Foto via Flikr di Agostino Zamboni

La montagna grossa e viscida mi guarda e dice: non mi riconosci?

Annalena Benini

Il disordine assoluto dei miei figli, la continua tentazione del baratro e le chiavi di casa

Ogni sera, rientrando a casa, inciampo. Oppure calpesto, scavalco, aggiro qualcosa di grosso, a volte di viscido, spesso di sporco, che sta sempre davanti alla porta e appartiene ai miei figli. Se sono al telefono, e non guardo, cado. Se sono di buon umore, rido. Se sono di cattivo umore, urlo. Nelle ultime settimane, in cui sono inciampata spesso, non ho riso nemmeno una volta, e una sera ho afferrato una di queste cose grosse e viscide e l'ho lanciata dalla finestra. La sera dopo, la cosa grossa viscida e sporca era di nuovo lì, tra la stanza dei miei figli e l'unica via di fuga verso il mondo, che è la porta di casa chiusa alle mie spalle. La cosa grossa e viscida era di nuovo lì non perché qualcuno fosse sceso a raccoglierla, visto che non soltanto io l'avevo vietato, ma pochi minuti dopo un signore dalla strada mi aveva urlato se poteva tenerla e io mi ero di nuovo affacciata e avevo urlato: sì certo, ma la cosa era di nuovo lì perché la cosa non è mai la stessa. soprattutto non è quasi mai una soltanto: può essere un pattino a rotelle bagnato di coca cola e circondato di figurine dei calciatori sparse sul pavimento, oppure un grande pupazzo a forma di cane ricoperto di briciole di patatine, la serie completa dei libri per le vacanze su cui è caduta misteriosamente la Nutella, una volta una chitarra con sopra della tazzine da caffè sporche. Se la giornata è stata particolarmente difficile, e io torno a casa con il desiderio vivissimo che qualcuno si occupi di me, allora è probabile che troverò tutte queste cose insieme, ammucchiate davanti a me. La chitarra non si può lanciare dalla finestra perché farebbe male a qualcuno, e così i pattini, lo skateboard, gli spinner, l’armonica a bocca, l’iPad con il vetro crepato, una scarpa da ginnastica.

 

Ho lanciato quasi sempre solo pupazzi di peluche e magliette, e facendo attenzione che sotto la finestra non ci fosse nessuno sotto, poi quasi subito correvo giù con una scusa a raccogliere le prove che siamo una famiglia di selvaggi e fingevo che mi fosse caduto per sbaglio. Mi arrabbia sempre moltissimo, e il mio più grande desiderio è che i miei figli non siano così totalmente, felicemente, assurdamente disordinati e distratti. Io sono e distratta, e da qualche mese ho perso le chiavi di casa dopo essere entrata in casa con le chiavi, ma ho il sospetto che siano finite dentro la cosa grossa e viscida che ogni tanto prende vita e ingoia tutto il resto. Sono disordinata, ma so di esserlo perché ho la nozione di quello che è l’ordine. So come dovrei essere. So che gli occhiali da sole non si lasciano in bagno, e che i libri devono avere un ordine per lo meno di nazionalità, so che bisogna sparecchiare appena si finisce di cenare, so che i documenti devono stare tutti nello stesso posto, sennò si perdono, e so che se comincio a piegare male anche una sola maglietta, quello è l'inizio del disastro per chi come me si trova a pochi centimetri dal caos. E poiché so di trovarmi a pochi centimetri dal caos, come gli ex alcolisti sanno che se bevono un bicchiere di vino è la fine, io so che se cedo anche solo di pochissimo, se ad esempio mi tolgo le scarpe in salotto e non le porto subito via, cederò totalmente e di schianto su tutto e dentro casa cresceranno gli alberi di scarpe. Quindi mi sforzo molto, mi concentro, penso: adesso sparecchio, ecco sto portando via i piatti, ecco ora li sciacquo e li infilo nella lavastoviglie, ecco sto sto mettendo questo libro accanto agli altri dello stesso autore, ecco sto portando mio figlio a scuola e non l’ho dimenticato in ascensore, ecco sto mettendo le chiavi di casa nel porta chiavi che sta sul davanzale (non sempre questo training funziona, ma senza è impossibile vivere).

 

Conosco i rischi, e riconosco quella cosa grossa e viscida, sempre diversa, che mi accoglie quasi ogni sera nell’ingresso di casa, per questo ne ho così tanta paura: anche se sono pattini a rotelle, pezzi di skateboard, resti di merendine, quaderni strappati e mostri di gomma senza più la testa, io so che quella montagna sono sempre io, è la possibilità della mia deriva. Mentre loro, i bambini, non sanno niente, e ogni volta che urlo: raccogliete tutto, mettete a posto, questa non è una stanza è un porcile, perché hai buttato il pigiama per terra, perché l’armadio è spalancato con la roba che cade giù e il gatto che dorme sopra l’unica camicia stirata, perché non trovi più il tuo portafoglio con le paghette del sabato, come hai potuto perdere il libro che stavi leggendo dieci minuti fa, che cosa ci fa il cavatappi sul letto, e cosa vuol dire che stai correndo nudo perché non trovi più i tuoi vestiti, tutti i giorni insomma, loro mi guardano con smarrimento. Non capiscono perché io stia gridando, non comprendono bene nemmeno il senso di quello che dico, e non vedono la montagna grossa e viscida davanti alla porta di casa. Per loro non è una montagna grossa e viscida, è solo una diversa disposizione degli oggetti, è un modo di vivere: passando di lì, vedranno quel pattino a rotelle e se riusciranno a ricordarsi dove si trova l’altro, qualcuno forse pattinerà. “Mamma, lo skateboard sta lì perché così quando usciamo me lo ricordo”. Ma è tutto bagnato e appiccicoso di Coca Cola. “Perché stavo facendo merenda e ho perso un po’ l’equilibrio”. A quel punto, di solito, non ho più nemmeno la voce, non ho più una logica da opporre, non ho più un’autorità, e comincio a pensare che forse hanno ragione loro. Che in fondo potrei togliermi le scarpe e lasciarle un attimo lì, vicino al divano, magari le sistemo domani, e stasera non sparecchio, anzi metto tutto in cima a quella montagna grossa e viscida all’ingresso. Mi attraversa la mente la tentazione del baratro, il caos mi chiama a sé, dice: vieni con noi, tu e tutte le raccomandate che non sei mai andata a ritirare alla Posta, staremo bene tutti insieme. Ma è un attimo: con le mani infilate fra i cuscini del divano, in quello stato di trance, sento con le dita qualcosa di fredd: le chiavi di casa. Mi alzo, respiro a fondo, e stringendo le chiavi in mano, trionfante, ricomincio a urlare di mettere a posto, sennò butto tutto giù dalla finestra. La montagna mi guarda, per ora sconfitta.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.