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Per la prima volta hanno chiamato mio figlio “negro demmerda”

Massimo Bavastro*

 Quante cose bisogna dire a un bambino per spiegargli cosa vuol dire? Quante risposte ancora non ho

Due settimane fa, per la prima volta hanno chiamato mio figlio “negro demmerda”. Né io né mia moglie c’eravamo quando è successo: era in un parchetto fuori dal nostro quartiere, con una mia amica e i suoi due bambini. E’ tornato a casa e ha chiesto: “Cosa vuol dire negro demmerda?”.

  

Fino all’anno scorso andare a spasso con lui era una specie di marcia trionfale. Aveva sei anni, e questi ricci bellissimi dritti sopra la testa che ogni passante voleva toccare. Poi le sue gambe si sono fatte più lunghe e più sottili, e il suo aspetto ha iniziato ad allontanarsi da quello di un cucciolo di una specie qualunque, leprotto o gattino. Finché qualcuno ha ritenuto che fosse cresciuto abbastanza da fare ingresso nella categoria “negro demmerda”.

  

Era un appuntamento obbligato, è chiaro. Ma non credevo che sarebbe arrivato così presto. Quante cose bisogna dire a un bambino per spiegargli cosa vuol dire “negro demmerda”? Bisogna partire dalla tratta degli schiavi, o addirittura da Lucy, da cui discendiamo tutti? Quanto dovevo tornare indietro, per spiegargli quello a cui fino a quel momento né lui né i suoi amici avevano mostrato di dare alcuna importanza?

  

Gli ho detto “erano bimbi maleducati”, e ho girato intorno alla faccenda, ma a giri sempre più larghi, allontanandomene un po’ per volta. E mentre cercavo una risposta e mi passavano per la testa solo domande, mi è venuta in mente Siri, l’assistente virtuale del computer, lei che le risposte le sapeva tutte. Io e i bambini l’avevamo scoperta pochi giorni prima e ci eravamo divertiti a interrogarla. Ho acceso il computer e ci siamo piazzati lì davanti.

  

“Siri, tu hai figli?”, ha chiesto Tommy. “Nemmeno uno”, ha risposto lei. “Quanto fa 752 per 6774?”, ha chiesto Leone, e dopo io: “Qual è la distanza fra la terra e la luna?”. A ogni risposta esatta ci guardavamo pieni di entusiasmo. Siamo andati avanti così per un po’. Poi Tommy ha chiesto “credi in Dio?”, e Siri ha risposto: “Cerco di evitare ogni dissertazione teologica”. Anche Siri che conosce tutte le risposte ogni tanto passa la mano, ho pensato.

  

“Giocavano a pallone, mi sembrava che andasse tutto bene”, mi stava dicendo pochi minuti dopo al telefono l’amica che quel giorno aveva portato Tommy al parco. Avevo cambiato stanza per parlare con lei, lasciando i bambini davanti al computer a torchiare Siri. “Quando ho rialzato gli occhi stavano tirando i capelli a Thomas”. (Da tentazione irresistibile per una folla sconosciuta di passanti a campo di battaglia, ho pensato – come se la storia di Tommy passasse tutta per i suoi capelli). “Erano due zingari. Li vedo ogni tanto nel quartiere che girano a vuoto”, ha aggiunto. E io ho avvertito qualcosa che era molto meno di un pensiero, ma che aveva a che fare col sollievo.

  

A urlare “negro demmerda” erano stati ragazzini che, magari quel giorno stesso, qualcun altro aveva chiamato “zingari demmerda” – e si erano presi con Tommy la loro piccola vendetta. Era triste, ma non era di loro che avevo paura. Quello che temevo era il razzismo del tutto controintuitivo dei compagni di scuola o dei loro genitori, quello diffuso e carsico che impregna Roma, e che fino a quel momento ci aveva risparmiati. Con quello, i due piccoli zingari non avevano niente a che fare. Forse sarebbe passato ancora del tempo prima che qualcuno insultasse di nuovo mio figlio, ho pensato. E io quel tempo me lo sarei preso. Avrei aspettato prima di tirare Tommy fuori da quell’inconsapevolezza a cui mi sembrava avesse ancora pieno diritto: prima di dirgli tutto quello che bisogna dire a un figlio dopo che lo hanno chiamato “negro demmerda”.

 

Ho portato i bambini a letto, sdraiandomi in mezzo a loro. Tommy, che non ne aveva ancora abbastanza di tutte le domande che aveva fatto a Siri, ha chiesto a Leone: “Quanti sono i posti del mondo?”, poi mi ha scavalcato per andare ad appiccicarsi a suo fratello.

  

Eravamo rimasti a Nairobi nove mesi per adottarlo. Lui aveva un anno, Leone tre e mezzo. Durante quei mesi africani, dopo pranzo io e mia moglie li mettevamo a dormire, e ogni tanto ci fermavamo dietro la porta a spiarli. Tommy si arrampicava sulla spalliera del lettino per guardare Leone, che dormiva nel letto accanto, e lanciargli striduli richiami. Per alcuni giorni Leone aveva cercato di sbarazzarsene ficcando il lettino nel ripostiglio: ma la porta era troppo stretta, e il lettino si incastrava sempre di sbieco. Un giorno, non riuscendo a liberarsi del fratello, si era infilato nel lettino accanto a lui. Da allora non avevano più smesso di addormentarsi insieme. “Leo, quanti sono i posti del mondo?”, ha chiesto di nuovo Tommy.

“Ventiquattromila, se non sbaglio”.

  

*Sceneggiatore e scrittore, ha raccontato l’adozione di Tommy in Kenya ne “Il bambino promesso”, appena uscito per Nutrimenti

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