Illustrazione di Helena Morais Soares per “Storie della Buonanotte per bambine ribelli, 100 vite di Donne Straordinarie”,di Elena Favilli e Francesca Cavallo (©2016 Timbuktu Labs, Inc.)

Formazione nevrotica di una bambina conformista. Mai più torte alle carote

Annalena Benini

Il primo viaggio in autobus di una figlia da sola fingendo di non preoccuparsi, magari contando le pecore

Alla scuola elementare ci facevano scrivere i pensierini su quanto fosse bella e brava la nostra mamma e che torte buonissime alle carote preparasse. Erano gli anni delle carote che facevano molto bene. Se eri una brava madre non potevi scansare la torta alle carote, morbida e arancione. Io odiavo le torte alle carote e mi sembrava spaventoso che una torta fosse arancione e non color cioccolato o color crema, o al massimo color torta di mele con la crema, ma ero una bambina paurosa e per niente ribelle, volevo che tutto andasse bene, tenevo i tumulti per me, ero soprattutto conformista e desideravo che mia madre preparasse le torte alle carote e facesse anche la maestra di catechismo per hobby, quindi scrivevo i pensierini finti per fare bella figura: mi inventavo, avvampando di vergogna, le torte alle schifose carote e un idillio quasi mistico, un’adesione totale a mia madre (non ho mai inventato la madre maestra di catechismo, ma solo perché avevo paura di essere scoperta, e dopo le elementari sono passata ad altri conformismi: desideravo una madre divorziata), inventavo perché mi sembrava che la maestra, quindi il mondo, avesse bisogno di torte e di idillio, allora esageravo, costruivo sul mio quaderno a righe piccole il ritratto della madre di “Piccole donne”, mi sembrava che fosse quella l’unica rappresentazione di un rapporto madre/figlia. E se mia madre non aveva tempo di essere la madre di “Piccole donne”, che convince le figlie a portare la colazione di Natale a una famiglia povera  – io che amo la colazione sopra ogni cosa ero indignata da quel gesto esageratamente generoso, che in un angolo della mente consideravo fanatico e crudele, ma non avrei mai avuto il coraggio di dirlo –, se insomma mia madre era troppo moderna, favorevole alle merendine in sacchetto, indifferente alle carote e trafelata, allora per il mio bisogno di racconto eroico e di successo andava meglio la madre della protagonista del mio libro preferito di quegli anni, “Il giardino segreto”: madre morta per un’epidemia di tifo.

 

Nella vita volevo piacere a tutti e piangevo spesso, non riuscivo mai (non ci riuscirei nemmeno adesso) a discutere con mia madre senza farmi rigare la faccia dalle lacrime, ma nei pensieri avevo un cubetto di ghiaccio al posto del cuore e quindi l’epidemia di tifo era una possibilità interessante. In fondo, se non dicevo niente, se mi limitavo a sembrare buona, potevo permettermi di pensare tutto: anche una vita eroica senza una madre che mi asciuga i capelli per ore perché se un capello resta umido si muore, e se si suda si muore, se si tocca una presa elettrica si muore, se si fa il bagno in mare si muore e se si va alla gita di classe in una fattoria si muore, perché si viene divorati da una gallina o anche perché il pullman al ritorno si rovescia. Sono cresciuta con uno stupore violento verso i pullman che al ritorno non si rovesciano e verso le bambine che prendono l’autobus da sole e non vengono rapite, oppure che non si perdono perché riescono incredibilmente a scendere alla fermata giusta.

 

Così, quando pochi giorni fa mia figlia ha preso l’autobus da sola per la prima volta, a Roma dopo la scuola, ho desiderato di essere morta la notte precedente per un’epidemia di tifo, per non dover sopportare tutta quella preoccupazione. Ho desiderato di essere morta soprattutto perché quella preoccupazione non dovevo in alcun modo rivelarla, mostrarla. Non si diventa mai grandi, ma solo più vecchi, e io sono rimasta la conformista che ero da bambina (ma almeno ho dichiarato il mio odio per la torta alle carote) e quindi ora pretendo che mia figlia scriva e dica di me che sono la madre migliore del mondo, sempre la madre di “Piccole donne” però con il motorino e le larghe vedute. E le torte comprate. Mai di carote. La differenza con mia madre dunque è solo questa: anche io penso che se un capello resta umido si muore, e che se si tocca una presa elettrica si muore, e che il pullman al ritorno si rovescia, ma non lo dico. Mia figlia non deve sapere che io ho paura. Non deve preoccuparsi per me che mi preoccupo. Quindi le ho detto: certo che puoi prendere l’autobus da sola e arrivare fino alla fermata Manzoni con lo zaino che pesa cento chili e senza conoscere nessuna strada di Roma, certo che sono contenta, tieni il biglietto dell’autobus, che bella idea. La notte precedente credo di avere avuto la febbre a quaranta, forse quarantuno, anche le allucinazioni sulle catastrofi urbane. La mattina dopo ho detto solo: ciao amore, perché oggi non porti il telefono a scuola, non si sa mai che possa servirti.  Lei ha detto: no, è scarico. Non essendo morta di tifo, ho dovuto affrontare l’intera mattinata e arrivare fino alle due, l’orario di uscita da scuola.

 

Ogni tanto mi tremava un occhio, ma per il resto stavo bene. Ho mandato un messaggio alla madre del compagno di scuola di mia figlia, da cui sarebbe andata in autobus a fare il lavoro di gruppo. Le ho chiesto se per favore poteva mandarmi un messaggio quando i bambini arrivavano a casa. Era un messaggio allegro, e dal messaggio non si capiva che mi tremava un occhio. La madre ha risposto solo: ok. Poi è cominciata l’attesa: ho calcolato mentalmente la durata del tragitto fino alla fermata, l’attesa dell’autobus, tutti gli intoppi possibili, i semafori, ho anche immaginato lo zaino incastrato tra le porte dell’autobus e mia figlia che grida aiuto e il conducente che ferma l’autobus e apre le porte a metà strada tra una fermata e l’altra. Ma comunque era passato troppo tempo. Mi sono messa a contare le pecore. Le pecore mi calmano. Ho deciso che se andava tutto bene avrei fatto quella sera stessa una torta alle carote. Ho promesso molte altre cose che adesso preferisco dimenticare. Ho ricevuto molti messaggi che non erano quel messaggio e ogni volta ho giurato di eliminare WhatsApp dalla mia vita. Ma alla pecora duemilaequarantasei, proprio mentre la pecora entrava nell’ovile, la madre mi ha scritto: tutto bene, mi ero dimenticata di scriverti, hanno già pranzato. Ho risposto: figurati, grazie, benissimo. Ero così felice, così sollevata, che non avevo più nessun pensiero criminale verso le madri di scuola. La sera a casa mia figlia era entusiasta dell’autobus, dell’avventura, del momento in cui le si è incastrato lo zaino fra le porte e il conducente le ha riaperte, e del fatto che quasi si è scordata di scendere alla fermata giusta ma poi ce l’ha fatta. Io sorridevo, annientata ma fiera di me e di lei. Poi ha detto: devo scrivere il tema su mia madre, cioè su di te. Ah, interessante, e che cosa pensi di scrivere? Che sei carina quando fai finta di non preoccuparti, e anche quando fai finta che stai lavorando e invece chatti. 

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.