima, padre padrone di quella vasta fetta della Dc siciliana che faceva capo alla corrente di Giulio Andreotti. Mani espertissime e menti raffinatissime lanciarono dentro il palazzo di giustizia una trappola ammiccante e ruffiana. Fecero sapere a Falcone che nel carcere di Alessandria c’era un pentito, Giuseppe Pellegriti, pronto a dichiarare che dietro gli omicidi eccellenti degli ultimi anni – quelli di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre e di Carlo Alberto Dalla Chiesa – c’era proprio lui: il torvo, opaco e maleodorante Salvo Lima. Ma il giudice Falcone non ci cascò. Volò ad Alessandria, interrogò Pellegriti, cercò i riscontri e quando verificò che dietro il siparietto c’era soltanto fuffa, tornò rapidamente a Palermo e nello spazio di due giorni incriminò Pellegriti per calunnia. L’antimafia militante, ovviamente, non sopportò l’oltraggio. Si trasformò in sinedrio e gli scaricò addosso una raffica di insulti, il più tenero dei quale fu “venduto”.

 

Cominciamo dal 1989, quando il magistrato ucciso a Capaci smascherò il pentito che indicava Salvo Lima come mandante

Quelli che sono venuti dopo di lui, quelli che si definiscono eredi o addirittura allievi prediletti quale giustizia hanno contrapposto a quella che Falcone amava costruire con le prove e con i riscontri? Hanno preso Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, e lo hanno trasformato in una “icona dell’antimafia” da portare in pellegrinaggio in tutti i talk-show dove i conduttori politicamente più impegnati, da Michele Santoro a Marco Travaglio, erano pronti tessere le lodi di un magistrato, Antonio Ingroia, che non si accontentava più delle verità scritte nelle sentenze, ma voleva andare oltre, molto oltre, fino al buco nero delle complicità e dei misteri che, dalla strage di Portella della Ginestra in poi, hanno ammorbato e pesantemente condizionato la vita della Repubblica.

 

Solo che Ciancimino, come si è visto dopo, non raccontava verità ma castronerie che nessuno ha voluto o saputo arginare. Certo, nessuno nega che alla fine Massimuccio è finito pure lui sotto scopa per calunnia, come Pellegriti. Ma è altrettanto vero che con le sue temerarie ricostruzioni è stato costruito un processo – quello sulla fantomatica trattativa tra lo Stato e i boss di Cosa nostra – che da quattro anni si trascina stancamente davanti alla Corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto.

 

Arriverà un brandello di verità? In questi quattro anni sono successe tante cose: Antonio Ingroia, il procuratore che ha imbastito la mastodontica inchiesta, forte del successo mediatico ha tentato la discesa in politica ma, dopo avere collezionato un flop pari solo alla sua ambizione, ha trovato riparo in un posticino di sottogoverno messogli a disposizione dal governatore della Sicilia, Rosario Crocetta; Massimo Ciancimino, invece, è finito in galera non tanto per le calunnie ma perché, mentre confidava a Ingroia le scelleratezze mafiose apprese dal padre, nascondeva in casa una quantità tale di tritolo da fare saltare in aria un intero palazzo. Eppure, nonostante le imprese di Ingroia e Ciancimino abbiano fatto crollare la credibilità delle accuse, c’è ancora un’antimafia chiodata che non vuole rassegnarsi all’evidenza e che cerca, con l’aiuto di una piazza sempre bene orchestrata, di trasformare il processo sulla Trattativa in un pozzo nero dentro il quale affogare non solo l’onore dello Stato, ma anche e soprattutto la vita di quei due generali dei carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni, che negli anni maledetti del sangue e delle stragi, arrestarono Totò Riina, boss di tutti i boss, e lo seppellirono dentro il carcere a vita.

 

Fine gogna mai. Basta confrontare la durata dei processi di ieri e di oggi per capire che serve una coraggiosa riflessione

E’ un’antimafia testarda e impietosa quella che soffia sul fuoco di questo processo: Mori, ex comandante del Ros, è ormai un imputato di professione che per quasi vent’anni è passato da un processo all’altro, sempre assolto. Ma vent’anni di gogna non sono bastati; perché Ingroia alla fine del 2012 l’ha tirato dentro la Trattativa e lo ha calato in un supplizio che non si sa nemmeno quanto potrà durare: a occhio e croce, visto che dovrà ancora concludersi il giudizio di primo grado e visto che dopo bisognerà aspettare le sentenza d’appello e quella della Cassazione, il calvario potrà dirsi concluso attorno al 2023.

