Massimo Ciancimino (foto LaPresse)

Come il dio della beffa macina in Sicilia angeli e demoni dell'antimafia

Giuseppe Sottile
Se avessimo un puntino di lettera e di letteratura,  potremmo anche pizzuliare una citazioncina dal Paradiso perduto di John Milton. Esattamente lì dove il poeta inglese spinge Lucifero nel vortice della dannazione e poi meravigliosamente gioca col dio della beffa, sempre pronto a trasformare “un paradiso nell’inferno e un inferno nel paradiso”.

Se avessimo un puntino di lettera e di letteratura,  potremmo anche pizzuliare una citazioncina dal Paradiso perduto di John Milton. Esattamente lì dove il poeta inglese spinge Lucifero nel vortice della dannazione e poi meravigliosamente gioca col dio della beffa, sempre pronto a trasformare “un paradiso nell’inferno e un inferno nel paradiso”.  Perché solo una teologia fantasiosa e avventata come quella di Milton potrebbe spiegare oggi  quel che succede nel vasto mondo dell’antimafia. Che sarà pure un mondo buono, come quello del Mulino bianco, ma riesce a creare ogni giorno una indicibile confusione: con il risultato che, per noi poveri mortali, diventa sempre più difficile stabilire chi, dentro quel mondo, è un angelo o un demonio, un re della luce o un principe delle tenebre.

 

Agganciamoci subito alla cronaca. Oggi, 11 febbraio 2016, all’aula bunker di Palermo riprende “l’escussione del teste” Massimo Ciancimino, figlio di don Vito e uomo chiave del maxi processo sulla fantomatica Trattativa fra lo stato e i boss di Cosa nostra. Più che un teste Massimuccio, come certificato da due processi e mezzo, è un pataccaro. Si è inventato accuse contro i nemici suoi e del padre, ha contraffatto documenti ed è arrivato al punto di sparare una minchiata colossale come quella venuta fuori pubblicamente la settimana scorsa: in un interrogatorio di quattro anni fa davanti ai pubblici ministeri di Palermo e Caltanissetta ha dichiarato di avere riconosciuto in una immagine televisiva di Ugo Zampetti, ex segretario generale della Camera e ora al vertice del Quirinale, nientemeno che il volto del “signor Franco”, lo spione mai rintracciato e mai identificato che, secondo il romanzo costruito a uso dei procuratori, avrebbe tenuto nei primi anni Novanta le fila della Trattativa tra don Vito, alcuni vertici degli apparati investigativi e quei due malacarne d’alta mafia che  rispondevano al nome di Totò Riina e Bernardo Provenzano.

 

L’ultima patacca, proprio per le sue proporzioni, sta mettendo  non poco in difficoltà i pm che, nell’aula bunker, debbono per dovere di ufficio sostenere l’accusa. E sta pure provocando una leggera venatura di vergogna a tutti i  ragazzi del coro che, tra la fine del 2012 e la primavera del 2013, avevano accolto il rampollo di mafia nel paradiso dell’antimafia. Cori di angeli e arcangeli, com’è facile ricordare: c’erano stati giornalisti plaudenti, televisioni osannanti, militanti in delirio: primo fra tutti quel Salvatore Borsellino, fratello del giudice assassinato, che non aveva mostrato pudore alcuno nel tributare al redento pubblici abbracci e privati sentimenti di stima. E, al di là del coro, c’era stato soprattutto lui, il regista e lo sceneggiatore di tutta l’operazione Trattativa: quell’Antonio Ingroia che, per rendere il testimone appetibile a ogni giornale e a ogni talk show, aveva definito Massimuccio “quasi una icona dell’antimafia”.

 

Tempi andati, si dirà: Ingroia, tanto per citare la spietata annotazione di Pietrangelo Buttafuoco, si ritrova ormai a cantare nei matrimoni e Massimo Ciancimino, che di Ingroia era diventato processualmente una sorta di figlio adottivo, difficilmente rimarrà nel paradiso dei buoni. Anzi, il suo destino sembra già segnato: chiusa la stagione delle calunnie e delle bugie, sarà risucchiato dal suo stesso mondo, in quella palude di mafia e mezza mafia dove “la luce taglia le tenebre ma le tenebre non l’afferrano”.
Resterà solo da capire come tutto questo sia potuto succedere.

 

E resterà soprattutto da individuare il nome da dare al dio della beffa, alla mente che ha avuto il potere di trasformare le fanfaronate di un ventriloquo – Massimuccio ventriloquo di suo padre, appunto – negli atti di un processo che da quasi tre anni si celebra davanti alla Corte di assise presieduta da Alfredo Montalto. “The mind is its own place”, scriveva Milton per celare l’identità di quel dio infinito e malsano.

