Donald Trump (Foto LaPresse)

C'è un bel caos in Asia, e tutti hanno paura di una telefonata di Trump

Giulia Pompili

Il presidente americano ha fatto saltare il tavolo con l'Australia sulla gestione dei rifugiati. E in Giappone sono tutti appesi a Ivanka

La peggiore telefonata finora. Così il presidente americano Donald Trump ha definito la conversazione avuta sabato scorso con il primo ministro australiano Malcolm Turnbull – una telefonata che si è chiusa, secondo quanto riportato dal Washington Post, dopo 25 minuti di urla di Trump contro l’alleato australiano, ma soprattutto con la cornetta sbattuta bruscamente dalla Casa Bianca. Turnbull aveva chiesto all’Amministrazione Trump di rispettare l’accordo siglato a novembre con Barack Obama, secondo il quale gli Stati Uniti avrebbero dovuto accogliere 1.250 rifugiati al momento detenuti nelle carceri australiane di Papua Nuova Guinea e Nauru. Adesso, con il tavolo fatto saltare da Trump, Turnbull ha detto che non sa più quanti rifugiati accoglierà l’America, e potrebbe riaprirsi per Canberra l’ennesima crisi migratoria (l’Australia non è mai stata molto tenera con i suoi migranti, che vengono confinati nelle isole in attesa di un trasferimento). Poche ore prima della telefonata con Turnbull, il presidente aveva firmato il discusso ordine esecutivo sui rifugiati. Lo stesso giorno delle urla contro Turnbull, Trump aveva avuto una conversazione anche con il presidente russo Vladimir Putin, e riferendosi a quella con l’Australia come “la peggiore telefonata della giornata” ha candidamente espresso una preferenza per Mosca. Ma la notizia dell’incomprensibile durezza con l’Australia – sottolineata dal solito tweet di Trump: “Riuscite a crederci? Obama ha accettato di accogliere migliaia di rifugiati illegali dall’Australia. Perché? Mi studierò questo stupido accordo” – è importante anche dal punto di vista strategico: finora Canberra era stata la più forte alleata di Washington nel quadrante del Pacifico, oltre a essere la terza potenza prevista, dopo America e Giappone, nel Trans Pacific Partnership affossato da Trump. (Ieri Trump ha rassicurato tutti parlando a un evento a Washington: “Se venite a sapere di mie telefonate un po’ violente, non vi preoccupate. E’ che io sistemo le cose così”).

 

Nel resto del Pacifico le cose non vanno meglio. L’Australia sta passando un periodo di rapporti difficili anche con l’Indonesia – considerata da molti analisti come la vera chiave di volta degli equilibri asiatici – per scaramucce legate a incidenti militari e provocazioni civili. Il Giappone, nel frattempo, non sa più come fare con Trump. Ieri il quotidiano Asahi citava fonti anonime del governo di Shinzo Abe secondo le quali a Tokyo sono tutti ormai appesi a Ivanka Trump. Sabato scorso Donald ha avuto una telefonata anche con Abe, e avrebbe riferito al premier giapponese che la figlia Ivanka lo considera “un uomo molto intelligente”, e sarebbe stata lei a suggerire al neopresidente di seguire i consigli del premier nipponico. I due leader si vedranno il 10 febbraio, tra una settimana, prima a Washington e poi a Palm Beach, e Abe avrà molte domande da porre: prima di tutto cosa fare del Tpp, sul quale aveva basato l’intera Abenomics. Poi ci sarà da chiarire le accuse mosse da Trump contro il Giappone, incolpato di manipolare lo yen a svantaggio del dollaro “proprio come fa la Cina”. Un’offesa pubblica enorme per i giapponesi, che fanno della retorica e dell’arte politica un punto d’orgoglio (per non parlare del paragone con le tecniche di manipolazione della valuta cinesi). Masatsugu Asakawa, viceministro delle Finanze, ha parlato di critiche “a bit untrue”, come dire: fake news.

 

Intanto l’Asia si prepara alla guerra. Il segretario alla Difesa Jim Mattis ha iniziato ieri il suo primo viaggio di stato. E’ atterrato a Seul, dove ad accoglierlo c’era il primo ministro Hwang Kyo-ahn, presidente facente funzioni – la presidente Park Geun-hye è ancora in attesa di giudizio per il suo impeachment. Mattis ha ribadito alla Corea del sud l’importanza strategica ed essenziale del dispiegamento del Thaad, il sistema antimissilistico progettato da Lockheed Martin che dovrà proteggere gli alleati americani dai missili nordcoreani. Il problema, però, è sempre la Cina: gli enormi radar d’intercettazione che usa il Thaad controlleranno anche i movimenti di Pechino. Non è un caso se ieri il Guardian ha ripescato due vecchie interviste di Steve Bannon, il più strategico dei consiglieri di Trump, che nel marzo del 2016 aveva detto: “Ci sarà una guerra tra America e Cina nel Mar cinese meridionale entro i prossimi dieci anni. Non ci sono dubbi”. Il disimpegno militare americano dal Pacifico potrebbe essere pericolosissimo: ecco il perché della pronta visita di Mattis, che domani volerà a Tokyo dove chiederà al Giappone di aumentare la spesa militare. Una delle promesse della campagna elettorale di Trump era infatti di ridurre le spese nel Pacifico, e di far pagare di più i paesi “che l’America protegge nel Pacifico”. Ma come si fa, con la Cina sul piede di guerra? E come si fa, visto che la Corea del nord avrebbe riattivato il reattore per la produzione di plutonio, e con la “red line” tracciata da Trump via Twitter sul prossimo test di missile balistico (“Non succederà!”)?

 

Manovre elettorali in Corea del sud. L’ex segretario generale dell’Onu, arrivato in Corea del sud e pronto a iniziare la campagna elettorale per le presidenziali, l’altro ieri si è ritirato dalla corsa (a dire il vero, senza mai averla formalmente annunciata). Una mossa che ha spiazzato un po’ tutti, perché chiunque avrebbe scommesso se non su una vittoria, quantomeno sul suo contributo per uscire dalla crisi politica iniziata nell’ottobre scorso. Ban Ki-moon, uomo di establishment internazionale, era caduto nei sondaggi in Corea, e durante una conferenza stampa ha detto che a spingerlo alla decisione di ritirarsi è stata soprattutto la richiesta del partito conservatore Saenuri di dichiararsi “un conservatore”: “Mi è stato detto che dovevo scegliere chiaramente un lato per essere un politico. Ma una persona che lavora solo per i conservatori non è in grado di essere presidente. Sono conservatore, ma la mia coscienza non mi permette di accettare questo discorso”. Fatto fuori Ban, e qualora la presidente Park fosse costretta a lasciare, si terranno nuove elezioni e nessuno sa chi potrebbe vincere. La tentazione populista è dietro l’angolo.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.