 

E’ una giustizia da tempi lunghi quella che, dopo Falcone, macina calunnie e mascariamenti, intercettazioni e sputtanamenti, rancori e fanatismi. Il motivo è semplice: i tempi lunghi moltiplicano le chiacchiere, amplificano i rumori, dilatano i sospetti e lasciano intatta quella confusione rintronante dentro la quale, alla fine della fiera, si insabbia – lentamente, inesorabilmente – lo stato di diritto.

 

Sul numero di Panorama che potrete trovare in edicola sin da oggi, Riccardo Arena, autorevole cronista giudiziario di Palermo, presenta una puntuale analisi sulla durata dei processi, almeno di quelli sui quali tanto si è detto e scritto. E lo fa con dei raffronti che dovrebbero quantomeno spingere a una seria riflessione non solo il ministro della Giustizia o Commissione parlamentare antimafia, ma anche e soprattutto il Consiglio superiore della magistratura.

 

Nei processi che non finiscono mai un ruolo centrale spetta ancora a Massimo Ciancimino, il pataccaro della Trattativa

Il primo raffronto è quello relativo ai pentiti truffaldi e impostori che, pur di salvare la propria pelle, non hanno esitato a imbrogliare le carte e a crocifiggere chiunque si trovasse ad attraversare la loro strada. Per smascherare Giuseppe Pellegriti, il giudice Falcone impiegò due giorni. Per smascherare Vincenzo Scarantino, il picciotto che a Caltanissetta ha accusato sette persone, condannate all’ergastolo per il massacro di Paolo Borsellino e poi scarcerate senza nemmeno tante scuse, la giustizia siciliana del dopo Falcone ha impiegato ventitré anni lungo i quali si sono snodati tre processi, con le corti e i pm tutti concordi nell’assegnare fiducia a Scarantino, più volte pentito di essersi pentito e mai creduto quando ritrattava.

 

Il secondo raffronto parte dal maxi processo, quello che assegnò alla mafia la più devastante sconfitta e condannò all’ergastolo non solo i padrini della “cupola” ma anche i boss e i picciotti dei singoli mandamenti, da Riina a Bernardo Provenzano, da Michele Greco a Leoluca Bagarella. “Se il maxi processo – scrive Arena – venne imbastito e avviato nell’arco di tre anni e mezzo e poi fu concluso, con la sentenza di Cassazione, in sei anni meno dieci giorni (10 febbraio 1986 - 30 gennaio 1992) il nuovo sistema dei processi-contenitore porta a inchieste interminabili, complesse, a dibattimenti infiniti, tutti immancabilmente in favore di telecamera, costantemente alimentati da sempre nuove accuse”. L’esempio più clamoroso è quello di Marcello Dell’Utri: la procura di Gian Carlo Caselli gli puntò gli occhi addosso a metà degli anni Novanta, la sentenza che lo ha portato al carcere di Rebibbia è arrivata diciassette anni dopo. Un record. Che comunque non chiude i suoi conti aperti con la giustizia: l’ex manager Fininvest infatti è, assieme ai generali Mori e Subranni, tra gli undici imputati della Trattativa e, nella migliore delle ipotesi anche la sua vicenda potrà chiudersi non prima del 2023.

 

 E' una giustizia dai tempi lunghi quella che macina calunnie e mascariamenti, intercettazioni, sputtanamenti e rancori

Fine gogna mai, verrebbe da dire. E verrebbe da dirlo anche per l’ex ministro democristiano Calogero Mannino che per tredici anni è stato imputato di concorso esterno ed è stato definitivamente assolto; però, quando già pensava di godersi la vecchiaia senza più salire e scendere le scale dei tribunali, ecco arrivare l’incriminazione per la Trattativa, finita anche questa in una sentenza di assoluzione emessa dal giudice del rito abbreviato ma puntualmente impugnata dai rappresentanti dell’accusa. Se non ci saranno altri intoppi pure per Mannino la fine, se mai fine ci sarà, non potrà arrivare prima del 2023.

 

Altro che giustizia delle verità. Si dichiarano tutti figli e allievi di Falcone ma hanno trasformato molte aule del Palazzo di giustizia in altrettante stanze della tortura. Che Dio ce ne scampi.

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  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.