Una prostituta fotografata dal francese Eugène Atget

Il sogno di Rosa

Alberto Schiavone

Lei conosce i gesti degli uomini, e quelli dei suoi figli che non la vogliono. Però ai soldi dicono sì

Rosa raccoglie il fazzoletto di carta che le è caduto in terra, il ragazzo seduto nel sedile di fronte ha fatto il gesto di anticiparla. Lei non lo ringrazia ma lo raccoglie da sola. Lui ha finto il gesto, lo sa.

Rosa conosce i gesti degli uomini, le espressioni gentili come quelle di rabbia. La sorpresa, la meraviglia. La noia no, perché la noia gli uomini la dedicano solo alle mogli. Alle amanti, forse anche ai figli. Ma non alle loro puttane.

Rosa è una di quelle. Il mestiere lo ha fatto per cinquanta lunghi anni. Lunghi sono di solito i sospiri, i matrimoni, le corse in bicicletta. La cottura di un sugo buono. O una carriera.

Lei ha fatto quello che serviva a colui che aveva di fronte.

 

Come Marcello, che era l’ultimo suo cliente ancora vivo e adesso non più. Rosa sta andando al suo funerale. Il treno regionale per Chivasso è scomodo, lento, lo condivide con persone di cui non ha voglia di sapere i perché. La curiosità è un lusso che non tutti possono permettersi.

Marcello aveva ottantuno anni, si erano rivisti un’ultima volta tre mesi prima. Lei gli aveva offerto del tè, lui aveva chiesto del limone. Avevano chiacchierato e basta, come facevano negli ultimi anni. Lui aveva confessato il suo male, e che gli avevano dato pochi mesi ancora di vita. Lei aveva fatto una battuta, Rosa ha sempre fatto ridere i suo clienti, poi lo aveva un po’ pettinato. Erano rimasti zitti per dieci minuti. Lui si era quindi alzato, lasciando cinquanta euro sul mobile dell’ingresso.

Sarebbero stati gli ultimi soldi guadagnati da Rosa. Certo, per qualche secondo aveva avuto l’istinto di ridarglieli. Un ultimo gesto consegnato alle platee. Ma era solo una puttana, e la sua coscienza ne aveva viste troppe per compiacersi di un atto del genere. Nessun applauso. E poi avrebbe forse umiliato Marcello, ribadendogli la prossimità della fine. Che pagasse.

 

I figli di Rosa, quando anche lei finirà dentro una buca, torneranno per almeno mezza giornata a volerle bene. Quando il notaio leggerà loro il testamento. Perché davanti ai soldi non hanno mai rifiutato il mestiere della loro madre. Se ne sono sempre tenuti distanti. Non le hanno fatto frequentare i nipoti, non l’hanno mai invitata per il pranzo di Natale. Sua figlia a un fidanzato aveva addirittura presentato come madre un’altra donna. Però le avevano detto grazie, quando aveva intestato loro due appartamenti. Grazie. Non: grazie, mamma.

I figli veri. Quelli con il certificato. Perché Rosa ha anche un figlio che di lei non sa nulla. Non sa che esiste, non sa dove sia. Non sa il mestiere che lei ha fatto per una vita. Una vita di strofinacci sporchi e materassi cigolanti, anche. Di avvocati, operai, un tenore, terroni, calciatori, e dagli anni Novanta anche qualche immigrato.

Il figlio che non sa di avere una madre si chiama Vittorio, ha sessantadue anni. Rosa lo aveva avuto a diciassette anni, e si era prima del 1958, quando la legge Merlin permise anche alle prostitute di riconoscere i figli. Prima non era possibile. Vittorio è un figlio del prima.

 

Così Rosa sente che ora, seppellito il suo ultimo cliente, può fare il conto con l’intero suo passato. Potrà andare da suo figlio e raccontargli cosa è successo e perché. Dei suoi anni Sessanta, dei Settanta e di tutti gli altri a venire. Di come lei fosse riuscita a seguirlo a distanza. Persino il giorno del suo matrimonio. Era davanti alla chiesa e si era commossa. Poi era tornata a lavorare.

Rosa ha deciso di entrare nella vita di quell’uomo, di suo figlio, ancora una volta. Si è preparata per mesi le parole. Si è scoperta di fronte allo specchio a recitare, scoprendosi impacciata. Lei che per anni ha retto invece il palcoscenico più intimo e spudorato. Lei chiacchierona, birichina, ridanciana.

 

Davanti allo specchio il copione svaniva, perché le parole grevi e potenti sono quelle più difficili da ripetere. Soprattutto la pungolavano delle domande: cosa vuoi dire a tuo figlio? E che cosa ti aspetti da lui? Che forse è quello che ogni genitore si chiede per tutta la vita. E ciò rendeva Rosa una madre come tutte le altre, ansie e tentennamenti compresi. Gli dirai che sei stata una puttana, e una puttana quando tu nascevi non poteva avere un figlio suo. Chissà cosa dirà lui ai suoi, di figli. Ai nipoti di Rosa. Una frequenta l’Università a Milano, l’altro è rimasto a Torino e lavora in un centro commerciale come cassiere. Vittorio certo sarà colpito, contento di conoscere la sua vera madre. Perché non dovrebbe esserlo? Tutti vogliono una mamma. Anche a sessantadue anni.

Inoltre Vittorio dovrà sapere che Rosa gli ha lasciato un conto corrente tutto per lui. Certamente davanti a quella notizia non potrà rimanere indifferente. L’hanno pagata una vita intera per fingere godimento, per dire come sei bello e come sei bravo. Lei conosce la forza dei soldi, come possono abituare al riso, o al pianto. Vittorio è suo figlio, apprezzerà e dirà grazie. Mamma.

 

L'ultimo libro di Alberto Schiavone è “Ogni spazio felice” (Guanda)

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