Gli anni migliori

Ilaria Macchia*

Perché i figli delle mie amiche impediscono alle madri di venire alle mie feste? Sono dei mostri

Ho trentasei anni e non ho figli. Una situazione stressante che con me non avrebbe niente a che fare, se non fosse per il fatto che, invece, da quattro anni tutte le mie amiche ne hanno. Anni in cui ho sviluppato una convinzione che si rafforza di nascita in nascita: i bambini sono dei mostri.

 

“Federica non è venuta alla festa, eppure mi aveva detto di sì…”, spiego, dispiaciuta, al marito di questa Federica. Che mi risponde: “Eh, ma con i bambini è impossibile”. “Silvia non l’ho vista nemmeno una volta questa estate”, mi lagno, e la sorella della mia amica mi risponde: “Ma quella tiene la bambina, come deve fare?!”.

 

Mi lamento del fatto che le mie amiche, (qualcosa di più che amiche, esseri con cui ho condiviso la noia e l’ansia dei miei anni migliori) non le vedo più. Se provo a far arrivare loro la voce del mio dispiacere, sospirano e anche se non emettono suono, nell’aria inizia ad aleggiare quella frase lì, quella brutta: tu non hai figli, non puoi capire. Quindi, i figli delle mie amiche impediscono alle loro mamme di stare con me.

 

Eppure, quando sono per caso a contatto con questi bambini, li trovo adorabili e sento addirittura una certa corrispondenza. Queste creature mi piacciono, sono simpatiche e mi sembra che io sia simpatica a loro. Mi abbracciano, mi chiamano zia, mi disegnano dei baci nell’aria.

 

Ma allora, perché impediscono alle mie amiche di frequentarmi? Per un’unica ragione: sono dei mostri.

 

Chiusi nelle loro case, sotto gli occhi dei soli genitori, questi figli si trasformano in esseri dalle cinque teste, dai cinque stomaci, dalla rabbia quintuplicata, dalla cacca incontenibile. Li vedo che urlano e si dimenano disperati: nooo, con la zia nooo. Non vogliono essere abbandonati solo perché quelle sgualdrine delle madri hanno voglia di passare del tempo con me. Quindi le incatenano e impediscono loro di venire ai miei aperitivi e alle mie feste.

 

Ma in fondo – io l’ho capito – non ce l’hanno solo con me: urlano anche contro gli altri zii, contro i loro nonni, contro l’asilo e le maestre perché questi mostri vogliono stare solo e soltanto con i loro genitori. Tutti gli altri esseri del mondo devono essere odiati. Non gli eventuali fratelli, quelli no, perché sono mostri pure loro.

 

Eppure è capitato che qualche conoscente, coraggiosissimo evidentemente, arrivasse a casa mia con un figlio al seguito. Trovandosi fuori dalle sue mura domestiche, questo figlio non era un mostro, era un bambino normale. Piccolo.

 

Ora ad esempio è appena arrivato Paolo. Ha otto mesi, prima mi ha fatto un sorriso, poi si è avvicinato alla piscina, ha messo i piedi in acqua, ha giocato con sua mamma e anche con me. Questo bambino (per ora?) non si è trasformato, non è diventato una creatura spaventosa, non ha pianto, ha mangiato il giusto mi pare, non ha fatto una quantità di cacca incontenibile, non ha urlato: andiamocene via subito!

 

Certo, se ho capito bene come funzionano le regole dei figli delle mie amiche, loro esercitano il potere diabolico soltanto quando rimangono soli con le loro mamme. Per cui quando poi chiedo, timidamente, senza pretese: come mai non siete venuti?, loro rispondono: eh, i bambini.

 

Con quell’aria anche un po’ rotta di cazzo, stanche che io ancora non abbia capito che razza di stronzi sono questi bambini che si ritrovano in casa tutti i giorni.

 

Eppure, per un attimo quando ho visto Paolo, ho pensato: ma che carino, forse solo i figli delle mie amiche sono dei bruti. Forse esistono delle specie di bambini che non si trasformano in mostri, che ti permettono di andare alle feste degli altri, che restano uguali sia fuori che dentro casa… Forse devi solo sperare che ti venga fuori un bambino buono.

 

Sospiro, poi sempre timidamente però imperterrita, chiamo una qualsiasi delle amiche e dico: ciao, so che mi hai già detto che non puoi venire perché la bambina, eccetera… ma ti volevo dire che qui ce n’è uno, di bambino. Si chiama Paolo, ora sta giocando con un gatto, sembra contento.

 

Intanto al telefono sento la figlia della mia amica che dice, dolcissima: “Ciao ziaaa”.

 

“Ciao tesorino – le urlo – passamela”. Ma la mamma mi risponde che è tremenda sua figlia e che quindi non me la può passare. Io ci riprovo, non mi faccio intimorire da quanto è tremenda la figlia della mia amica, e dico a Silvia che abbiamo contattato anche una babysitter bravissima, e infatti questo Paolo adesso sta con lei mentre sua mamma, una bonazza, si fa il bagno in piscina.

 

“Sarà un bambino buono, questo Paolo”, mi spiega Silvia, ma subito dopo chiude perché sua figlia la chiama. Quindi penso che la bambina, quella dolcissima, si è appena trasformata: ha aggiunto le sue cinque teste diaboliche, le braccia rotanti ed è diventata un gigante spaventoso che piange.

 

Però poi ci penso bene e mi viene un dubbio: quello che succede nelle loro case io non lo vedo, e questi bambini non parlano granché e non possono difendersi. E magari se avessero una voce e un pensiero complesso, mi spiegherebbero che a trasformarsi in mostri non sono loro, ma quei genitori – amici e amiche mie – con cui ho condiviso i miei anni migliori.

  

* sceneggiatrice e scrittrice, ha pubblicato “Ho visto un uomo a pezzi” (Mondadori 2017)

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