 

Una identità sempre più difficile da cogliere. Per trovarne traccia è utile forse spostarsi dall’aula bunker di Palermo alla procura di Caltanissetta. Qui un angelo consacrato e riconosciuto per oltre quindici anni da tutte le antimafie, Antonello Montante, presidente degli industriali siciliani, è stato all’improvviso privato del suo splendore e cacciato nel gorgo di un’inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa. Oggi, 11 febbraio del 2016, mentre a Palermo riprenderà a parlare Massimo Ciancimino, a Caltanissetta si riunirà il Tribunale del riesame per stabilire intanto se erano legittime le perquisizioni disposte dalla procura il 16 gennaio scorso con una ordinanza che metteva un bollo di ufficialità a un’inchiesta fino a quel momento trapelata solo da una indiscrezione di stampa.

 

I giudici del Riesame avranno modo di valutare sostanza e dimensione del paradiso vissuto fino al mese scorso da Montante. Il quale oltre a essere presidente degli imprenditori siciliani è stato ed è tuttora vice presidente nazionale di Confindustria con delega alla legalità. Chi poteva mai dubitare della sua antimafia? Per quindici anni ha viaggiato e viaggia tuttora super scortato, e non c’è stato giorno che non abbia tenuto un convegno o una manifestazione con prefetti e questori, con magistrati e alti ufficiali dei carabinieri, della polizia, della guardia di finanza. E’ stato l’esponente più in vista del paradiso dei buoni e quando Matteo Renzi, presidente del Consiglio, e Angelino Alfano, ministro dell’Interno, hanno dovuto individuare una personalità di primo piano a cui affidare l’Agenzia per la gestione dei beni confiscati alla mafia, un tesoro di oltre trenta miliardi di euro, la scelta non poteva che cadere su di lui, manager e contemporaneamente leader di quegli industriali siciliani che avevano guidato la rivolta contro il racket: gloria in excelsis deo, avrebbero potuto cantare in quel momento gli angeli di Milton, i Cherubini e i Serafini i Troni e le Dominazioni. Senza sapere però che la giustizia non è di questa terra ma nemmeno di quei cieli. Pochi giorni dopo l’incoronazione insorge infatti il dio della beffa e per Antonello Montante il paradiso comincia a trasformarsi in un inferno. Con un terremoto giudiziario il cui epicentro, non ci crederete, non sta né a Palermo né a Roma, ma a Serradifalco, un paesello di seimila abitanti, lungo il vallone delle miniere che da Caltanissetta porta verso Misilmeri, dove negli anni della guerra il nonno di Montante, ‘u zu Calò, impianta una minuscola fabbrica di biciclette, cantata  – è il caso di dirlo – da un libro scritto per Sellerio da Gaetano Savatteri e da un racconto di Andrea Camilleri.

 

Cercando e cespugliando, il dio della beffa scopre che a Serradifalco hanno spadroneggiato, proprio così, due mafiosi  di piccolissimo taglio, padre e figlio. E scopre anche che attorno a questa cosca di paisanuzzi si muove un pentito che pur essendo sottoposto, come un Giovanni Brusca o un Totuccio Contorno, al programma di protezione, trova comunque il tempo di postare il suo profilo su Facebook e di avere scambi di opinione con chiunque si trovi di lì a passare.

 

Per il dio della beffa il giochino è sin troppo facile. La miscela c’è tutta: i boss, i pentiti, il  sospetto di favoreggiamento. Non resta che aprire un fascicolo e diffondere la voce di un’inchiesta che al più presto avrà chissà quali sviluppi. Il resto verrà. E infatti è puntualmente venuto: è bastato l’ordine di perquisizione e Lucifero, che era l’angelo più lucente dell’antimafia, è diventato di colpo il principe delle tenebre.

 

[**Video_box_2**]Resta da capire però quali fatti e quali peccati gli accollano  i procuratori. E’ stata la superbia, l’ambizione, l’arroganza a trascinare Montante sulla strada della perdizione e del doppio gioco? E’ stato quel modo troppo disinvolto di fare carriera, di chiudere affari o di acquistare potere servendosi comunque dell’antimafia? La storia del movimento, avvertono i puri e duri, è stata anche storia di inevitabili eccessi e di imprevedibili devianze. Ma potrebbe essere stata anche l’invidia degli altri, o la paura degli altri, o il gioco sporco di qualche altro. Non sarà facile stabilirlo e forse non basterà nemmeno qualche mese. L’unica certezza è che i guai giudiziari cominciano nel momento stesso in cui il presidente degli industriali siciliani viene nominato all’Agenzia per i beni confiscati. Lì ci sono i soldi, tanti soldi. E i piccioli, si sa, fanno venire la vista agli orbi.

 

Altro che dio della beffa. “The mind is its own place”, recita la teologia di John Milton. E c’è da star certi che appartiene al dio dei piccioli la mente terrena che, muovendosi tra mafia e antimafia, riesce pur sempre a trasformare un diavolo in angelo e un angelo in demonio.

  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.