Gli aperitivi spaziosi del nostro oblio di eterni figli

Alberto Schiavone

Per non rischiare di diventare pessimi padri, o almeno padri normali, siamo rimasti e ci siamo trasformati in eterni figli. Per me era così fino a ieri, da domani chissà

La mia generazione (i nati attorno al 1980) non ha grandi meriti riconosciuti. Il lamento e il sarcasmo hanno sovrastato ogni istanza giusta o tollerabile, in favore dell’oblio che inesorabilmente coprirà questo nostro segmento umano. Tra le virtù bisogna però registrare quella di non aver procreato, o di averlo fatto con parsimonia. Indubbiamente un gesto generoso, atto ad agevolare il processo di cui sopra. Tra colpe dei padri, dei nonni, del precariato o degli immigrati, la suddetta generazione ha preso le distanze dal gesto più naturale e ripetuto della Storia maiuscola, in favore ad esempio di quello di comprarsi un bulldog francese a duemila euro e doverne subire la bava.

 

Inoltre, superata la soglia delle possibilità e della consuetudine, ci si è scagliati con livore verso quei fessacchiotti che invece hanno ceduto alla norma e hanno fatto figli. Ecco allora le risatine sui maschi che non escono più la sera, le mamme poco sexy (quelle sexy e formose e arrapate sono ammirate nelle categorie invece frequentatissime del porno), la diaspora da ogni letteratura che preveda i nonni, i nipoti, i suoceri. La domenica (quando il tempo è bello) al parco e la domenica (quando il tempo è brutto) disperati in salotto.

 

Rogna per i vicini di tavolo con bambini al ristorante, fastidio per i bambini in spiaggia, sul treno, al cinema, per la strada. Biasimo per quelle mamme in un angolo acuto che pubblicano sui social soltanto foto dei loro pargoli. Pena per il mondo di là, che impunemente si è voluto regalare e relegare a una sorta di commedia umana riassunta dalle vignette ignobili della Settimana Enigmistica, oppure nella migliore delle ipotesi a faccette un poco sorridenti dietro gli occhiali da sole ai matrimoni di chi proprio non ce l’ha fatta a rimanere come noi.

 

Che ci divertiamo.

 

Nonostante il reflusso gastroesofageo, il monte ore abominevole passato da vecchi sul vecchio Facebook. Nonostante la sensazione che l’aperitivo cui stai presenziando malvolentieri sarebbe sostituibile da altre attività più interessanti, costruttive, educative forse. Ma educative per chi?

 

Ieri una mia conoscente, a uno di questi aperitivi spaziosi, si lamentava del fatto che qualche settimana prima fosse entrata in casa dei genitori dicendo che aveva una bella notizia da dare. Quelli si erano creduti già nonni, invece lei voleva comunicare loro di aver ottenuto la pubblicazione di un proprio racconto in una antologia di racconti. Certo, le avevano fatto le feste. Ma non come, lei sottolineava, se avessero avuto la notizia di una gravidanza.

 

A trent’anni quello che si aspetta da una donna è che faccia dei figli. Questo ha ribadito la mia conoscente. Io ho provato a dirle che la notizia di una gravidanza sarebbe stata in effetti un annuncio più forte e bello. Non l’ha presa bene. Abbiamo tutti bevuto ancora. A casa non ci aspettava nessuno e nessuno si aspettava da noi di essere messo a letto.

 

Tornando a casa leggermente brillo mi era poi venuto in mente una scena di quando vivevo a Bologna, avevo i capelli lunghi ed ero magro. Prendevo in giro coloro che cedevano al mutuo, al passeggino, all’andare a letto a mezzanotte.

 

Una sera un ragazzo con cui avevo condiviso alcune serate mi disse che il suo obiettivo era diventato quello di dare da mangiare ai propri figli. La frase era stata esattamente quella. Mi era sembrata una bestialità, una escrescenza primitiva, un rutto.

 

Eppure quel ragazzo aveva, ha, la mia età. Cosa gli era successo? Da quale vocabolario attingeva le parole? Io ero rimasto su una sedia del bar, a vederlo scivolare via, lui che aveva appena rifiutato un altro giro di birre. Lui che probabilmente stava tornando a casa a preparare pappette per un neonato, un neonato rompicoglioni e fuori luogo. Una casa sicuramente triste e virata alla sussistenza di quegli esseri piccoli che danneggiavano l’andare divertente delle cose. Il cinema, le birrette, le sbronze, gli accoppiamenti selvaggi, lo svegliarsi quando si vuole, la pizza ordinata stando sul divano a guardare le serie televisive, dedicarsi solo alle proprie gatte, leggere molti libri. Sentire nella notte da fuori la finestra, o dal piano di sopra, provenire i pianti di un bambino e pensare: poveri loro.

 

Per non rischiare di diventare pessimi padri, o almeno padri normali, siamo rimasti e ci siamo trasformati in eterni figli. Un disastro di cui nemmeno più la cronaca si impegna a registrare l’evoluzione, perché i millennials sono arrivati e anche loro non vogliono più stare in un’amaca. A saperla montare, un’amaca.

 

Bisogna però dire in conclusione che la mia generazione ha una buona attitudine: quella di saper parlare male della propria generazione. Io per esempio è quasi un peccato che tra pochi mesi diventerò padre, perché sarò costretto poi a dare ragione a questo o quell’altro, e non sapere più in quale mare della Storia stare nuotando.

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